Occidente contro Occidente

febbraio 1, 2008



Occidente contro Occidente
di Andrè Glucksmann
Prefazione di Franco Debenedetti
Editore Lindau, 2008
pp. 214


Occidente diviso, Occidente unito. Il che è la stessa cosa. Perché in Occidente, dai tempi di Atene, spada in un pugno e denaro nell’altro, sono mossi — a differenza dell’Oriente autocratico o teofanico — da una teoria della sovranità e della legittimità del pensiero condiviso, come insegna Leo Strauss nel suo Gerusalemme e Atene, studio sul pensiero politico dell’Occidente. Per quanto oggi più che mai semplificatoria appaia la sintesi hegeliana del movimento della storia universale, resta di una certa validità quello che Jakob Burckhardt scriveva, nelle sue Riflessioni sulla storia universale, «che la storia universale sia la rappresentazione del modo come lo spirito pervenga alla consapevolezza del proprio intimo significato: vi dovrebbe aver luogo una evoluzione della libertà, in quanto nell’Oriente era libero uno solo, poi presso i popoli classici pochi, e l’era moderna rende liberi tutti».

Tale resta il senso primo dell’Occidente: e questo è un libro sulla nuova ridefinizione che l’Occidente sta attraversando, concluso il secolo XX che smentiva la fine della storia. È un libro consustanziale all’idea stessa di libertà occidentale e universale, è un bisturi adoperato con decisione su quanto la storia sta dispiegando sotto i nostri occhi e su come la comunità dei Paesi liberi e democratici ritenga di intervenirvi. È, soprattutto, una lunga e appassionata requisitoria contro i danni che l’impotenza, figlia del venir meno di una critica condivisa, rischia di infliggere all’Occidente stesso e soprattutto al mondo, se non si sa essere all’altezza della sfida. Sul rischio che una parte vasta, molto vasta, dell’Europa e una parte anche dell’America continuino a non capire ciò che si è messo in moto dopo l’11 settembre, dopo l’intervento in Afghanistan, dopo la guerra in Iraq. E proseguano a dilaniarsi in un conflitto politico e ideologico destinato a sfibrarle, a delegittimare il corso nuovo che la politica mondiale ha preso tumultuosamente a seguire dal settembre 2001, senza sostituirvi nulla di meglio che non sia il ritorno di ciascuno a un ormai impossibile ruolo di mero osservatore.
Da questa ritirata in se stessi, impossibile ma vagheggiata da un’ampia coalizione di diversi colori politici e impostazioni ideali, il mondo e i suoi popoli hanno da perdere, prima dell’Occidente.
E non certo perché sia possibile oggi una teleologia della storia, nemmeno in nome della democrazia occidentale. Piuttosto, perché siamo accomunati comunque da ciò che Ralph Waldo Emerson descriveva nella sua Self Reliance, quella sorta di inno alla fiducia dell’uomo americano in se stesso che continua, a distanza di 160 anni, a risultare un pregevole baedaker senza di cui l’europeo non comprende il limite ma anche la grandezza di ciò che contraddistingue l’Occidente oltreatlantico: «La società è un’onda. L’onda avanza, non avanza l’acqua di cui è fatta. La stessa particella non sale dal cavo alla cresta. La sua unità è solo fenomenica».
È un fatto che a fare avanzare l’onda dopo l’11 settembre è stata Washington. Al suo fianco, da Londra, Tony Blair. La Francia, da cui scrive appassionandosi e criticandola Glucksmann, è alla testa di quella parte dell’onda che rifiuta tenacemente «dal cavo alla cresta». Il rischio è appunto che l’unità fenomenica occidentale si infranga.
