Se si vuole cambiare serve ancora più Stato

marzo 17, 1999


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


Se si limitasse a lamentare che il risanamento della finanza pubblica non è stato accompagnato da politiche di sviluppo, Luciano Galli­no (Meno Stato non vuol dire cedere ai privati i panettoni, La Stampa del 15 marzo) sarebbe in buona compagnia: Fazio e Duisenberg, Monti e Romiti, per citarne alcuni. Gli obiettivi che egli indica, «salvaguardia degli interessi nazionali, della propria capacità competitiva e delle proprie forze lavoro», si sono prestati a varie interpretazioni, non tutte fortunate. Perché non ci siano dubbi su che cosa intende, il professor Gallino porta degli esempi: ed è li che l’attenzione si impenna. Ma come? Credevamo di sa­pere che Internet è il frutto spontaneo della libertà, che per difenderla dai regolatori i suoi adepti sono pronti a una guerra santa; che perfino l’intervento dell’antitrust contro lo strapo­tere di Microsoft è temuto co­me un’interferenza sul libero mercato; che Silicon Valley è uno straordinario esempio di ricerca finanziata dal mercato. Qual è mai l’agenzia che ha reso possibile la conquista «del dominio assoluto nel campo delle tecnologie infotelemati­che»?

Quale quella che ha fatto crescere nella piccola Svizzera giganti come Roche, Nestlé e Ubs?

L’Italia non è riuscita a man­tenere una produzione di com­puter: ma in Francia l’inter­vento massiccio dello Stato non è riuscito a far meglio. Nel software, in Germania il mer­cato ha prodotto la Sap (13.000 dipendenti, valore di Borsa 30 miliardi di eurol, da noi l’atten­zione del governo e le commes­se della pubblica amministra­zione hanno allevato Finsiel, ed i suoi 4000 esuberi. La Ger­mania sarà «un gigante della meccanica e della chimica»: ma è per guarire l’elefantiasi del gigante che i tedeschi han­no mandato a casa Kohl e ora Schroeder licenzia Lafontaine.

Anche quando l’azione dello Stato ha successo, è alla fine della storia che arriva la morale. Il mitico Miti ha propiziato il primato giapponese nell’elettronica di consumo; ma le stesse agenzie hanno «orientato in­centivato e regolato» un sistema finanziario che ha precipitato il Paese in una crisi di cui non si vede l’uscita. L’Airbus ha saputo corrispondere con successo alle necessità delle compagnie aeree di avere un concorrente alla Boeing; ma la volontà francese di mantenere il controllo impedisce di razio­nalizzare la produzione; così come il rifiuto a privatizzare ha fatto fallire il formarsi di un’industria della difesa euro­pea.

I problemi teorici e pratici non cambiano se lo Stato inve­ce di produrre «direttamente panettoni o biciclette o crocie­re turistiche» si limita a pren­dere decisioni strategiche e ad orientare la produzione. «Il problema economico della so­cietà – dice Hayek – consiste nel come utilizzare la conoscenza che non appartiene a nessuno nella sua totalità». Che si tratti di un’azienda che produce o di un’agenzia che orienta, è sem­pre una «presunzione fatale» credere che il centro disponga della infinità delle informazio­ni locali che utilizza sponta­neamente chi opera in un mer­cato concorrenziale. Garantirne il funzionamento è il compi­to della politica; non fare o far fare, bensì levare gli impedimenti perché gli individui libe­ramente facciano. Ridurre la stratificazione delle nonne, eli­minare la paralisi decisionale è fare politica industriale di alto profilo e di sovrumano impe­gno.

La riduzione del carico fisca­le non è un accessorio della macchina economica, un «tergicristallo»: è la misura sinteti­ca del successo nella restitu­zione della libertà economica ai cittadini. Il giudizio severo di Gallino (e di Tremonti) appa­re meritato se, più che a quanto è stato fatto, si pone mente a quanto sarebbe necessario fa­re. Tra le occasioni mancate ­assai rilevante ai fini della ri­duzione della pressione fiscale – c’è anche l’aver affossato la riforma delle pensioni del go­verno Berlusconi, l’unica ad af­frontare il problema in modo risolutivo: lo riconosce Franco Modigliani, ricordando (Av­venture di un economista, pag. 269) l’appello su cui raccolsi la sua firma, oltre a quelle di Ro­mano Prodi, di Mario Baldas­sarri, di Paolo Sylos Labini.

Ci vuole più Stato, non me­no, per non perpetuare la posi­zione dominante dell’Enel nel momento in cui siamo obbliga­ti a liberalizzare, per non far blindare Telecom proprio men­tre si constata che la scalabilità aumenta l’efficienza delle im­prese. Ci vuole più Stato, non meno, per assicurare alle fami­glie la libertà di scegliere la scuola in cui mandare i figli, contro la corporazione degli in­segnanti. Ci vuole più Stato, non meno, per non sacrificare flessibilità ed efficienza sull’al­tare di una concertazione che ha avuto i suoi meriti, ma che sempre più sovente è conser­vazione.

Già duecent’anni fa il pano­rama europeo appariva a Goe­the ingombro di «castelli cadenti» e di «vecchi basalti» fos­silizzati. Ci vuole molto Stato per sgombrare il terreno e con­sentire ai cittadini di costruir­ne di nuovi.

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