Le Poste sono il pezzo forte delle nuove “privatizzazioni” annunciate dal Governo. Privatizzazioni tra virgolette, dato che una vendita del 40% equivale all’emissione di obbligazioni perpetue a rendimento variabile, che però non rientrano nel debito pubblico come definito da Eurostat. La vendita totale non è prevista neppure come ipotesi: è quindi dichiarata la volontà del Tesoro di continuare a detenere il controllo.
Nel privatizzare è importante il piano di vendita – entità, modalità di determinazione del prezzo e di selezione dei compratori: ma è prioritario definire che cosa si vende. Nelle grandi privatizzazioni degli anni 90 l’idea di mantenere intatte le strutture aziendali formatesi in regime di monopolio era stata anteposta a quella di innescare la formazione di un mercato concorrenziale. Così ad esempio, Stet è stata privatizzata (quasi) tutta intera: se invece, come era stato proposto, si fossero vendute separatamente Tim e la telefonia fissa, dando al fisso un’autorizzazione a fare il mobile e viceversa, si sarebbero avute due società in concorrenza tra loro: e più piccole. Due buone ragioni per ritenere che, se così si fosse fatto, le cose sarebbero andate meglio.
Nel caso delle Poste, applicare quel modello e “privatizzarle” mantenendone la struttura sarebbe ben peggio. Infatti nelle Poste coabitano una banca e un servizio di spedizioni. Coabitano in senso societario, perché, laddove è stato possibile, gli sportelli dove si raccoglie il risparmio vendendo buoni postali e assicurazioni sono fisicamente separati da quelli dove si spediscono lettere e raccomandate. Le Poste-banca operano in un sistema di banche private, emettono obbligazioni (garantite dallo Stato) il cui controvalore viene fatto affluire nella Cassa depositi e prestiti, le altre banche vendono obbligazioni emesse dal Tesoro: dov’è la differenza? Le Poste-spedizioni operano in un contesto che vede una pluralità di aziende, la maggior parte delle quali derivano da regimi monopolistici; molte hanno dovuto sbrogliare complicate matasse di aiuti di stato (noi, per non siamo secondi a nessuno, abbiamo persino servizi in cui le Poste sono in regime di esenzione di Iva e i suoi concorrenti no): ma nessuna fa un mestiere diverso dal consegnare lettere e pacchi, o più in generale di logistica, la Royal Mail e l’olandese Tnt da sempre, Deutsche Post da quando nel 2010 ha venduto la sua banca a Deutsche Bank.
Se le Poste mantengono questa duplice natura, di banchieri e di spedizionieri, quando si dovesse avviare un processo di consolidamento del mercato, sarebbero un ircocervo tagliato fuori da ogni fusione. E se l’unbundling dovesse avvenire a quel momento, il plusvalore che il mercato attribuisce alla somma delle parti rispetto all’insieme andrebbe tutto a vantaggio degli azionisti del 40%.
Si diceva delle privatizzazioni degli anni 90 e del perché in molti casi si sia privatizzato un monopolio invece di creare un mercato concorrenziale. Nel caso delle Poste, vendendole senza separarne i due business, si “privatizzerebbe” un clamoroso abuso di posizione dominante. Infatti, le Poste-spedizioni essendo capillarmente presenti su tutto il territorio hanno più del doppio degli sportelli di Banca Intesa che, dopo la fusione con il San Paolo, ne ha smantellati molti, vuoi per fare efficienza vuoi per adeguarsi alle disposizioni dell’antitrust. Un sussidio incrociato in cui non si sa più chi sussidi chi, e che di certo distorce la concorrenza in entrambi i mercati.
Il servizio pubblico è un feticcio, come lo fu la grande dimensione d’impresa nelle privatizzazioni degli anni 90. Trasportare passeggeri e merci e consegnare la posta erano i servizi pubblici per antonomasia, ferrovie e poste erano il simbolo dell’unità del Paese, Regie le une, dello Stato le altre. Ma la libertà di muoversi e la convenienza di trasportare ce li ha dati la gomma, la possibilità di connetterci a persone e di accedere a dati la dobbiamo al telefonino. I servizi si sono moltiplicati e differenziati, poterne usufruire lo consideriamo alla stregua di un diritto naturale. Oggi, pubblico è il compito di assicurare il contesto giuridico, regolamentare, economico perché vengano erogati servizi di buona qualità, a prezzi convenienti, meglio potendo scegliere.
Non è di meno e non è più facile, al contrario è molto di più e molto più difficile: è assicurare il funzionamento del mercato a consumatori e investitori. Parlare oggi di servizio pubblico nel vecchio senso “regio”, significa stendere un gran telo, sotto il quale non si distingue più chi sussidia e chi è sussidiato, chi è efficiente e chi no, chi reclama interessi legittimi e chi sfrutta rendite corporative. Mezzo pollo a testa, la media di Trilussa.
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gennaio 17, 2014