Chi scrive non è per un’unità purchessia. Tanto meno per un’adesione acritica all’unilateralismo americano. Figuriamoci. Non lo è nemmeno Glucksmann. Ci battiamo però ciascuno a suo modo — magari avessi io la sua fiammeggiante verve intellettuale — perché l’Europa del «fronte del no» capisca i suoi errori. Comprenda che solo un ruolo fortemente attivo può influenzare, ammorbidire e forse candidarsi a bilanciare l’unilateralismo americano. Accetti e sia pronta a praticare anche la forza, contro il terrorismo, e non creda di esaurire la propria missione di presunta «superiore civiltà» nel mito onusiano della diplomazia multilaterale. E rifiuti ogni equiparazione tra la lotta al terrorismo e ai regimi autocratici con la presunta «egemonia americana risorgente nel mondo», che tanta sinistra ha descritto con tale forza da finire per crederci. Intossicando il dibattito pubblico fino al punto che, quando il rapporto finale della commissione d’inchiesta guidata da Lord Hutton scagiona in pieno Tony Blair, e accusa invece la Bbc di aver manipolato le informazioni offerte al pubblico volte a screditare le ragioni per cui si è intervenuti in Iraq, molti finiscono per credere che comunque anche Lord Hutton abbia torto e gli enragés ragione.
Certo, gli interlocutori o per meglio dire gli avversari intellettuali cui si rivolge l’arringa di Glucksmann sono innanzitutto francesi. L’anima spirituale che ha innervato la pervicace battaglia di Dominique de Villepin contro gli Stati Uniti e la loro «muscolocrazia». Non sono molti gli intellettuali che come Glucksmann o, da punti vista diversi, Pascal Bruckner, hanno avuto il fegato di rompere il fronte «sovranista» pressoché unanime che Oltralpe ha finito per cementarsi intorno alla posizione di De Villepin. E a dire il vero, ad anni di distanza ormai dall’11 settembre, caduto l’Afghanistan dei talebani, caduto il regime di Saddam Hussein e catturato il suo autocrate e sanguinario Fϋhrer, perdurando la guerra al terrorismo proiettata sull’intero scenario mondiale, è proprio la leadership assunta dalla Francia contro gli Stati Uniti il punto centrale da comprendere e dibattere. Per questo il libro di Glucksmann è centrale anche per un lettore italiano. E a maggior ragione se si tratta di un lettore che si riconosce in una cultura politica contraria all’unilateralismo americano e alla guerra in Iraq. Farsi un’idea precisa della scelta francese significa avere un’idea precisa dell’intera fondatezza delle ragioni di chi ha scelto di dire no. Se molte altre possono essere le ragioni politiche e filosofiche che inducono una vasta parte delle opinioni pubbliche europee a opporre il loro no all’amministrazione Bush, da un punto di vista di politica internazionale queste ragioni sarebbero rimaste pura intenzione o sfogo emotivo se non avessero trovato la caparbia iniziativa diplomatica interdittiva svolta con pervicace convinzione da Jacques Chirac e Dominique de Villepin. A costo di spaccare l’Onu, l’Europa, il mondo. L’Occidente, innanzitutto, appunto.
Non è una posizione che ha mietuto consensi solo in Europa. Per averne un’idea basta leggere gli accenti di sincera adesione, quasi di commozione personale, dell’appassionata prefazione riservata da un grande studioso ormai americano a tutti gli effetti come Stanley Hoffmann al recente Un autre monde, la raccolta in volume di tutti i discorsi di De Villepin. «Un idealista rivoluzionario», così lo descrive il politologo di Harvard. Ma l’ex discepolo di Raymond Aron fa torto al suo maestro quando lo raffigura come «l’uomo che ha messo in guardia gli Stati Uniti contro i limiti della propria stessa potenza», «che ha dato alla politica estera della Francia un solido inscindibile ancoraggio alla morale sostituendola alla politica del puro interesse nazionale e di potenza». L’uomo che si distingue dal cinismo con cui Jacques Chirac ha sempre gaullisticamente guardato ai diritti umani e alle ragioni del diritto internazionale. L’uomo le cui ragioni «non sono minimamente messe in discussione dalla cattura di Saddam il 14 dicembre 2003, evento buono a rafforzare il morale delle truppe anglobritanniche ma che non leva un grammo di legittimità alle posizioni sostenute dalla Francia». L’uomo che «ricolloca l’iniziativa della Francia in un contesto che legittimamente aspira a coincidere con quello europeo, volto a realizzare un nuovo ordine della sicurezza collettiva che riprenda la tradizione di Briand e Wilson in una visione “onusienne” del mondo, respingendo ogni pretesa neoimperiale degli Stati Uniti d’America e contrapponendovi un governo multilaterale e bilanciato della mondializzazione».
