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Archivio per il Tag »Oscar Giannino«

→  marzo 23, 2015


di Oscar Giannino

Ora che conosciamo almeno a grandi linee i particolari dell’intesa su Pirelli tra gli azionisti di controllo italiani, quelli russi di Rosneft, e i nuovi azionisti di China Chemical, il primo invito è: per favore evitiamo di cadere dal pero, come sembrano fare molti immediatamente pronti a ripetere il luogo comune “stanno svendendo l’Italia”. L’informazione esiste per mettere i luoghi comuni alla prova dei numeri e dei fatti. Numeri e fatti che da anni indicano che cosa avesse in mente Marco Tronchetti Provera, e perché abbia provato a risolvere i problemi che doveva affrontare con una serie di successive intese, sino a quella di ieri.

Premessa. La guida operativa e il controllo esercitato da Tronchetti in Pirelli ha alcuni meriti storici. All’inizio, quando subentrò a Leopoldo Pirelli, risanò un grande caos organizzativo e finanziario che andava ben oltre confine. Con le leggi attuali, sarebbe finito dritto nel penale: ma non era così negli anni di Mediobanca all’apogeo. Secondo merito: dopo esser stato bloccato dalla politica in Telecom Italia, quando stava realizzando una grande alleanza sui contenuti con Murdoch e sulle reti con il messicano Slim, Pirelli aveva rimesso quasi 3 miliardi in Telecom, e Tronchetti si è messo già di buzzo buono a rifocalizzarne strategia e mercati di sbocco. La scelta pagante è stata ridimensionare drasticamente i volumi del mass market e puntare sempre più sul segmento premium, a più alta intensità di ricerca e redditività di valore rispetto ai volumi. La strategia ha funzionato, mentre molti storcevano il naso sulle dismissioni necessarie. Terzo: Tronchetti ha avuto infine un altro merito, non nascondere che lo sviluppo industriale e di riposizionamento mondiale aveva bisogno di capitali, necessari ad abbassare l’alta leva finanziaria del controllo (nel frattempo Tronchetti ha semplificato infatti la catena a monte) italiano, a fronteggiare i debiti, ma soprattutto a investire.

Dal secondo e dal terzo punto appena ricordati discendono i tre riassetti finanziari ai quali Tronchetti ha messo mano dal 2012 ad oggi . I primi, alla ricerca di finanza italiana per rafforzare l’azienda. Ma le premesse non sono state adempiute con il gruppo Malacalza, che di Pirelli voleva in realtà impadronirsi sostituendo chi ne ha intravisto e realizzato il riposizionamento sull’alto di valore aggiunto. Di qui lo scioglimento dell’intesa, e una contesa giudiziaria che andava evitata. Secondo passo, sempre italiano: cercare nel fondo Clessidra, in Unicredit e Intesa non solo il ponte finanziario per uscire al meglio dal fallimento dell’accordo con Malacalza, ma anche per affrontare il fururo. Niente da fare, gli altri soci italiani hanno accettato di fare solo da ponte. Ecco perché Tronchetti si è rivolto a grandi soci internazionali. Ed è venuta la scelta dei russi di Rosneft, quando nessuno poteva ancora immaginare la crisi ucraina, le sanzioni e il crollo del prezzo del petrolio. Ergo, eccoci ai cinesi di Chemical China. Che sono pronti a un’opa totalitaria concordata sull’azienda, un’operazione da quasi 8 miliardi di euro.

Si scriverà che Tronchetti vuol far cassa e andare in barca. Ma chi lo scrive sa bene che Pirelli è nel mirino del grande consolidamento mondiale che avverrà non solo nell’auto (e di cui vedremo gli sviluppi con l’accordo che Marchionne firmerà tra FCA e un altro grande gruppo entro il 2018, come ha giàò cominciato a ripetere invitando i concorrenti a fare offerte) ma anche negli penumatici. Con la differenza che i grandi players mondiali di settore come Continental, Bridgestone e Michelin hanno capitalizzazioni miliardarie multiple, rispetto a Piurelli. Si tratta esattamente di evitare una mossa da parte di qualcuno dei grandi gruppi internazionale del settore che inevitabilmente sarebbe arrivata: e allora, con un’opa ostile, in Italia non sarebbe rimasta né la guida del gruppo né la testa pensante della sua ricerca e della sua strategia mondiale. Ne sarebbe venuto solo uno spezzatino.

