È un fatto eccezionale che il capo di un Governo apra una polemica nei confronti dell’establishment industriale e finanziario del suo Paese, una polemica “aspra, a tratti sprezzante”, come riferisce Ferruccio de Bortoli ( Il Sole 24Ore del 7 Aprile) dopo la conversazione con Romano Prodi. Questo establishment non è reo di atti sediziosi, né di avergli voltato le spalle per il suo avversario politico, ha la sola colpa di non riuscire a “mettere su una proposta industriale per gestire la più importante delle società di telecomunicazioni al mondo”. Dopotutto sono gli imprenditori che selezionano gli investimenti.
Un atteggiamento del genere da parte di Prodi è ovviamente autolesionistico. Ma egli non fa certo parte della “fragile falange degli eautontimorumeni” di cui parla Italo Calvino, ha “un midollo di leone”. Un fatto così eccezionale richiede una spiegazione politica. E questa sta in un passato recente, quello del suo primo Governo, delle grandi privatizzazioni, della legge Draghi, dell’euro. Quando questi risultati sono stati criticati, e timide ed impacciate sono state le reazioni, Prodi ha taciuto. Oggi il Prodi 2 è critico verso il Prodi 1. Se esagera nella polemica, se cavalca la protesta, è per bloccare critiche dall’interno del Governo e della maggioranza di oggi per ciò che egli fece 10 anni fa.
Da lì invece si deve ripartire. La prima ragione per privatizzare non fu finanziaria (il fare cassa, come sostiene ancora Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di domenica), ma politica: cessare di essere la massima economia statizzata dell’occidente, metà del PIL intermediato dallo Stato. Fu un processo logico: le banche, le autorità di regolazione, l’OPA e la liberalizzazione del mercato del controllo. Una strategia di vendita in due tempi, governare il primo passaggio e lasciare al mercato quelli successivi “Imperfezioni dei mercati, espressioni di volontà politico-istituzionali rendono difficili le scelte […] errori sono possibili da parte del mercato e da parte del Governo, ma ciò che conta è avere leggi che permettano al mercato di correggere le scelte iniziali”. (Mario Draghi: Il mercato, il Tesoro, le regole, Corriere della Sera, 14 Agosto 1999).
“Imperfezioni del mercato” ci furono senz’altro: ma quante e quanto più distorcenti furono, dopo di allora, le “espressioni di volontà politico-istituzionali”! Non si volle evitare che le Fondazioni (le cui nomine sono influenzate dalla politica) potessero partecipare al controllo di banche e imprese; non si sono formati fondi pensioni; le banche, controllando le SGR, intermediano praticamente tutti i flussi finanziari. “Ciò che conta è avere leggi”, scriveva Draghi. Invece è rispettare le leggi che è giudicato anomalo: a D’Alema non si perdonerà mai di aver lasciato che si applicasse la legge sull’OPA; per la decisione di non far partecipare all’assemblea le azioni Telecom di proprietà del Tesoro, adesso si immaginano chissà quali retroscena o retropensieri. Il Tesoro gestiva le partecipazioni in ottica puramente finanziaria, e aveva quindi bisogno di un mandato politico; non votare in assemblea era l’unico comportamento coerente con la decisione di non interferire. (Il 5% tra Tesoro e Bankitalia fu poi del tutto ininfluente: all’assemblea in cui doveva essere presente il 33% del capitale, si presentò solo il 18%).
Il Prodi 1 ha messo fine all’esclusione, durata mezzo secolo, come ricorda Guido Tabellini sul Sole di domenica, dei privati da tutti i grandi settori della finanza, e dell’industria. Ma la politica ha continuato ad interpretare in modo distorto il ruolo che le compete in un’economia di mercato. Con il Prodi 2 a livelli inusitati. Si eccitano le reazioni populiste bollando come sciagure meccanismi di mercato che puniscono i meno efficienti. Perché si sviluppino imprenditori e imprese, sono essenziali il rispetto dei contratti e del diritto di proprietà: e invece il Governo straccia i contratti, limita il diritto di vendere il proprio bene, minaccia espropri. Invece di rafforzare le Autorità, di interrogarsi sulla loro competenza, ne invade il loro campo, perfino stabilendo prezzi. Invece di contrastare il costruttivismo giuridico, lo si diffonde: per la separazione della rete, costretti ad accettare un modello non giacobino, lo si stravolge, trasformandolo, da contratto liberamente discusso e sottoscritto, in norma di legge (magari per decreto).
La reazione del Presidente del Consiglio è contraddittoria: perché é proprio la pervasiva presenza della politica nell’economia a scoraggiare le energie migliori dell’imprenditoria a esprimersi e a osare. Bisognerebbe che il credito fosse erogato in base ai meriti e non alle relazioni: succede il contrario quando si usa la moral suasion per incoraggiare banche, certe banche, a fare a prezzo più caro operazioni che avevano giudicato non interessanti a prezzi inferiori, e a proporsi per gestire imprese senza averne esperienza.
Dopo 50 anni di occupazione da parte della politica, ci andranno generazioni per formare strutture finanziarie e industriali capaci di competere anche nei settori da cui erano state lasciate fuori. Ma se la politica pretende di rioccupare il posto che 10 anni fa aveva mostrato di voler abbandonare, il processo si inverte. In poche settimane si può tornare indietro di anni.
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