No, io non credo affatto che ricorderemo negli anni il 14 febbraio 2003, il giorno in cui De Villepin pronuncia alle Nazioni Unite il. suo discorso contro la guerra, invece del giorno della cattura di Saddam. Ed è una convinzione che non nasce affatto da un’adesione passiva o da un accoglimento delle posizioni sostenute dall’Amministrazione americana. Semplicemente, invito tutti i lettori alla disamina che Glucksmann svolge nelle pagine seguenti, a proposito della presunta «eticità» del no intransigente opposto dal Quai d’Orsay. In che cosa mai si è sostanziato? In una altrettanto aspra campagna contro Vladimir Putin per il pugno di ferro che Mosca riserva alla Cecenia, forse? Ma quando mai. Non c’è traccia, nelle posizioni di Parigi come in quelle più generalmente europee, di una reale dimensione «etica» fondata, oltre che sul puro ripudio della guerra contro il terrorismo, su un culto davvero intransigente dei diritti umani. E finché non ce ne sarà traccia, l’esame del no all’intervento in Iraq continuerà a essere fondato solo sul no alla guerra e il no agli Usa. Posizioni che hanno un proprio fortissimo radicamento nella storia della sinistra europea. Ma che devono fare i conti con la realtà innegabile per cui i patti BriandKellog non sono mai valsi a evitare conflitti mentre la scelta di rompere la solidarietà atlantica, già compiuta dalla Francia tirandosi fuori dall’integrazione militare della Nato e affondando la CECA con De Gaulle, è valsa all’Europa un ruolo di assoluto secondo piano nel fronteggiare la caduta del comunismo. L’Europa terza forza era quella che con Mitterrand e Andreotti tentò fino all’ultimo di evitare una riunificazione tedesca che, alla fine, deve più alla solida «confrontation» opposta a Mosca da Washington e Londra che a ogni moralistica e velleitaria Ostpolitik. E c’è poco da consolarsi che al silenzio di Parigi sulla Cecenia da Roma si aggiungano gaffe come quella di Silvio Berlusconi a sostegno della più trita verità putiniana di regime.
Ammettiamolo. Se si adotta un criterio freddo di analisi incentrato sulle mere conseguenze del «no alla guerra in Iraq» sul tavolo della politica internazionale, è difficile dar torto ad analisi impregnate di realismo come quelle svolte da un altro grande francese come Pierre Hassner. In La terreur et l’empire e in Washington et le monde. Dilemmes d’une superpuissance svolge un circostanziato atto d’accusa riguardo ai contraccolpi a cui il no ha esposto Francia ed Europa. Ad esempio l’aver paradossalmente dato una mano proprio ai «falchi» del Pentagono rispetto alla linea più onusiana di Colin Powell. Una caduta verticale di peso della voce europea nel «quartetto» in teoria incaricato di esercitare un continuo ruolo di impulso nella determinazione di una soluzione equa e stabile del conflitto israelopalestinese e dell’intero equilibrio nello scacchiere mediorientale, dalle pressioni su Bashar Assad al sostegno a re Abdallah di Giordania all’indurimento delle pressioni sulla corte saudita perché adotti una linea più ferma contro l’estremismo islamico. L’aver poi sostanzialmente assistito dalla finestra a tutti gli sviluppi che si sono susseguiti dalla cattura di Saddam, la rinuncia di Gheddafi agli arsenali di distruzione di massa, la mediazione sinoamericana grazie alla quale il regime della Corea del Nord è sottoposto a una ben più energica pressione che in passato affinché rinunci alle armi e al terrore.
