Oh che bella finanziaria!

settembre 25, 2012


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Fiat non fa più auto, Chrysler va benone. Marchionne, la politica, il capitalismo.

Forum che si è tenuto ieri nella redazione del Foglio con la partecipazione di Franco Debenedetti (imprenditore, già senatore dei Ds), Oscar Giannino (editorialista), Giorgio Meletti (giornalista economico del Fatto quotidiano), Riccardo Ruggeri (già dirigente Fiat) e Giuliano Ferrara (direttore del Foglio).

Ieri è stato elaborato un po’ il senso dell’incontro tra governo e Fiat del fine settimana, e ora dovremmo essere, ma non siamo, in una fase più razionale rispetto al casino sul piano Fabbrica Italia, velleitarie e incerte decisioni di una libera impresa in un libero sistema capitalistico. Poi c’è un secondo blocco di questioni: l’offensiva di Diego Della Valle contro la Fiat, e le sferzanti repliche, segnalano un disagio profondo; l’ad Sergio Marchionne ha spaccato gli industriali uscendo da Confindustria, ha proposto uno schema di relazioni sociali e sindacali che molti leader associativi del padronato italiano considerano intollerabilmente gravosi per le proprie aziende, perché loro preferiscono la concertazione; e poi Marchionne – con gli azionisti di Fiat – ha rimesso indirettamente in discussione un tema intrattabile per il capitalismo italiano, ovvero la proprietà dei grandi giornali, in particolare del Corriere della Sera e in seconda battuta la questione della Stampa, giornale della famiglia Agnelli, oltre che di respiro torinese ed europeo, ma che allo stesso tempo – come suggerito in recenti interviste e commenti – potrebbe interessare a qualcun altro.
Riccardo Ruggeri. Anzitutto mi chiedo: perché Marchionne ha fatto quel comunicato su Fabbrica Italia di un venerdì? E’ un comunicato incomprensibile, nessuno gli aveva chiesto niente e lui, facendolo, ha sollevato il problema. Inoltre lo ha fatto venerdì a Borse chiuse, e tutti hanno avuto dei sospetti. Io studio questo caso dal 1988, una parte l’ho passata dentro e una parte invece fuori, sempre studiando. Ho la convinzione profonda di quale sia la strategia di Marchionne, iniziata nel 2004. Era convinto di poter mettere a posto la Fiat, che però era tecnicamente fallita dalla metà degli anni 90; poi si accorse nel 2009, dopo i primi risultati della crisi del 2008, e quando Moody’s assegnò il voto di “junk”, o spazzatura, al titolo Fiat, che la situazione era un disastro. In questo frangente si è dimostrato un grandissimo personaggio cavalcando il caso Chrysler. Di lì inizia la sua avventura tra Chrysler e Fiat, che lui giustamente gestisce in maniera diversa, e giustamente perché ci sono condizioni diverse: il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, gli dà i soldi, mentre in Fiat gli azionisti non glieli danno. Lui, sapendo che non può fare aumenti di capitale perché farebbe fuori gli azionisti di riferimento, fa una politica di prestiti obbligazionari, garantiti anche dall’operazione Chrysler. Dal mio punto di vista la strategia di Marchionne è obbligata, non ha alternative al fare il più presto possibile la famosa Ipo, o quotazione, a Wall Street, mettendo insieme Fiat e Chrysler. Per raggiungere quell’obiettivo occorre che le tre aree geografiche – nord America, sud America ed Europa – siano tutte in utile. Purtroppo in Europa non è più così, e questo è il suo vero drammatico problema.