Come invece non avverrà nell’accordo con i cinesi: grazie a un’esplicita clausola, è stato anticipato, che renderebbe possibile alterare il ruolo strategico industriale italiano solo con un voto al 90%, impossibile senza il 22,6% che resterebbe in mano italiana in caso di successo dell’opa totalitaria. Ecco: la clausola di salvaguardia italiana è il nocciolo vero di questa intesa italo-cinese. Chiunque la critichi avrà il dovere di dire come altrimenti si poteva evitare un’Opa ostile presto o tardi in arrivo.

Il difetto dei tentativi andati a male in Pirelli non ha radice nell’azienda ma nel paese: è la povertà di capitali e strategie del sistema Italia. Nessuno, né gruppi finanziari né banche, ha inteso scommettere somme rilevanti sulla piena italianità di un gruppo, a ebitda in crescita anche a restrizione di perimetro, a fronte dell’ipotesi che in caso di Opa ostile si dovesse esser pronti a tirar fuori miliardi. Ma almeno questa volta, a differenza di tante altre cessioni in mani estere di gioielli italiani, c’è una norma esplicita che presidia l’italianità piena della ricerca e della strategia Pirelli. Che consentirà al gruppo di concentrarsi acnor più sugli pneumatici premium per auto, allocando quelli per trucks insieme alla divisione analoga di China Chem.

E’ finita l’era leggendaria degli Agnelli e dei Pirelli? No. Di leggendario – anche se molti non lo ammetteranno mai – quell’epoca aveva poco, era possibile solo nel mondo di allora, a frontiere e mercati chiusi e non comunicanti. Il problema dell’Italia di oggi è trovare capitali che scommettano sulle sue eccellenze, e non le spoglino per spacchettarle e portarle altrove. L’investimento cinese in Pirelli sembra determinarsi a questo fine, esattamente come accaduto coi tedeschi in Lamborghini e Ducati. Ed è allora un bene che avvenga.

Non si capisce del resto perché nessuno abbia battuto ciglio quando i cinesi hanno investito miliardi per fare un favore allo Stato italiano, rilevando il 35% di Cdp Reti e il 40% di Ansaldo Energia senza che risultino sottoscritte clausole analoghe di salvaguardia dell’italianiotà, nonché quote in Eni, Enel e Saipem. Mentre se si tratta di grandi imprese private che si autotutelano allora ecco che scattano i mal di pancia.

E veniamo all’obiezione finale. Subito si comincerà a dire che Pirelli doveva cercare aiuto nello Stato italiano, al Fondo Strategico e alla CDP. Esprimo un’opinione secca e personale. Tronchetti ha avuto prove brutali a suo discapito dell’inframmettenza pubblica italiana, ai tempi del piano Rovati prodiano e contro l’intesa con Murdoch. Lo Stato italiano nel frattempo ha espropriato dall’ILVA i soci privati senza neanche riconoscere loro un corrispettivo di alcun tipo, e senza nessuna sentenza. Francamente, di fronte a QUESTO Stato italiano non mi meraviglio, che ci si senta più sicuri persino coi cinesi dopo aver duramente trattato clausole di salvaguardia da loro sottoscritti.