E l’Europa, che mette i bastoni tra le ruote all’ingresso nell’Unione della Turchia guidata dal musulmano moderato Taypp Erdogan, può descriversi come una potenza che lesina il proprio impegno nella lotta al terrorismo in nome di quella «superiore moralità» vantata dai sostenitori del no all’intervento in Iraq? Macché. È un’idea di Europa che decide freddamente di puntare tutte le sue carte non su un’ipotesi alternativa di lotta al terrorismo ma di scommettere l’intera sua posta in uno spericolato gioco d’azzardo. Quello di sostituirsi agli elettori americani. Di indicare loro che non c’è alternativa. Che nel prossimo novembre essi devono fare una sola scelta, perché la frattura dell’Occidente torni a sanarsi e perché finalmente la mondializzazione abbandoni ogni seduzione di impossibile egemonismo unilaterale a stelle e strisce. Che caccino George Bush, facciano a noi e a se stessi questo grande favore. Dimentichino che fu Bill Clinton il Presidente che mise in piedi la macchina a tempo della raffica di risoluzioni Onu via via tradite da Saddam. Scordino che lo stesso Clinton fu a un soffio dall’intervento militare, all’indomani della cacciata dall’Iraq degli ispettori delle Nazioni Unite. Ignorino che tutte le valutazioni condotte d all’intelligence, in base alle quali si stimava altamente probabile la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa, si dovevano all’amministrazione democratica. Scelta azzardata, dimenticare che John Forbes Kerry ha votato anch’egli per la guerra in Iraq.
E qui viene in gioco un tema che nelle pagine di Glucksmann resta più in secondo piano, ma che assume tutta la sua importanza man mano che ci si avvicina alle elezioni americane. Per chi in Europa si riconosce in posizioni come quelle di Glucksmann, biasimare aspramente l’«idealismo rivoluzionario» di De Villepin non significa affatto condividere l’«idealismo conservatore» dei neocon americani. Anzi, se c’è un’insopportabile tendenza manifestatasi con larghezza nella sinistra europea, e soprattutto in quella italiana, è stato il sistematico tentativo di considerare senza alternativa questa scelta. Talché chi ha manifestato e argomentato le proprie perplessità per il no sostenuto dalla parte maggioritaria della sinistra, si trova a esser spesso indicato con disprezzo come servo dei neocon americani. È una sciocchezza, che purtroppo dice molto del dogmatismo ideologico che ancora permea tanta parte della sinistra, nel nostro Paese e non solo.
Certamente la profonda frattura critica che si è rivelata su questi temi anche nella campagna elettorale americana è un fenomeno innegabile e di straordinaria importanza. Ma, con tutto il rispetto, credere che gli elettori americani faranno proprie le posizioni espresse da un Tariq Ali nel suo Bush in Babylon – The Recolonisation of Iraq, o che si strappino di mano l’edizione americana di Après l’Empire di Emmanuel Todd in cui si profetizza il tramonto dell’America, significa non sapere che cosa è l’America e perché l’iperliberal Howard Dean è caduto sul campo delle primarie, non appena il processo elettorale ha preso a diventare una cosa seria e non più una mera mobilitazione di studenti e volontari su Internet. Il fattore «Bush hatred» ha polarizzato il confronto pubblico con accenti di radicalità che sembravano confinati all’asprezza delle campagne di delegittimazione personale dei leader che si vedono talora in atto in Europa e che, soprattutto, sono una caratteristica di cui non bisogna andare poi troppo fieri della recente tradizione politica italiana. Tuttavia la politica e il senso della realtà impongono all’Europa di guardare al mainstream americano, non al titolo più gridato nelle rassegne stampa e destinato a fare più notizia. Potrà piacere, a una certa sinistra europea, leggere le violente pagine che l’ebreo di nascita ungherese George Soros rivolge all’Amministrazione Bush nel suo The Bubble of American Supremacy, potrà esultare alla sua invettiva finale che non è quella l’America per cui ha abbandonato l’Europa. Così come Robert Jay Lifton potrebbe essere senza dubbio l’ospite d’onore ideale per una trasmissione dedicata alle elezioni americane da Michele Santoro, visto che nel suo Superpower Syndrome non si perita di collegare direttamente la politica estera di Bush e dei neocon a un delirio di potenza e a scompensi di chiara natura psichica. Ma io credo al contrario che una solida sinistra europea riformista, attenta alla concretezza della necessità della lotta al terrorismo e a dispiegare con credibile forza una propria linea di intervento attivo per bilanciare la tendenza americana all’unilateralismo, abbia bisogno di abbeverarsi ad altre fonti.
