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→  ottobre 14, 1999


Alcuni fondi di investi­mento inglesi e americani hanno scritto al Tesoro in merito alla vicen­da Telecom. Perché l’hanno fatto e in che veste hanno indirizzato la missiva? Non hanno certo scritto per invo­care l’uso della golden sha­re, sarebbe ben strano che tale richiesta venisse avanza­ta nel nome dei mercati e da parte di chi dei mercati si ritiene l’unico interprete; an­zi la personificazione. E poi i casi in cui il Governo si riserva il diritto di applicare la golden share sono stati de­finiti da un recente decreto, e da quello bisognerebbe partner per trovare le ragioni giu­ridiche volte a invocarne l’uso. Ma neppure avranno scritto per reclamare giusti­zia in nome di diritti di mino­ranze che sarebbero lese dal prezzo di concambio proposto.

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→  ottobre 6, 1999


Nella vicenda Telecom, tra polemiche a livello istituzionale, ro­venti dibattiti sugli organi di informazione, sanguinose tempeste in Borsa, due domande sono rimaste finora senza risposta: perché Olivetti ha varato il piano? qual è stata la causa che ha scatenato una reazione così imprevista e così violenta?

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→  agosto 14, 1999

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di Mario Draghi

Se il controllo di una società ha un valore, significa che i controllanti ottengono benefici privati a danno dei piccoli azionisti: proprio per proteggerli da questo rischio la legge prevede norme a tutela della trasparenza nelle operazioni all’ interno di un gruppo. Il Tesoro, nel privatizzare Autostrade e Aeroporti di Roma, non venderà con un’ offerta pubblica il 100 per cento delle società , ma metterà all’asta una quota di controllo. Cosi’ facendo, dimostra di ritenere che il controllo ha un valore superiore a quello delle azioni vendute sul mercato. Delle due l’ una: o il Tesoro ha ragione, e quindi la legge è inefficace nella tutela del pubblico e deve essere cambiata. Oppure la legge è efficace, e il Tesoro sbaglia nel mettere all’asta la quota di controllo, mentre dovrebbe collocare il 100 per cento sul mercato.
Questo il ragionamento di Luigi Zingales (“Privatizzazioni, il valore del controllo”, Corriere della Sera, 1 agosto). Ma e’ sicuro, Zingales, che il valore del controllo sia tutto in questa possibilità di manovrare liberamente i consigli di amministrazione e le società di un gruppo per ottenere benefici privati per gli azionisti di controllo? In generale, nel mondo i passaggi di controllo avvengono con un premio rispetto al mercato: è possibile che ciò sia dovuto sempre e soltanto alla carenza delle leggi che tutelano gli azionisti? Non lo escludo, ma mi sembra artificioso pensare che ogni passaggio di controllo, che avviene con un premio rispetto al mercato, riveli solo la capacità superiore dell’ acquirente di vedere, egli solo, queste carenze, nonché la sua perversa volonta’ di approfittarne. Se questo fosse lo stato dei fatti, avrebbe ragione Zingales: il Tesoro, che ha il dovere istituzionale di difendere gli interessi dello Stato e quindi dei contribuenti, farebbe benissimo a pretendere dai futuri azionisti di controllo il valore dei benefici privati che questi si attendono a danno degli altri azionisti. Ma la realtà può essere meno schematica (e il Tesoro meno cinico) di quanto appaia nel ragionamento di Zingales. Il valore del pacchetto di controllo di una società può essere particolarmente elevato per un acquirente in virtù di sinergie il cui sfruttamento andrebbe non a scapito, bensì a beneficio (almeno parziale) degli stessi azionisti di minoranza. Così è stato ad esempio nel caso della cessione alla General Electric del Nuovo Pignone, una privatizzazione che ha rafforzato l’azienda italiana, consentendole di occupare un posto importante nell’organizzazione produttiva e di ricerca e sviluppo di una grande società multinazionale. Si potrebbe obiettare: perche’ non lasciare che sia il mercato stesso a individuare questo soggetto controllante, privatizzando con una Offerta pubblica di vendita (Opv) al 100 per cento, invece di selezionarlo direttamente mediante un’ asta? A parte alcune considerazioni istituzionali, di cui dirò tra poco, la questione, come Zingales sa, è di per sé complessa.
Una prima risposta è questa: vendendo l’ intera società a un azionariato disperso, e’ improbabile che dal mercato emerga un soggetto controllante capace di migliorarne la conduzione. Saranno gli azionisti
stessi a impedirlo, paradossalmente, qualora essi siano perfettamente consapevoli del valore di ogni possibile piano industriale dell’aspirante controllante: gli chiederanno un premio che eliminerà in lui
ogni incentivo a perseguire l’ obiettivo del controllo. Se però, in qualche modo, sul mercato riuscisse a coagularsi un blocco di controllo che andasse al migliore offerente, il mercato arriverebbe al medesimo