Giorgio Meletti. Condivido l’idea che Marchionne sia un uomo in difficoltà. Ci sono sintomi di dettaglio che vanno però guardati con attenzione. Primo, si mette a fare questa telefonata concitata con il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, e gli ricorda: “Mio padre era maresciallo dei carabinieri”, inducendo Mauro a dire: “Perché me lo dice?”. Secondo, è il primo manager nella storia del capitalismo dai tempi di Adam Smith a oggi che dice di non avere il tempo di farsi la barba. Poi dice: “Io non so comunicare”. E uno dovrebbe dirgli: guarda che quando gestisci un’azienda così grande, quotata in Borsa, con l’indotto, la Fiat insomma, devi anche saper comunicare o meglio dotarti di professionisti della comunicazione. Anche nell’incontro con il governo vedo un dettaglio sintomatico di una situazione confusa: non ricordo nella storia dell’Italia unita un altro incontro tra governo e azienda nel cui verbale d’incontro l’azienda dà il suo giudizio politico e dice: “Questo è un governo che ci piace”. Sembra un verbale di incontro tra due stati sovrani. Dal punto di vista della sostanza, ricomincia il complicato palleggio sull’intervento dello stato: mi sento di dire che lo stato italiano non dovrebbe dare alla Fiat un solo euro finché non avrà pagato tutte le fatture ai propri fornitori, perché trovo incredibile che ci siano aziende che stanno fallendo perché lo stato non paga i suoi arretrati ma poi questo stesso stato ha soldi da dare al Lingotto. L’altra questione dei rapporti tra governo e Fiat, e che non si affronta usando il tema dell’assistenzialismo e della contrapposizione tra liberismo e dirigismo, è che Marchionne qualcosa deve aver sbagliato. Della Valle non ha tutti i torti, nel merito, quando dice: se non vendi le automobili, una ragione ci sarà. Uso me stesso come benchmark; nell’aprile 2010 ho dovuto comprare un’auto perché me l’avevano rubata e ho scoperto che, a parità di caratteristiche, le Volkswagen costano meno delle Fiat, e ho comprato una VW. Non so se nel modello Marchionne si arriverà a un momento in cui sia lui a decidere quale auto ciascuno di noi debba comprare; finché c’è questa libertà dei consumatori, si può dire che il mercato sta bocciando Marchionne. E lì si vede che il governo annaspa: infatti, che cosa può dire? Siamo di fronte a un caso di capitalismo all’italiana, nel quale il rischio d’impresa è stato trasferito dagli azionisti ai dipendenti; la Fiat va malissimo, Marchionne dice che il mercato è un disastro, i dipendenti Fiat finiscono disoccupati, ma l’ingegner John Elkann ha perso qualcosa? E’ diventato più povero? No, ovviamente. Adesso stiamo vivendo ancora l’onda lunga della beatificazione di Marchionne, probabilmente nel giro di qualche anno ci sarà la Piazzale Loreto.

Il Foglio. Mozione d’ordine! Non c’è stata nessuna beatificazione di Marchionne. Per come l’abbiamo vista noi, Marchionne è sempre stato un uomo molto detestato. Tutto l’establishment confindustriale ha sempre pensato che fosse un tizio venuto da chissà dove, a miracol mostrare. Possiamo discutere degli errori manageriali di Marchionne e delle conseguenze, però perfino la Stampa di Torino non ha mai appoggiato Marchionne, il riformatore delle relazioni industriali, l’uomo che si scontra con Fiom e che pone questo problema: chiedete sempre alla Fiat cosa possa fare per l’Italia, ma chiedetevi piuttosto che cosa l’Italia e l’Europa possano fare per l’industria automobilistica. Quell’uomo lì è côntra le boje, come si dice in piemontese.

Meletti. Accolgo l’obiezione. Diciamo che è stato beatificato dal partito mercatista.

Il Foglio. Va bene, da noi quattro gatti. Effettivamente ne abbiamo fatto un santino.

