L’Opa di Ciampi e Draghi

febbraio 25, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Messaggero


«Mercato sì, ma prima le regole»: alcuni commenti all’Opa lan­ciata da Olivetti su Telecom giustificano la diffidenza per questa pia giaculatoria. Perché, quando si viene al dunque, e si tratta finalmente di lasciar funzionare il mercato, e c’è qualcosa che non piace, c’è sempre qualche regolina nuova da aggiungere.

Proviamo a elencare: c’è la legge 474/94 che stabilisce le rego­le per privatizzare; la legge 249/97 che istituisce l’Autorità garante delle Comunicazioni; un decreto del 21-3-97 definisce i poteri della golden share; il DLgs 58/98, la cosiddetta legge Draghi, che definisce tra l’altro le regole dell’Opa. Bastano? Palla al centro e ricominciamo a giocare?
Manco per sogno. Pazienza per Nerio Nesi: lui e compagni so­no coerenti, alla sola parola mercato mettono mano alla fondina. A stupire sono i commenti di osservatori acuti e illuminati. Come Massimo Riva che, sulla «Repubblica» del 23 febbraio, esige seve­«il rispetto delle regole». Ma non c’è già la Consob per farle rispettare, anzi non ha dimostrato di essere pronta e attenta anche su dettagli che sembrano formali? Eppure proprio Massimo Riva am­moniva, sempre sulla «Repubblica», il 22 ottobre 1998: per Telecom «un padrone o il naufragio». «Anche se dovesse esser affidata alle cure di un Leonardo da Vinci del management — scriveva allora — [Telecom] non riuscirà a trovare slancio e tranquillità fino a quando non sarà affrontato e risolto il nodo cruciale della mancanza di un azionista padrone». Cinque mesi dopo si presenta uno, non è un Leonardo da Vinci, ma qualcosa nella vita ha pur dimostrato di saper fare, e rischia soldi suoi. Invece di dargli il benvenuto, Massimo Riva lo respinge come «non abbastanza appetibi­le». Il Riva dí ottobre inneggiava a «quella stimolante sanzione del mercato che è il rischio di scalata dall’esterno». Per quello di feb­braio, chi questa stimolante azione prova ad esercitarla, fa una «fantasiosa e azzardata operazione economica», mostra «leggerez­za e dilettantismo che lasciano sconcertati», finirebbe per occupar­si solo «di tagliare costi». Quanto a questo, in Telecom ce n’è per anni, incominciando da quelle spese di «relazioni pubbliche», che, se ricordo bene, pure Riva trovava scandalose.
Le regole non prevedono quanto l’offerta debba essere van­taggiosa, nulla dicono sulla struttura patrimoniale che lo sfidante propone. Tocca al mercato giudicare l’offerta, e le regole servono perché questo giudizio possa aver luogo. Il giudizio viene dopo, per poterlo esprimere bisogna che il gioco incominci. Ma poi per­ché preoccuparsi? Se l’offerta di Colaninno & Co. è così poco ap­petibile per gli azionisti, saranno essi stessi a respingerla. Questi non sono dei minus habentes bisognosi di tutela, come sembrano considerarli i loro (autonominati?) rappresentanti che abbiamo vi­sto a Pinocchio. Se lo sfidante è una squadretta di serie C, un po’ raffazzonata, con poche riserve, mica si avrà paura che le suoni 4 a zero alla capolista che ha Vieri all’attacco e Zeman in panchina, e che gioca in casa?
A forza di sospendere il gioco ogni volta che sta per iniziare, di cambiare le regole in funzione di quelli a cui si applicano, si cor­re un grosso rischio: che si metta la regola per cui non si gioca più. Questo è il vero pericolo che incombe. Sul «Wall Street Journal» di ieri, l’amministratore delegato di Telecom ha annunciato — e poi smentito, ma solo in parte — di voler procedere, per difendersi dall’Opa, alla fusione di Tim in Telecom e alla trasformazione delle azioni di risparmio in ordinarie. Sulla legittimità di tali decisioni vigila Consob: un’azienda sotto scalata non può assumere iniziati­ve impedienti altro che in assemblea in cui sia presente almeno il 30% del capitale. Ma al di là della legittimità, è comprensibile che Telecom si proponga di adottarle: non fosse che nel Consiglio di Telecom il gruppo di consiglieri più numeroso è quello di nomina governativa. Se essi votassero nel senso di «blindare» l’azienda, il Tesoro avrebbe per sua decisione reso praticamente non scalabile l’azienda che il Tesoro stesso aveva venduto come scalabile. La legge Draghi era intesa anche a rendere più contendibile il con­i rollo; il Tesoro stesso avrebbe di fatto reso inapplicabile la legge alla sua prima importante prova.
A essere sostanzialmente lesi non sarebbero solo le regole, ma anche precisi interessi dei risparmiatori. È noto infatti che le aziende non scalabili hanno un valore di mercato inferiore: coloro che hanno comperato le azioni pensando che l’azienda fosse sca­labile sarebbero di fatto stati ingannati. E coloro che, grazie all’annuncio di Opa, hanno visto il valore delle loro azioni aumen­tare significativamente, sarebbero privati del diritto di realizzare la plusvalenza. È giusto che gli azionisti vengano protetti: dai merca­ti certo, ma prima ancora dai Governi.

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