Magari ad America Unbound di Ivo Daalder e James Lindsay, due solidi veterani dell’amministrazione Clinton oggi in forze alla Brookings Institution e al Council of Foreign Relations, che pur avanzando critiche solide ai risultati sin qui ottenuti dall’Amministrazione compiono un’analisi spassionata della «Bush Revolution», dal neoisolazionismo con il quale il Presidente vince le elezioni fino al suo totale ribaltamento dopo l’11 settembre. Innanzitutto attribuendola a lui e non a una cricca di pazzoidi neocon, stralunate caricature del dottor Stranamore, come sono sistematicamente dipinti i vari Irving Kristol, Robert Kagan, Richard Perle e Paul Wolfowitz da una certa sinistra europea. L’«assertive nationalism» di Condoleeza Rice e Dick Cheney ha poco a che vedere con la radicalità di un filone politico che chiede interventi militari a tappeto in Arabia Saudita, Siria e Iran come ieri in Iraq. Ed è con quell’«assertive nationalism» che bisogna fare i conti, perché è lui a guidare per davvero l’Amministrazione e ad aver suggerito l’alternanza di mosse tra deliberazioni dell’Onu e intervento a Baghdad, una carota a Gheddafi oggi e un bastone a Pyongyang domani. Per bilanciarlo ed eventualmente contrastarlo meglio bisogna insomma imparare a capirlo, accettare la realtà vera che esprime dell’America, senza rifugiarsi in un antiamericanismo d’antan che rende ciechi intellettualmente e nani diplomaticamente.
«La demonizzazione — scrive Glucksmann — del Presidente degli Stati Uniti, Grande Satana comune agli islamici e ai pacifisti, è una componente fondamentale del dispositivo antiguerra. [...] Il manifestante dichiara guerra al Pentagono e pace all’Iraq. [...] E se il diavolo non esistesse? Proviamo a fare un esperimento mentale alla portata di tutti. Se Bush evaporasse magicamente, forse il conflitto israelopalestinese si fermerebbe per questo? Se Bush avesse perso le elezioni, Saddam Hussein si sarebbe forse astenuto per decenni dal tradire, invadere, gassare, torturare, giustiziare senza alcuna esitazione? Mettete Bush fra parentesi, resta Bin Laden, che non ha aspettato le elezioni presidenziali per preparare il più grande attentato terroristico della storia dell’uomo.» Restano Kim Jong II, resta Putin e la Cecenia. «L’antiamericano che imputa tutte le miserie del mondo all’onnipresente zampata dei bellicosi di Washington mi sembra oltrepassare in stupidità la semplicità di spirito che conferisce a questi presunti padroni del mondo.» Integralmente d’accordo, parole sante su cui la sinistra europea dovrebbe riflettere prima che sia tardi.
Il problema logico non trascurabile consiste però nel prendere sul serio le misure a quello che molti tendono ormai a ignorare, a distanza di anni dall’Il settembre e dopo tante aspre polemiche sulla guerra in Iraq. E cioè il terrorismo, la sua attuale natura e diffusione, le sue vere matrici e le vaste connivenze su cui può contare. Un tema indigesto per una parte della sinistra europea e italiana. Perché alle sue orecchie il terrorismo fondamentalista islamico di Al Qaida esprime un rigetto della mondializzazione americana, folle negli strumenti ma comprensibile nelle intenzioni. È anzi l’altra faccia dell’America, la disperata reazione a un progetto di annichilimento che invera il mondo nell’unica forma di una bottiglia di CocaCola.