Franco Debenedetti. L’incontro tra governo e Fiat segna un fatto nuovo, è la prima volta in cui Fiat non chiede e il governo non promette. Lo trovo un fatto molto positivo. In passato certi capi di governo si sono esibiti addirittura in strategie industriali sui marchi e così via. Quando sento questi discorsi, penso ai giornali con foliazione importante, in quali pagine li mettiamo? Nella politica o nella sezione economia e finanza? E ho qualche problema a capire dove metterei gli interventi di Della Valle. Senza scordare che la questione dovrebbe entrare anche nella sezione della politica internazionale per il ruolo dell’euro. Comunque, se parliamo della politica, l’incontro è stato corretto: il governo non promette, la Fiat non chiede. Se andiamo invece a parlare dell’economia, in che ottica ci mettiamo? I fondi interventisti fanno battaglie contro i manager, per cambiare manager quando le cose non vanno eccetera. E’ di questo che stiamo parlando? Allora bisogna ricordare che cosa si può fare veramente, perché questa è una storia che viene da lontano. Il prestito convertendo è del 2002, quando la Fiat divenne virtualmente proprietà delle banche, e Marchionne entra nel 2005, per dire. Per esempio quando si dice che le vetture Fiat non sono sexy, questo deriva anche da problemi di immagine del prodotto che non si cambiano rapidamente. A me personalmente non interessa parlare dei suoi errori, anche se capisco che quando le cose vanno male si cercano le responsabilità partendo da chi guida l’azienda. Però andare a dire cosa deve fare Marchionne, questo è un ragionamento che si può fare solo dal punto di vista di un interesse finanziario. E ci sono molte domande, ma personalmente non ho idea su quali costi e tempi occorrono per i nuovi modelli. Poi c’è il problema dell’euro. Perché a me ha molto colpito la frase del ministro Corrado Passera che dal Brasile ha detto: Fiat ci dovrà spiegare perché non sta al passo dei suoi concorrenti europei, visti i successi ottenuti invece in Brasile. Io credo che Passera potesse sapere quanto poi il Sole 24 Ore ha sintetizzato domenica in una pagina, ovvero “i dieci spread che frenano le imprese”, perché non si può dimenticare in quale paese Fiat lavora. Ci sono, per stare alla tabella del Sole 24 Ore, dieci punti importanti che determinano la competitività di un paese e nei quali l’Italia è regolarmente ultima, e in due penultima. Allora come facciamo? Ricordiamoci che non possiamo svalutare perché siamo nell’euro, e siamo in un Fiscal compact che comporta manovre deflattive, cioè meno soldi nelle tasche della gente.

Il Foglio. Però c’è l’argomento di Della Valle: se fai delle belle scarpe, per esempio, le vendi bene in tutto il mondo.

Debenedetti. Dove le produce Della Valle queste scarpe? E comunque mi sembra un argomento un po’ facile, perché bisogna vedere gli investimenti, quali sono gli investimenti per ogni modello, eccetera. Quest’automobile non è più il made in Italy. Poi, certo, probabilmente la Fiat 500 è ancora made in Italy.

