Salvataggio del Banco di Napoli: non scomodiamo Guido Carli

febbraio 1, 1996


Pubblicato In: Varie


Se il soccorso al Banco di Napoli fosse avvenuto con l’ingresso di un socio privato, avrebbe aumentato le risorse (finanziarie e manageriali) disponibili, e reso credibile il piano di indispensabile ristrutturazione aziendale; invece il rifinanziamento mediante emissione del prestito obbligazionario postula una difficile ristrutturazione per forze endogene, i cui tempi e modalità divengono difficilmente programmabili, mentre gli orizzonti temporali si allungano e diventano meno certi. Definire tale intervento di mercato è poi dubbio, per la presenza della Cassa Depositi e Prestiti e per la reale rispondenza di tale operazione agli interessi degli azionisti delle banche coinvolte. Così ha detto il professor Donato Masciandaro della Bocconi sul Sole del 10 dicembre: e non si saprebbe dir meglio.

Ma poi, accanto a queste considerazioni economiche, `tecnico-aziendali’, egli ne contrappone altre che definisce `politico-ambientali’. Per giustificarne la preminenza, si appoggia all’autorità di Guido Carli, secondo il quale il problema sarebbe che gli istituti meridionali devono supplire a carenze dello stato nell’adempiere ai propri doveri verso quelle aree, da cui l’alta probabilità di perdite nell’erogazione del credito.
La citazione non sembra si attagli all’attuale crisi dell’istituto di Via Toledo. Che ci sia un maggior fattore di rischio è pacifico, e il Banco perciò ne pretende il corrispondente premio. Ma la coscienza di operare in un ambiente difficile dovrebbe portare a una moltiplicata oculatezza nella valutazione delle poste patrimoniali, alla evidenziazione delle perdite anno per anno, non al loro occultamento finché la situazione diventa insostenibile. Non si dirà che perdite per migliaia di miliardi si sono verificate in un solo anno.
Che il compito di una banca meridionale sia di finanziare le imprese locali è un conto, che debba anche provvedere con le assunzioni ad alleviare il problema della disoccupazione è un altro, né Carli lo ha mai sostenuto. Anzi proprio la scarsità delle risorse dovrebbe indurre il Banco a esigere la massima produttività dalle proprie strutture, e la larga disponibilità di personale dovrebbe consentire di selezionarne di eccellente. Nessuno oserebbe sostenere che così sia stato.
Il fatto che lo Stato non abbia adempiuto ai propri doveri verso le regioni meridionali sembra avere poco a che fare con la politica di espansione del Banco all’estero o al Nord.
Ancor meno con la proprietà di giornali come Il mattino, che risponde assai più agli interessi dei padrini politici locali che non a quelli degli imprenditori meridionali. Di passaggio si nota che, mentre si è parlato di drastico ridimensionamento delle ambizioni espansioniste, nulla si è sentito dire dei giornali: ma questi fanno evidentemente parte dei criteri ‘politico-ambientali’.
Masciandaro non vuole «complicare l’analisi con il dibattito circa la natura più o meno pubblica delle fondazioni». A parte il fatto che sulla natura in generale e a maggior ragione nel caso del Banco di Napoli, nessun dubbio hanno illustri giuristi, non c’è nessuno che non dichiari di fermamente volere la privatizzazione delle banche. Impiegare danaro pubblico, sia pure come prestito, per mantenerle pubbliche non sembra andare nella direzione auspicata.
La citazione di Cadi è del 1967: sono passati quasi trent’anni, durante i quali lo Stato ha pur cercato di pagare almeno una parte dei suoi debiti. Se i risultati sono quelli che conosciamo, se i non trascurabili flussi finanziari, largamente intermediati dal Banco di Napoli, non hanno prodotto frutti migliori, può il Banco stesso chiamarsi completamente fuori? Per quale ragione vantarne il localismo, sostenere la necessità di avere un istituto meridionale, se non per saper meglio distinguere gli imprenditori, magari sfortunati, dai truffatori, magari amici, per far crescere gli uni e isolare gli altri?
Se la situazione è identica a trent’anni fa, sarà opportuno chiedersi se sia conveniente mantenere un atteggiamento che, con il pretesto di difficoltà ‘ambientali’, finisce per assolvere le colpe ‘politiche’ (aziendali e non). Anche perché così si attribuiscono alla fragile imprenditoria meridionale colpe che non sono sue, e le si addossano danni (coi relativi premi di rischio) che non essa sola ha prodotto. Chi fa più danno, i critici «disattenti ai mali del Sud» o i difensori acritici? Non si favorisce la crescita di quella imprenditoria iscrivendola d’ufficio a una serie B, decretandone una irriducibile anomalia di comportamenti. Non è utile, non è giusto. E si ha perfino il dubbio che sia giustificabile.

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