Non è un caso che proprio alla questione «terrorismo» sia dedicato il maggior contributo teorico dell’appassionato pamphlet di Glucksmann. Egli distingue tra una definizione democratica e una definizione autocratica del terrorismo. Per la prima, terrorista è «l’uomo armato che aggredisce deliberatamente esseri disarmati»: il terrorista come nemico pubblico di ciò che è pubblico. Per la seconda «sarebbero terroristi gli irregolari, i refrattari, i combattenti senza uniforme, che mettono in questione un potere stabilito, sacro, intoccabile, qualsiasi esso sia e qualunque cosa faccia»: il terrorista come nemico pubblico dello Stato. Per Glucksmann vale la prima definizione: quindi terrorista può essere uno Stato; e quella al terrorismo può essere, di conseguenza, una guerra. Anche se una guerra di tipo nuovo. Il terrorismo è una guerra contro civili inermi. «Chiamo terrorista l’uomo armato che aggredisce deliberatamente degli esseri disarmati.» Solo così la violenza, portata al parossismo, diventa violenza «totale» sulla popolazione. Il terrorismo è interpretato da Glucksmann come «totalitarismo»: «La guerra terroristica contro i civili non tende soltanto a spezzare le resistenze attuali, pretende di sradicare la possibilità stessa di una resistenza potenziale, esige un potere in questo senso “totale”». Il terrorismo è connesso al totalitarismo e al progetto dei regimi totalitari di governare tutto l’uomo, anche la sua interiorità, che i teorici dell’assolutismo seicentesco come Hobbes avevano pur sempre preservato dall’ingerenza del potere sovrano. Ecco perché la definizione di guerra data da Clausewitz viene meno: «La guerra è un atto di violenza teso a costringere l’avversario a eseguire la nostra volontà». La violenza terroristica non chiede nulla. Non è un mezzo in vista di un fine. Il suo fine è il nulla. La violenza terroristica è dunque nichilismo. Se ci poniamo la domanda di Socrate, scopriamo che la forma comune, l’idea che racchiude fenomeni tanto diversi, è il nichilismo, presente in ogni ideologia distruttrice, e che è retto dall’assioma «tutto è permesso». Il nichilismo è il male, perché nega che il male esista. Contro questo tipo di violenza è necessario scegliere la guerra come mezzo di resistenza estremo. Non si tratta di pensare che la guerra sia giusta. Non esistono guerre teologicamente giuste, ma guerre esistenzialmente necessarie, in una ipotetica «scala del peggio». La legge delle guerre concerne il come e non il perché. «Le ragioni della guerra furono messe da parte, meni re divennero centrali le modalità della guerra.» Ora la tecnica ha democratizzato la possibilità di infliggere il terrore, e l’emancipazione individuale fa di ogni individuo un potenziale soggetto capace di diffondere il terrore. Con la caduta del Muro la storia non è finita. «Gli orfani di una Guerra Fredda liquidata si contano a miliardi.» E il pianeta non si è stabilizzato. La risposta è il diritto d’ingerenza: l’attuale versione dello jus in bello è la guerra umanitaria in chiave antiterroristica: Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Iraq. Deve essere una guerra al servizio dei civili, mentre il terrorismo distrugge i civili. Questo distingue Baghdad da Grozny.
Nella sinistra europea e italiana, queste fondamentali convinzioni, che io condivido e faccio mie, suonano oggi assoluta eresia. Gli Stati Maggiori politici preferiscono in varia misura evitare di misurarvicisi direttamente, convinti che l’irenismo francese offra un ombrello sufficiente al riparo del quale declinare condanne del terrorismo puramente verbali, dalle quali non debba discendere una «concreta» politica dell’intervento attivo per contrastarlo ed eliminarlo. Quanto agli intellettuali, inutile illudersi. La stragrande maggioranza dell’intellettualità di sinistra è radicalmente contraria a tale impostazione, ne disconosce fondamenti, argomenti, e conseguenze. Mi limito a tre esempi, ma potrebbero essere infiniti. Prendete L’Europe, l’Amérique, la Guerre di Etienne Balibar. Il capitolo dedicato alla «pretesa di sovranità universale degli Stati Uniti d’America» si incentra su una ripulsa della tesi secondo la quale Washington si considera titolata a deliberare lo stato d’eccezione mondiale, «come un potere interno ed esterno al sistema, o che vi si inserisce escludendo se stesso dalla
regola costitutiva, e si autoconferisce allo stesso tempo la responsabilità di farla rispettare dagli altri e può vedersela riconosciuta». L’intera analisi della dottrina di sicurezza strategica emanata dall’Amministrazione americana nell’agosto 2002 è compiuta senza mai citare una sola volta il terrorismo! E non rappresenterebbe altro che «l’indifferenza degli Stati Uniti all’opinione pubblica internazionale»! Quando poi, nel capitolo successivo, rilegge, come si trattasse di una fosca predestinazione neocon, il famoso saggio di Huntington del 1993 sul «Clash of Civilizations», ecco che l’antiamericanismo si declina nel tentativo di calare Huntington negli schemi del «Raumordnung», del principio di riorganizzazione mondiale spaziale propugnato da Carl Schmitt in coerenza all’espanionismo del Terzo Reich. Con il bel risultato paradossale che attribuire agli Usa la volontà di esercitare il «Fiihrertum» mondiale con connessa «civilizzazione della guerra senza per questo abolirla» (l’«Hegung des Krieges», in Schmitt) si risolve in un inno finale all’Europa come unica frontiera della democrazia e del diritto, in realtà assolutamente non dissimile dalle conclusioni in cui, nella Berlino ormai declinante del 1943, Carl Schmitt teorizzava, tra le pagine del suo Terra e mare, la necessità di separare l’heideggeriano «spazio-che-è-mondo» degli imperi dei mari anglosassoni rispetto all’Eurasia loro irriducibile.
