→ gennaio 3, 2013
Intervista di Paolo Nessi
Il famigerato Fiscal Cliff, ovvero il baratro fiscale, una catastrofe recessiva, che avrebbe prodotto un aggravio contributivo per il 98% della popolazione americana, è stato evitato; senza l’accordo tra la Casa Bianca e il Congresso, sarebbero scaduti gli sgravi previsti dall’Amministrazione Bush, e quelli introdotti da Obama.
Contestualmente, sarebbe entrato automaticamente in vigore, dal primo gennaio, un piano di tagli alla spesa per un totale di 607 miliardi di dollari solo nel 2013. L’intesa raggiunta dal vicepresidente Joe Biden e dal leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnel prevede, a questo punto, l’aumento delle tasse per i redditi superiore ai 450mila dollari l’anno e rinvia di due mesi il piano dei tagli alla spesa. Franco Debenedetti, editorialista de IlSole24Ore, ci espone le sue valutazioni.
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→ ottobre 10, 2010
Patty Berglund, la protagonista di Freedom di Jonathan Franzen, si domanda se la sua vita non sarebbe stata differente se avesse interrotto la lettura di Guerra e Pace prima di arrivare alle pagine in cui Natasha Rostova, destinata a Pierre, s’innamora del suo amico il Principe Andrei. Forse, pensa, non avrebbe ceduto all’attrazione per Richard Katz, il trasgressivo cantante rock, l’esatto opposto del suo amico del cuore Walter. E’ Walter quello che Patty sposa, ma quell’attrazione rimane sepolta nel suo cuore, dovranno passare trent’anni perché esploda.
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→ agosto 31, 2010
di Paul Krugman and Robin Wells
In the winter of 2008–2009, the world economy was on the brink. Stock markets plunged, credit markets froze, and banks failed in a mass contagion that spread from the US to Europe and threatened to engulf the rest of the world. During the darkest days of crisis, the United States was losing 700,000 jobs a month, and world trade was shrinking faster than it did during the first year of the Great Depression.
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→ febbraio 3, 2010
da Peccati Capitali
“Sono Scott Brown, guido un pick-up”: si presentava così ai comizi, il repubblicano che è riuscito a sottrarre ai democratici, dopo 47 anni, il seggio senatoriale del Massachusetts. Obama aveva preso l’auto come simbolo dei cambiamenti che intendeva portare nella società e nei consumi americani? E lui prende come simbolo i pick-up, i SUV, i loro motori ultrapotenti, le loro dimensioni esagerate per rivolgersi a un’America orgogliosa della propria forza, gelosa della libertà di muoversi nei grandi spazi, che non si ritrova nelle macchine risparmiose e fighette progettate in Europa.
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→ ottobre 13, 2008
La crisi americana e i fascistelli italiani
di Antonio Polito
C’è un nesso tra gli editoriali dei giornali che annunciano la fine del secolo americano, dell’egemonia americana, della leadership americana, e la masnada di fascistelli italiani che salutano romanamente allo stadio di Sofia? Ovviamente no. Ma potrebbe esserci presto. Questo mondo “multipolare” che dovrebbe nascere dal grande disordine mondiale, di cui tutti ci annunciano gongolanti l’avvento, c’è già stato, prima della Grande Guerra e tra le due guerre, e ha prodotto in Europa i peggiori rigurgiti nazionalisti, populisti, razzisti, xenofobi, e infine fascisti e nazisti. Anni in cui non c’era egemonia americana. Anni in cui la crisi economica ha liberato le forze più oscure che si agitano nel petto degli uomini. Se vogliamo cercare le radici di questo nuovo fascismo pop, più moda che ideologia, più comportamentale che politico, talvolta violento e talvolta solamente esibizionista, dobbiamo dunque cercare nel mainstream della cultura nazionale, e non nei campi hobbit e nemmeno nelle convulsioni finali del partito che una volta lo rappresentava, e che è scioccato anche più di noi dal risorgere di un fenomeno da cui i Fini, i La Russa, gli Alemanno credevano di essersi finalmente liberati.