→  ottobre 31, 2012


di Oscar Giannino
Più sarà deciso sulla strada non compromissoria con i vecchi partiti, più potrà aggregare pezzi di società lombarda esasperata per la situazione che si è venuta a creare a livello centrale e locale

Il mio augurio è che quando leggerete questo articolo Gabriele Albertini abbia sciolto ogni esitazione. Mi auguro cioè che sia divenuto pubblico l’appello che conosco e che è in evoluzione da settimane, di un centinaio di rappresentanti della società civile fuori dai partiti, del mondo delle professioni, della cultura, dell’accademia, dell’impresa e del terzo settore, in cui si motiva la richiesta che Albertini possa essere il candidato alla presidenza della Lombardia. E che, accogliendo l’appello, scenda in campo senza alcuna attesa di segnali, decisioni od opposizioni da parte di questa o quella formazione politica.
La mia opinione, l’ho detto dieci giorni fa a Milano parlando in un’affollata piazza San Fedele, è che più tempo passava senza che Albertini raccogliesse l’appello della società civile, più era probabile che la sua ipotesi di candidatura si trovasse esposta a pagar pegno alla confusa e tumultuosa incertezza di linea del Pdl nazionale e locale. Al contrario, il senso della candidatura Albertini doveva essere proprio quello di azzerare di colpo ogni possibile ricaduta in Lombardia degli immensi guai con cui è alle prese il Pdl, che non riesce, non vuole e non sa come uscire dalla presa ricorrente di Silvio Berlusconi, dei suoi processi e dei suoi umori mercuriali. La Lombardia è cosa troppo seria e importante per farne una Sicilia bis. E lo dico con grande rincrescimento verso i siciliani, perché il suicidio del Pdl privo di uomini all’altezza ha fatto vincere l’alleanza Pd-Udc che in Sicilia rappresenta la continuità più diretta del sistema Lombardo. In Sicilia, capisco solo chi è rimasto a casa e chi ha votato Grillo.

Più Albertini sarà deciso su questa strada non compromissoria con i vecchi partiti, più potrà aggregare pezzi aggiuntivi di società lombarda esasperata per la situazione che si è venuta a creare, per le tante indagini che hanno travolto nel discredito l’istituzione Regione e la sua credibilità, e per il riverbero che la crisi politica nazionale di un anno fa ha avuto nell’accelerazione della crisi lombarda stessa. Mi auguro inoltre che il suo programma sia il più possibile chiaro e netto, a cominciare dal rafforzamento della sussidiarietà, dalla cessione di società partecipate, dal passaggio anche degli ospedali pubblici alla forma di Spa, in modo che abbiano bilanci più trasparenti. Dipendesse da me, sarei per il passaggio dai criteri di nomina attuale dei direttori generali delle aziende ospedaliere e sanitarie, scelti dalla politica, a una modalità per la quale si seguono procedure di mercato con tanto di bandi pubblicati sui giornali e commissioni terze che assegnano dei punteggi, con la politica che si limita a validare la scelta con un decreto di nomina. Ma, si sa, io sono considerato un filino troppo estremista…
Non c’è da illudersi. Non credo che la politica comprenda immediatamente la carica di rottura che potenzialmente una candidatura Albertini, se si mantiene fedele a questi presupposti, rappresenta rispetto al consueto schema bipolare destra-sinistra che abbiamo visto per 18 anni. Se questa consapevolezza fosse davvero diffusa, pare a me che il Pd per primo non avrebbe dovuto sbattere la porta in faccia a Umberto Ambrosoli, che da quanto ho capito ha chiesto alla sinistra che lo aveva interpellato quanto Albertini non deve chiedere ai partiti di centrodestra, ma direttamente alla società civile. Non mi meraviglierei invece se l’esito siciliano rafforzasse nel Pd e in parte del mondo cattolico l’impressione che anche a Roma alle prossime politiche si debba replicare uno “schema Crocetta”. Già non mi pare che l’ex sindaco cossuttiano di Gela possa davvero governare la Sicilia, e a maggior ragione non mi pare che un accordo di bassissimo profilo infarcito di candidati assai discutibili possa essere lo schema di governo nazionale. Piuttosto, se Grillo ha preso il 18 per cento in Sicilia in soli dieci giorni di campagna, vuol dire che in Italia se la società civile non si organizza e non crede alla necessità di scendere risolutamente in campo, fuori dai partiti, Grillo può prendere nell’intero paese il 25 per cento, se non più ancora.
Certo, lanciare il cuore oltre l’ostacolo significa esporsi. Di Berlusconi, il minimo che si possa dire è che non ha le idee chiare. Del suo ex stato maggiore, la stessa cosa. È da mettere in conto che il vecchio Pdl tenti di cambiare il più possibile il colore dell’acqua limpida da cui germoglia la candidatura di Albertini, dal basso della società lombarda. E al momento in cui scrivo non so come reagirebbe la nuova Lega di Bobo Maroni, che personalmente incoraggio ad adottare a sua volta logiche nuove che antepongano Nord, e macroregioni del Nord come del Sud, a vecchi slogan che non hanno funzionato. Quanto e come può reggere, per Maroni e Tosi pensando al futuro, un eventuale patto con il fondatore del Pdl ormai polvere rispetto a quel che era? Vedremo.