Quanto all’Italia, si prenda invece La guerra di Alberto Asor Rosa, che ha rumorosamente abbandonato i DS accusandoli di essere troppo condiscendenti proprio nei confronti della guerra in Iraq. Qui il disvelamento della continuità comunista è evidente. Altro che analisi fattuale del terrorismo post 11 settembre, e di come costruire una concreta alternativa europea nello sgominarlo, rispetto all’unilateralismo americano. Una grande nostalgia per l’Unione Sovietica, invece: «Già nel 1945 era nata la Prima Grande Potenza Mondiale della storia, mentre l’altra Grande Potenza Mondiale, che le si contrapponeva, fin dall’inizio non avrebbe che potuto soccombere». Perché naturalmente «mettere uguaglianza e giustizia sopra — e talvolta contro — le ragioni dell’economia può aver cozzato, oltre che con le inefficienze di un sistema, anche contro alcune leggi naturali umane: per esempio l’egoismo individuale, il bisogno di realizzazione di ricchezza», ma «in quanto sogno ha cambiato il mondo, ha fatto da argine eccome — allo strapotere dei più forti: in molte occasioni ha aiutato i deboli, o, perlomeno, li ha aiutati a essere un po’ più forti». Questa è totale e dichiarata «alterità» da ogni possibile condivisione e comprensione di che cosa sia l’Occidente. È un’estraniazione che rende impossibile ogni seria analisi di ciò che eventualmente minacci l’Occidente, ricondotto anzi senza esitazione a pletora di popolazioni che «non riescono ad assurgere al valore di simbolo universale, restano piuttosto la nuda, materiale, puramente fisica manifestazione di una incompiutezza del sistema, prodotto apparentemente e provvisoriamente residuale di una condizione tutta precedente, che la tecnologia riuscirà anche in questo caso, – un giorno – a riassorbire». Ma andiamo, per favore. Ha perfettamente ragione Riccardo De Benedetti nel suo La fenice di Marx: sta in questo fortissimo tronco intellettuale, ancora dominante a sinistra, la grande innominata ragione del mancato approdo di tanta parte della sinistra italiana al riformismo europeo. E il motivo per il quale essa si risolve a discutere con le varie derive ereticali del marxismo, lacanismo e situazionismo variamente denominato. I Blanchot, i Nancy, e il profeta sopra loro tutti, quel Jacques Derrida che dieci anni fa in Spettri di Marx ammoniva: «Senza più apparecchi ideologici marxisti, Stati, partiti, cellule, sindacati, non abbiamo più scuse. Non ci sarà altrimenti avvenire. Non senza Marx, nessun avvenire senza Marx». E che ha coronato il suo decostruzionismo applicato all’Occidente in lotta contro il terrorismo smontando nel suo Stati canaglia la stessa possibilità di poter definire un qualunque regime come «Rogue State», «Stato canaglia», perché la prima canaglia è colui che intende arrogarsi il diritto alla definizione altrui: in democrazia tutti sono canaglie e anzi la democrazia occidentale di suo nemmeno esiste, in un gioco linguistico degli specchi svapora «in una democrazia a venire, estranea a ogni speranza di salvezza, ha la forma di una promessa, di un’attesa (senza attesa) della singolarità dell’altro».