Oscar Giannino.Vorrei fare due premesse, poi parlerò di situazione finanziaria della Fiat, relazioni industriali e rapporti con il governo. Prima premessa: sono un po’ esterrefatto dall’ipocrisia delle reazioni delle classi dirigenti italiane al comunicato su Fabbrica Italia di due settimane fa. Perché l’hanno fatto adesso? Perché, dopo l’investimento a Pomigliano, in questo tardo autunno era previsto l’investimento su Mirafiori, annunciato come più consistente degli 800 milioni di euro di Pomigliano. E siccome si avvicinava questa scadenza, dinnanzi ai dati degli ultimi mesi, Marchionne ha deciso di rendere operativo quello che aveva deciso già un anno fa. Lo sapevamo dall’inizio che Marchionne non è un “car guy”, non è un uomo dell’auto. E’ stato scelto nel 2004, nelle condizioni che avete ricordato, come ottimizzatore di processi, soprattutto finanziari, e il Marchionne fa questo in maniera eccezionale rispetto agli errori compiuti dal 1988 a oggi e ai quali hanno assistito senza dire niente le classi dirigenti italiane. Lui, come il suo azionista Elkann, è incolpevole di quello che è avvenuto prima in Fiat, cioè di avere saltato due o tre cicli di reinvestimento degli utili, di avere diversificato quando Fiat si mise a fare l’energia eccetera. Bisognava investire tutto sull’auto. Invece, divisi tra i due fratelli Agnelli, uno che credeva ancora nell’auto come l’Avvocato e Umberto che diceva che con l’auto non avrebbero retto, gli azionisti scelsero una via di mezzo: mandarono via Vittorio Ghidella e compirono una serie di errori dal 1988. Seconda premessa: Marchionne non è un uomo del circuito delle relazioni politico-industriali italiane, e perciò rappresenta un’altra rottura con la storia Fiat, non è Cesare Romiti per intenderci. Tanto che tutte le scelte di discontinuità le fa con uno stile che agli italiani appare lunare; infatti non è italiano, e questa è l’unica cosa che ha consentito a Obama di scegliere e puntare su di lui dopo il terzo fallimento di Chrysler. Quanto alla posizione finanziaria, uno degli argomenti che vedo analiticamente meno trattati è relativo non al passato di Fiat ma al suo presente. Fiat attualmente ha una liquidità molto elevata, a Torino dicono fino a 20 miliardi, e allora rispetto a questo si potrebbe dire al manager: dacci una giustificazione del perché preferisci tenere questa liquidità in cassa piuttosto che investire sulle piattaforme, sui motori, a uscire dal metano e andare sull’elettrico. Solo la Fiom ha posto un po’ questa domanda, nessun altro, e la risposta tento di capirla. Al Lingotto hanno alcune difficoltà. La prima è che, avendo restituito i soldi allo stato americano, devono raggiungere due tappe. La prima è quella della Ipo di cui parla Riccardo Ruggeri; la seconda è quella di fare scendere la quota azionaria del sindacato Uaw in Chrysler, perché a Marchionne risulterà sempre più difficile gestire rapporti con il sindacato in fasi meno emergenziali o quando addirittura si cresce del 25 per cento come Chrysler sta facendo in questi ultimi mesi. Poi c’è un altro argomento che spiega la preferenza per la liquidità. Certo che le Volkswagen costano meno. Alla Volkswagen partono intanto dal fatto che il denaro gli costa il 5 per cento in meno che in Italia, e le obbligazioni VW per la provvista a lungo termine costano 11 punti in meno rispetto a quelle Fiat, e questo incorpora anche il rischio sovrano. In più chi studia i bilanci Fiat sa che nei suoi stabilimenti il Lingotto perdeva da 15 anni, non per la crisi dunque, perché gli utili per reggere in piedi gli stabilimenti italiani la Fiat pre Chrysler li faceva solo in Brasile e in Polonia (dove aveva un tasso di utilizzo degli impianti di 20 punti superiori alla media italiana). Rispetto alle relazioni industriali, io tendo a mettere da parte le cose che non c’entrano con la vicenda Fiat, perché con tutta l’amicizia e la stima che ho per Diego Della Valle è evidente che c’è da parte sua una fortissima critica per via della vicenda Rcs, nell’ambito della quale lui ritiene John Elkann non all’altezza. Questa è una classica partita del capitalismo italiano asfittico – Rcs, quello che resta di Mediobanca, Generali – cioè di tutto un mondo che avrebbe bisogno di capire che queste logiche non servono più. E però si continuano a vedere persone come l’industriale della sanità Giuseppe Rotelli, per fare un altro nome, che ha bruciato più di 300 milioni di liquidità per stare due anni fuori dal patto di sindacato di Rcs. Per me sono cose incomprensibili. Ma poi il mondo imprenditoriale italiano è ulteriormente diviso in maniera profonda – come giustamente ha sostenuto il Foglio con la sua campagna – su come gestire le relazioni industriali. Come consulente dell’ex presidente di Confindustria ho vissuto ogni singolo passo di questa vicenda nei tre anni che abbiamo alle spalle; sono stato fisicamente testimone del fatto che Marchionne più volte espresse la sua convinzione che Fiat non aveva bisogno di una strada diversa da quella che con molta fatica abbiamo fatto percorrere alle relazioni industriali italiani. Ricordo che quattro anni fa c’era solo il contratto nazionale di categoria, e negli anni successivi, tra molte polemiche, siamo arrivati a dire che al contratto nazionale di categoria si affianca una seconda strada, quella delle deroghe contrattate per settore o azienda, e poi c’è la terza strada delle intese aziendali sostitutive che diventano di primo livello. Più volte Marchionne disse: la terza strada è quella che vogliamo. Dopodiché avvenne comunque la rottura, rottura sulla quale la mia opinione è diversa da quella del Foglio. Io penso che aver caricato di molta importanza politico-ideologica questo aspetto delle relazioni industriali non ha fatto bene alla Fiat. Addirittura rischia di trasformarsi in boomerang, perché tutti gli attori sociali che ritengono che quel problema della produttività sia fondamentale, a questo punto scontano enormi difficoltà a esporsi. Non a caso i chimici della Cgil hanno appena firmato un contratto all’avanguardia ma sono stati sconfessati subito dalla Cgil nazionale. Infine, sui rapporti con la politica, credo che il governo Monti sia inteso a quella cornice di ragionevolezza di cui diceva Ferrara all’inizio. Certo è dannatamente complicato, perché io tendo a credere a Monti che dice “non ci hanno chiesto aiuti finanziari”. Ma allora adesso non ci sono più alibi: la Fiom in questo ha il merito di aver posto il problema dell’automotive in Italia; adesso il governo si troverà di fronte al fatto di far capire agli italiani se e che cosa si può fare per difendere – senza che lo stato ci metta soldi – e preservare il più possibile una base produttiva nazionale, il che vuol dire aprire alla concorrenza. Siamo in ritardo su questo, sappiamo che VW ha avuto più di una trattativa in questi anni ma Fiat ha sempre detto no. Si tratta di capire se il governo voglia fare sua la lezione britannica di tanti anni fa, con Londra che capì che invece dei player nazionali che non si reggevano in piedi occorreva spalancare le porte ai produttori esteri. Inoltre, cosa fare per l’automotive italiano, cioè una filiera che senza Fiat vale 42 miliardi di euro? Anche a loro bisogna dare possibilità di produrre per altri gruppi. Dopodiché se Fiat riesce a fare l’Ipo, diventerà un gruppo americano, con presenza ridotta in Italia, che poi dovrà capire se vuole stare in prima fila o meno, recuperando dai tragici errori fatti in Cina e in Russia. A quel punto ci vorranno i “car guys”.

