Politica ed economia: un incesto senza fine

aprile 13, 1999


Pubblicato In: Giornali, La Repubblica


A sentire le opinioni che incominciano a circolare e a cui Massimo Riva dà voce nel suo articolo di sabato (Se la moneta cattiva scac­cia la buona, «la Repubblica» del 10 aprile) la colpa di Colaninno e soci sarebbe quella di avere traviato con il cattivo esempio Fran­co Bernabè e il vertice Telecom, inducendoli a seguirne l’esempio sulla «sciagurata rincorsa all’indebitamento».

Accettare che la concorrenza la sappia più lunga di noi nel tro­vare le strade dell’efficienza impone a volte di rinunciare alle pro­prie idee. Ma in questo caso sono noti i buoni risultati dei take­over USA con ricorso al debito; è un fatto che le aziende sono più efficienti quando i manager sono obbligati a lavorare con i soldi delle banche piuttosto che con quelli degli azionisti. Se Telecom non fosse sovracapitalizzata, forse oggi non saremmo a discutere di Opa. Alcuni sostengono che così debba essere per poter inve­stire in tecnologie. Ma che fine ha fatto Italtel? E che ne hanno fat­to di Finsiel? Quanti soldi buttati! Socrate, Fido, partecipazioni di minoranza dove capitava, che fecero di Stet un «high bidder lo­ser» per il «Financial Times». Altri tempi, altri azionisti.
Gli avvenimenti di sabato imprimono uno scarto qualitativo ai temi sollevati da Massimo Riva.
Prendiamo la legge Draghi e il suo regolamento: sabato sareb­be bastato ricordare che per lo scalatore fare rilanci non è una «sconfessione», ma proprio la novità della Draghi. Ricorda Riva quante volte la invocammo all’epoca della battaglia per il Roma­gnolo? Ora, dopo ciò che Franco Bernabè è stato indotto dai suoi consulenti a dire, prioritario risulta difendere questa legge.
Partecipazione in assemblea: sabato potevo chiedere a Riva da dove desumesse il «preciso diritto-dovere istituzionale» di Governo e Bankitalia di andare in assemblea e perché a Telecom doves­se essere inflitto lo schiaffo di un voto negativo. Discussione ormai accademica, vista l’entità dello scarto rispetto al quorum costituti­vo; che sarebbe addirittura una provocazione in bocca a chi ha fat­to mancare il quorum stesso, se le indicazioni in tal senso doves­sero essere confermate.
Per Riva il Governo non è stato neutrale. Ma proviamo a fare il caso contrario: che cosa deve fare un Governo che ha detto al­l’universo mondo che vuole uscire, anzi che è già uscito dalla te­lefonia, per dimostrare la sua neutralità? Vendere prima sul mer­cato? Deprime il titolo e favorisce lo scalatore. Vendere al noccio­lo duro? Va contro gli impegni di stabilità presi dal Tesoro, e ob­bligherebbe il nocciolo duro a dimostrare con fatti quanto valuta oggi il titolo Telecom. Votare a favore delle proposte del consi­glio? Sarebbe stato chiaramente contro lo scalatore, dunque un’altro che neutrale.
Ma adesso Riva (e io) siamo stati lasciati soli a chiedere la neu­ralità. Perché da sabato Telecom ha cambiato strategia: è la non neutralità quella che viene richiesta. Quando Guido Rossi accusa il Governo di essersi «castrato», di essere «passato dalla golden share alla no value share, all’azione senza valore» rivolge un invito perentorio perché la politica si appropri della questione e decida. Come, con atto politico, «l’esecutivo ha voluto il nucleo stabile», adesso, con atto politico, deve difenderlo. Oggi è ai politici e ai poteri della golden share che guardano i vertici di Telecom per ri­solvere la partita.
Da sabato in gioco non è più solo la sorte di Telecom, è la se­parazione tra politica ed economia. Sono cinquant’anni che l’Italia cerca di liberare l’economia dall’influenza della politica. Che è stata vasta, penetrante, soffocante, come in nessun Paese occiden­tale. Consob e Antitrust, legge Draghi, sono state conquiste tardive faticose; molte scelte sono state rese deformi dai compromessi, come nella desolante vicenda delle fondazioni bancarie. Sono sta­te le battaglie dei Bruno Visentini, degli Eugenio Scalfari, dei Gui­do Rossi, è anche grazie alla loro pervicacia se alla fine certe idee sono diventate patrimonio di tutti. È grazie a loro se oggi sappia­mo che la golden share è «una misura eccezionale che viola i dirit­ti degli azionisti». E dato che «i poteri speciali non sono attribui­ti allo Stato azionista ma allo Stato in sé, essi non solo scardinano dalle fondamenta i principi del nostro diritto societario, ma risul­tano ugualmente incompatibili con il diritto comunitario». È an­che grazie a loro se si è condivisa l’idea «che la prima essenziale caratteristica della public company è quella di essere una società scalabile» e «laddove sia fissato un tetto al possesso azionario, quel tetto è una misura antiscalata posta a favore degli ammini­stratori per evitare loro il rischio di scalate ostili». A dirlo in Se­nato, 21 giugno del 1994, era Guido Rossi. Altri tempi, altri azio­nisti? Non fa differenza, per noi.

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