risultato al quale perviene una selezione compiuta attraverso un’asta competitiva. In questo caso, il Tesoro non farebbe peggio del mercato.
Ma, come si e’ detto, non necessariamente il mercato raggiunge questo risultato, o, se vi riesce, non necessariamente il modo sarà rapido e indolore. Inoltre, ritengo che il caso più frequente sia quello in cui
varie imperfezioni dei mercati, non sempre modificabili con decreti del Principe, ne influenzino la capacità di valutazioni rapide e corrette.
In questi casi l’ asta competitiva permetterebbe allo Stato di appropriarsi parte di quei benefici generati dall’ acquirente (ad esempio plusvalenze potenziali nel piano industriale), senza eliminare completamente il suo incentivo all’ acquisto del controllo. Ma veniamo ai casi specifici che sono tra loro diversi. Per Aeroporti di Roma l’asta riguarderà la quota di proprietà dell’Iri, pari a circa il 55 per cento del capitale, con l’ obbligo per l’ acquirente di lanciare un’Offerta pubblica d’ acquisto (Opa) sul rimanente flottante.
Nel caso di Autostrade, la quota che viene messa all’ asta non e’ la quota di controllo di diritto, ma il 30 % del capitale ordinario: ciò significa che l’ acquirente non rileva (contrariamente all’ esempio del Nuovo Pignone e di Aeroporti di Roma) il controllo, che potrebbe essere sempre acquisito sul mercato lanciando un’Opa totalitaria, ma paga solo la comodità di comprare il 30 % in un’ unica operazione e,
presumibilmente, di conseguire la maggioranza nella prima assemblea che si svolgerà dopo la privatizzazione. Il Tesoro governa il primo passaggio di proprietà, il mercato governerà i successivi.
Chiedere agli azionisti dell’ originario nocciolo Telecom per credere. Quindi, indipendentemente dalle considerazioni sull’ efficacia della legge, il valore delle quote che il Tesoro mette all’ asta non credo rifletta benefici privati a danno della maggioranza degli azionisti: la legge, infatti, offre loro gli strumenti per cambiare controllante. Veniamo infine agli aspetti istituzionali. Nei casi previsti dalla legge 474 del
1994 sulle privatizzazioni, tra cui prominente è quello delle aziende di pubblici servizi, il Parlamento chiede che le modalità di cessione vengano stabilite tramite un Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) sul quale le competenti commissioni parlamentari esprimono un parere. È quanto è avvenuto con i decreti su Autostrade e Aeroporti di Roma nei quali, come in altri casi, esplicita è la prescrizione che i soggetti controllanti non si trovino in conflitto di interesse. A parte la chiara indicazione in materia, è evidente che quando il venditore deve operare distinzioni tra i diversi potenziali acquirenti la strada del
collocamento integrale sul mercato e’ difficilmente percorribile, (anche se a sua volta l’ambito della stessa asta competitiva si restringe molto). In conclusione, vendere all’ asta la quota di controllo delle società da privatizzare non si giustifica necessariamente con lo scopo di ottenere dai futuri controllanti il valore dei benefici privati di cui essi potranno godere a danno degli azionisti di minoranza. Ragioni teoriche e considerazioni sulla realtà dei mercati inducono anzi a ritenere che tale procedura possa realizzare un’allocazione del controllo superiore (o almeno altrettanto buona) rispetto a quella che risulterebbe da una Offerta pubblica di vendita sul 100 per 100 delle azioni della società, non solo nel senso di selezionare il migliore offerente per il pacchetto di controllo, ma anche di valorizzare la società nel suo insieme. Detto ciò, occorre riconoscere con modestia che non esiste una teoria completa delle modalità ottime con cui privatizzare una società. La scelta del primo consiglio di amministrazione di una società privatizzata può essere fatta con nomina del governo, oppure può emergere spontaneamente dalla prima
assemblea. Entrambe le strade sono state percorse in Paesi con più solide tradizioni di mercato delle nostre. Il legislatore della 474 fu più prudente: ritenne, data l’esperienza italiana in materia, che la prima strada non avrebbe incontrato il favore del mercato e valutò che la seconda avrebbe allora prodotto effetti distorsivi, dato lo scarso grado di contendibilità previsto nella precedente legislazione sui mercati.
La scelta del Tesoro riflette questa storia istituzionale e la sua evoluzione: anche in passato, per le operazioni direttamente gestite, ma soprattutto oggi che la legislazione in materia di Opa ha liberalizzato il mercato del controllo, il Tesoro, per le società di maggiore dimensione, offre sul mercato una proprietà contendibile accompagnata da un’ offerta al pubblico. Imperfezioni dei mercati, espressioni di volontà politico – istituzionali rendono difficili queste scelte proprio perché esse avvengono in un ambiente lontano dai nitidi paradigmi della teoria: gli errori sono possibili da parte del mercato e da parte del governo, ma ciò che conta e’ avere leggi che permettano al mercato di correggere le scelte iniziali, sia quelle proprie, sia quelle del governo.