Il Foglio. Un giro brevissimo anche sulla proiezione politica e di potere che la Fiat, tradizionalmente un anti stato, un contro stato o un altro stato, ha ancora oggi. D’altronde dopo la crisi di Rizzoli degli anni Settanta, il Corriere della Sera è entrato in orbita Fiat-Mediobanca.

Ruggeri. Ho cercato in questi anni di mettermi nella testa di Marchionne, e ho capito che lui ha un solo obiettivo: ha compreso che Fiat è “tecnicamente morta” da tanti anni, non per colpa sua, perciò deve fare l’Ipo il più in fretta possibile. Ha bisogno di liquidità, ne ha 15-16 miliardi, ma ha anche 28,5 miliardi di debiti. Anche Tanzi aveva una considerevole liquidità.

Il Foglio. Ma ci ha preso in giro quando ha parlato dei 20 miliardi di Fabbrica Italia?

Ruggeri. Dal punto di vista della sua strategia, tesa in Italia allo spegnimento degli stabilimenti nel modo più indolore possibile, non ha sbagliato nulla. Dal punto di vista del prodotto, invece, Della Valle ha ragione, perché il prodotto auto si fa in un certo modo. Se non hai le risorse di progettazione, di motoristi, di industrializzazione, non puoi fare nulla. Il futuro si chiama Chrysler, è stata Chrysler a comprare Fiat e non viceversa. Nel business bisogna mettere i soldi, e l’unico che ha messo i soldi è Obama, solo che non ho mai conosciuto un americano che non volesse poi comandare. Al punto che oggi, in pratica, Mirafiori è diventata la Serbia di Detroit.

Meletti. Quando si parla di “politica industriale”, c’è da dire che nella mercatista America il presidente degli Stati Uniti salva un’azienda e ne cambia gli azionisti. Ricordiamoci che Ronald Reagan ha fatto le guerre stellari, cioè la più grande operazione di politica industriale del secolo. Ricordiamo che la Thatcher ha portato le fabbriche cacciavite in Gran Bretagna.

Debenedetti. Veramente Thatcher ha fatto la politica industriale di chiudere gli stabilimenti! Poi sono venuti i giapponesi e gli altri e hanno fatto industria, non politica industriale.