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Tempi, 30 ottobre 2012

→  settembre 25, 2012


Fiat non fa più auto, Chrysler va benone. Marchionne, la politica, il capitalismo.

Forum che si è tenuto ieri nella redazione del Foglio con la partecipazione di Franco Debenedetti (imprenditore, già senatore dei Ds), Oscar Giannino (editorialista), Giorgio Meletti (giornalista economico del Fatto quotidiano), Riccardo Ruggeri (già dirigente Fiat) e Giuliano Ferrara (direttore del Foglio).

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→  luglio 21, 2012


Intervista a Marianna Rizzini su “Sedizione e Vestizione”, ritratto di Oscar Giannino fatto da Marco Taradash

“Nel vuoto attuale, nel panorama politico confuso e deprimente che abbiamo davanti agli occhi, di fronte all’implosione del più grande partito in Parlamento, si creano opportunità per soggetti nuovi con idee nuove. La ri-discesa in campo di Berlusconi le ha perfino aumentate. Tutti i vuoti sono occasioni per chi li vuole riempire. La cosa a mio avviso più interessante è che oggi, in misura maggiore che in passato, questo vuoto si apre alle idee liberali, che non sono rappresentate a sinistra – dove i miei amici liberisti sono una pattuglia – non a destra – dove l’illusione Berlusconi è durata una stagione – ovviamente non dai Beppe Grillo. E poi c’è Italia Futura di Luca di Montezemolo, che da tempo lavora su queste idee.

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→  giugno 14, 2011


Il quorum c’è stato, l’astensione non è bastata, i referendum sono passati. Ma con i numeri sono venute alla luce del sole le mistificazioni: ora le cose non saranno più facili, ma almeno sono più chiare.

Si parla di referendum, ma si intendono quelli sull’acqua. Infatti il risultato di quello sul legittimo impedimento era sostanzialmente indifferente perfino all’unico interessato. Quello sul nucleare per diversi anni non cambia nulla sul piano pratico (chi avrebbe comunque osato proporci di impiantare centrali che non abbiamo quando Angela Merkel decide di spegnere quelle che ha?): l’unica cosa che potevamo fare era un po’ di ricerca, e questa ce la precludiamo. Già importiamo tecnologia del solare e dell’eolico, vorrà dire che, quando ci si accorgerà che dell’atomo non si può fare a meno, importeremo anche quella del nucleare.

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→  febbraio 28, 2005


di Oscar Giannino

Si vede che c’è un gran lavoro dietro alle quasi trecento pagine dell’ultima fatica di Timoty Garton Ash, il direttore dello European Studies Centre al St. Anthony College dell’Università di Oxford e senior fellow presso la celebre Hoover Institution dell’Università di Stanford. Il suo Free World, America, Europa e il futuro dell’occidente (Mondadori) è l’ideale continuazione post 11 settembre del suo ampio manuale mondiale del post muro, che aveva avuto il torto di uscire in libreria proprio pochi mesi prima dell’attentato alle Twin Towers, risultandone immediatamente annullato.

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