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Provate a chiedere a un amico di dire, con una parola sola, che cosa significa privatizzare, nove su dieci vi dirà: vendere. Vendere vuol dire (di solito) incassare danaro. Per farne cosa? Qui non ci sono dubbi, la legge è chiarissima: tutti i proventi delle privatizzazioni devono andare a ridurre il debito pubblico.

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→  luglio 12, 1999


La presenza pubblica degli enti locali nell’economia

Il comune di Bergamo ha un consigliere nella Aler, e due nella Galleria d’Arte Moderna, la Provincia uno nella Casa dell’Orfano: a quale filosofia risponde tutto ciò? Il comune di Bologna nomina due consiglieri dell’aeroporto Guglielmo Marconi, uno del Centro Agroalimentare, e due della Fondazione Cassa di Risparmio: in base a quale logica economica?

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→  luglio 8, 1999


Si isti et istae cur non ego?

“ Si isti et istae cur non ego?” Negli anni dal 1993 al 2000 l’Irlanda sarà cresciuta del 78%, la Spagna del 23, il Regno Unito del 19, la zona dell’euro del 18: e l’Italia del 13, peggio perfino della Germania.
La Spagna può snocciolare altri indicatori di crescita, quello del PIL dell’anno in corso, o quello dell’occupazione (che dal 1997 al 2000 fa registrare questa impressionante serie di aumenti percentuali: 2,9 – 3,4 – 2,6 – 2,4), o quello del capitale fisso. “L’Italia da dieci anni cresce di meno degli altri paesi tra cui abbiamo voluto essere, e questo è un problema di fondo”: l’ha riconosciuto Massimo D’Alema, nel suo intervento ieri al Senato.

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