Meletti. E infine vi vorrei far notare che Marchionne sta perdendo la partita sul mercato europeo contro un competitore che non gode di condizioni migliori rispetto all’Italia in termini di libertà di mercato. Marchionne è stato sconfitto sul mercato europeo dal socialismo reale. In Germania le riforme le ha fatte dieci anni fa il capo del personale della Volkswagen, la quale VW ha un capo del personale un po’ socialista che è espressione dei sindacati tedeschi. Quindi non è che la VW va meglio della Fiat perché ha la libertà di maltrattare i dipendenti. L’altro argomento è quello del “Marchionne incolpevole”. Questo è un modo di ragionare tipico del declino; Marchionne da questo punto di vista è come la Polverini, sono tutti come assessori che dicono: non rispondo del mio predecessore. La Fiat deve rispondere, quando si parla di 42 miliardi di euro di indotto auto. La continuità aziendale è un concetto giuridico. Marchionne non può dire “io non rispondo delle idiozie fatte da Romiti”. Romiti che poi, in questa situazione di talk show, lui che ha distrutto la Fiat ora ci viene a fare la lezioncina. Per arrivare a Della Valle che, secondo me, ha detto la verità. Quello che gli si può obiettare è che dice la verità, ma soltanto quando gli fa comodo. Perché sul fatto che il capitalismo italiano versi in condizioni deprecabili, mi piacerebbe che Della Valle ci spieghi come fa lui ad avere il treno Italo avendoci investito 300 mila euro. Quello che sta sotto questa vicenda, e che trovo molto preoccupante per il futuro di noi italiani, è che questa classe dirigente continua ad avere una logica per cui non si guarda al profitto ma si guarda al potere. Della Valle si innervosisce perché, nella partita che li appassiona, che è il controllo di un’azienda editoriale in grave crisi come il Corriere della Sera, gli hanno fatto degli sgarbi. Ma ci aiuta a far capire una cosa: Della Valle è accusato di fare il maleducato, allora anche io faccio il maleducato e vorrei che si spiegasse quante azioni della Fiat possiede l’ingegner John Elkann. L’ingegner Elkann avrà il 3 per cento delle azioni personali, un numero talmente piccolo, eppure lui decide, nomina Marchionne o lo caccia, apre o chiude le fabbriche. Tutta la famiglia arriva al 6-8 per cento. Questa è una casta di persone che hanno inventato un sistema per esercitare il potere con i soldi degli altri, e non hanno nemmeno le elezioni ogni tanto che invece la Polverini ha.

Debenedetti. Il problema molto più grave è che forse non abbiamo più l’auto in Italia. Se il problema è aziendale, allora è: non va bene Marchionne? Allora cambiatelo e proponete una strategia alternativa. Il problema più ampio è: cosa può fare l’Italia? Perché non si può dimenticare che gli errori della Fiat, di cui tutti siamo coscienti, sono dall’altro lato l’errore dell’Italia. Qual è l’errore più grande della Fiat? Quello di aver mandato via Ghidella o di avere stretto la mano a Lama? Questa è stata la dialettica tra paese e Fiat. Il problema è che il prodotto migliore realizzato da Marchionne è il fatto di avere scrollato l’albero delle relazioni industriali, ma questo prodotto l’Italia, e nemmeno gli industriali, incluso Della Valle, lo hanno acquistato.

Giannino. Non conta il paese in cui si produce? Ricordo che in Germania, in VW, si è proposto di lavorare una settimana in più e non retribuiti, perché il ragionamento è stato: in cambio di questo noi teniamo la base occupazionale e riprenderemo ad assumere. In Italia la sola idea che qualunque impresa possa dire qualcosa del genere – cioè: dovete lavorare di più senza essere pagati in più – porterebbe ad additare l’imprenditore di turno come un nazista. Teniamo quindi da parte la questione delle relazioni industriali. Quanto alle questioni di potere, ricordo che Marchionne non è stato mai esplicito sostenitore delle partecipazioni nei giornali o dell’impegno degli Agnelli nella Juventus, anzi. E secondo me se la Fiat accompagnasse le sue scelte nel settore dell’auto e delle relazioni industriali a un taglio netto con il vecchio mondo asfittico di Rcs e Mediobanca farebbe un passo avanti.

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