Esattamente lo stesso cattivo impasto politico-filosofico di rimpianto del comunismo ed estraniazione dalla democrazia liberaldemocratica occidentale che risuona in intellettuali pacifisti cari al nostrano «Manifesto», come Augusto Illuminati. Dal suo recente Bandiere: «La militanza comunista e socialdemocratica si costruì un’ideologia e una pratica in alternativa alle classi dominanti e al loro sistema di idee, ma anche in alternativa alla tentazione terroristica. Duplice scissione: verso l’interno e verso l’esterno. In una situazione postfordista si pongono compiti omologhi a partire da dati pratici e ideologici diversi, ma che pur sempre in una pratica e in un’ideologia vanno a parare. Nel mondo globalizzato il terrorismo islamico è tanto periferico e interno, suggestivo e ripugnante, quanto il nichilismo russo nel XIX secolo. Non sarà un’ideologia centrata sul lavoro e sul progresso sacrificale, sul culto dell’organizzazione e della disciplina, ma sarà pur sempre un progetto coerente alla sua consaputa contingenza. Non istituirà più una pratica centralizzata ma non si confonderà neppure con il tessuto indistinto di lavoro e linguaggio scaturito dalla cancellazione delle ripartizioni fordiste. Non mera comprensione multiculturale, generico riconoscimento di differenze compartimentate e tenute a distanza, ma vivace rivendicazione degli esclusi dalla e nella globalizzazione. Una militanza comune si contrappone alla militanza comunista tradizionale quale fase interna a quell’orizzonte, come Paolo, Dolcino o Mϋntzer erano varianti diverse della stessa famiglia cristiana».
Mi scuso per la lunghezza della citazione. Ma è l’apologia più impressionante che mi sia capitata di leggere, nella sinistra italiana, tra Al Qaida e il presunto sacrosanto no al capitalismo occidentale. Batte persino le strologature di Impero di Toni Negri. Come Paolo, Dolcino o Mϋntzer, varianti diverse della stessa famiglia di rivoluzionari cristiani? Ma stiamo scherzando? Io, con questa sinistra che è ben presente nel cosiddetto «popolo della pace», che in Italia strattona l’Ulivo e lo minaccia di ceffoni nelle piazze se non vota no alla presenza italiana in Iraq — oggi che è necessaria per assicurare un’ordinata transizione verso le elezioni, non ieri in guerra —, con questa sinistra antioccidentale che simpatizza per la dissoluzione dell’Occidente perché si sente «altra e diversa» rispetto al suo meccanismo di governo — con questa sinistra non ho e non voglio avere a che fare. La voglio sconfiggere, da posizioni di sinistra riformista e occidentale come la mia.
Non mi illudo che la sinistra antagonista possa da un giorno all’altro divenire residuale, vista la sua forza in Italia più ancora che in Europa. Ma credo perciò sia giusto e sacrosanto che anche da noi si leggano libri come questo di Glucksmann. Di una sinistra delle idee, della morale e della ragione che non svapora nella nostalgia del «summum bonum» per definizione rinviato all’altra vita di impensabili rivoluzioni. Che definisce il terrorismo come una minaccia e accetta anche l’idea estrema di combatterlo con guerre, se necessario. E che non per questo si identifica col muscolarismo dei repubblicani americani. Una sinistra che ha gridato di rabbia nel vedere quanta acrimonia sia stata impiegata in Europa per indebolire il suo maggior leader di governo, Tony Blair, colui che ha piegato per davvero due volte Washington a ricercare i voti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu mentre l’Europa del fronte del no si baloccava nelle piazze e con le scomuniche. Una sinistra non rassicurata e felice, ma preoccupata e perplessa, di fronte all’impennata di sfiducia verso gli americani che i sondaggi di tutti i Paesi europei testimoniano da un anno a questa parte. Una sinistra che non si trastulla nello slogan «l’Europa funziona» dell’ultimo libro di Will Hutton, per il semplice fatto che purtroppo l’Europa non funziona, non cresce ed è divisa, oltre a essere un nano nella politica estera e di difesa per effetto dei suoi no e delle sue spaccature. Una sinistra che si candida non ad ampliare irresponsabilmente, ma a sanare, andando al governo con programmi credibili e non con libri dei sogni, la frattura di cui Glucksmann ci parla da par suo in questo libro. «La civiltà è una scommessa. Doppia. Contro ciò che la nega e la minaccia di annichilimento. Contro se stessa, troppo spesso complice passiva o avventata della sua scomparsa. Il passato si allontana a Bangkok come a Roma, il futuro esita a Parigi come a New York, il nostro pianeta errante diventa un tutto unico. L.] Noi siamo lì.»
Occidente contro Occidente.

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