Primo: io non credo alla fine del secolo americano. Anzi, mi sembra che la crisi stia clamorosamente confermando la permanente centralità dell’America. Nessuno di voi va a guardare al mattino come ha aperto la Borsa di Shangai, ma alla sera sappiamo tutti come ha chiuso Wall Street. È vero che l’America è l’epicentro del terremoto, ma di conseguenza è anche il luogo dove sta nascendo ciò che verrà dopo. Se ogni crisi è trasformazione e opportunità, si può star certi che la trasformazione avverrà prima là e l’opportunità, se mai ce ne sarà una, scaturirà da là. Quali sarebbero questi nuovi poli che possono sostituire l’America nell’arco della nostra vita? La Cina, il cui socialismo di mercato fondato sulla burocrazia del partito unico distribuisce latte al veleno a decine di migliaia di bambini? La Russia, la cui Borsa va più a rotoli di Wall Street mentre i soldati marciano in Georgia? L’Europa, la cui ambizione culturale e politica è naufragata di fronte all’emergenza finanziaria, sollevando il velo su 27 paesi in ordine sparso, i cui leader fanno un vertice a settimana, si trovano d’accordo sul loro disaccordo, e poi tornano a casa e ognuno fa a modo suo con i suoi soldi e le sue banche e i suoi elettori? L’America ha commesso grandi errori in questi ultimi anni. Errori di arroganza e di “greed”, di avidità. Greenspan ha largheggiato col credito e Bush con le armi intelligenti. Però se alla fine di questa storia se ne uscirà con il capitalismo – un capitalismo magari diverso e con meno derivati – c’è solo un paese che può esserne il traino, e quello è l’America. Soprattutto perché, tra venticinque giorni, avrà di nuovo un leader.
Oppure non è così, io sono un inguaribile filo-americano e il mondo che verrà non avrà mutui a tassi bassi, carte di credito per tutti, accesso facile a Internet e tv satellitare. E allora, se così sarà, potete star sicuri che ci saranno molti più fascisti. Consapevoli e inconsapevoli. Del resto il nostro dibattito politico già trabocca di pensiero autoritario. Il premier preferisce ormai apertamente il Cremlino alla Casa Bianca. Il ministro del Tesoro ci ha avvisato che il suo motto è “Dio, patria e famiglia”. I fantasmi di Maurras e di De Maistre già si aggirano nell’arena pubblica. I pestaggi ai neri non nascono di là, ovviamente; ma sono l’equivalente di tanti piccoli casi Dreyfus, il solidificarsi di un sentimento popolare che individua nelle demo-plutocrazie la colpa dei mali, nella concorrenza dello straniero la causa dell’impoverimento, nell’establishment dei banchieri e degli uomini d’affari quel demonio che l’arte di Weimar dipingeva con tanta grottesca efficacia mentre covava l’uovo del serpente nazista, e che oggi è raffigurato nelle fiction di Annozero. Non dico che da questa crisi si uscirà nel modo vergognoso in cui l’Europa uscì da quella del ’29, a loro Roosevelt e a noi Hitler e Stalin e Franco e Salazar. Ma prego Iddio che l’America conservi la sua leadership e che il secolo che è appena cominciato resti almeno per un po’ americano. Perché se così sarà, allora possiamo star tranquilli che per la terza volta nella storia saprà svuotare di senso i nostri fascistelli allo stadio, i nostri teppistelli di Tor Bella Monaca, i nostri razzistelli mafiosi di Castelvolturno, con la forza del benessere, di Hollywood, delle Visa e di Google, diffondendo i valori democratici dell’everyman, dell’uomo attivo e laborioso che prova a vincere la sua lotta per l’esistenza nel tanto vituperato mercato, invece che nella guerra dell’odio col vicino di casa. E allora forse, ma solo allora, si riaprirà una prospettiva per questa vecchia sinistra europea, che ha già perso tutto, ma che se si lascia incantare dalle sirene del populismo post-americano perderà presto anche l’onore.
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di Franco Debenedetti – Il Riformista, 14 ottobre 2008
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di Antonio Polito, Il Riformista, 11 ottobre 2008
→ febbraio 1, 2008
Occidente contro Occidente
di Andrè Glucksmann
Prefazione di Franco Debenedetti
Editore Lindau, 2008
pp. 214
Occidente diviso, Occidente unito. Il che è la stessa cosa. Perché in Occidente, dai tempi di Atene, spada in un pugno e denaro nell’altro, sono mossi — a differenza dell’Oriente autocratico o teofanico — da una teoria della sovranità e della legittimità del pensiero condiviso, come insegna Leo Strauss nel suo Gerusalemme e Atene, studio sul pensiero politico dell’Occidente. Per quanto oggi più che mai semplificatoria appaia la sintesi hegeliana del movimento della storia universale, resta di una certa validità quello che Jakob Burckhardt scriveva, nelle sue Riflessioni sulla storia universale, «che la storia universale sia la rappresentazione del modo come lo spirito pervenga alla consapevolezza del proprio intimo significato: vi dovrebbe aver luogo una evoluzione della libertà, in quanto nell’Oriente era libero uno solo, poi presso i popoli classici pochi, e l’era moderna rende liberi tutti».
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