Liberalizzare, la via per crescere

maggio 24, 2012


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Si sente parlare di piano per la crescita e si pensa a fiumi di soldi. Chi soffre sotto il peso della crisi chiede ai politici di fare qualcosa; questi vorrebbero annunciare qualcosa di concreto e rapido, tanti soldi in poco tempo. Così nasce la grande mistificazione.

Se si usano i risparmi delle famiglie per spese pubbliche improduttive (come abbiamo fatto noi) il paese si indebita e deve destinare parte delle imposte al pagamento degli interessi. Se questi diventano eccessivi e i creditori ne richiedono sempre più alti, deve ridurre i consumi o aumentare la produttività. Ridurre i consumi è presto fatto, basta aumentare le tasse. Ma crescere vuol dire aumentare la produttività, smettere di fare le cose in cui si è meno efficienti e concentrarsi su quelle dove lo si può essere di più, cambiare i modi di produrre e di organizzare il lavoro, investire in formazione. Cose che richiedono sforzi di anni e anni.

Come ricordava anche ieri Raghuram Rajan al convegno di Advantage Financial, abbiamo un problema di debito, non di ciclo economico: ma i potenti della terra preferiscono vendere agli elettori piani di grandi infrastrutture, quelli che in altri tempi si è pensato andassero bene per problemi di ciclo. Ma quali infrastrutture, poi? Per restare a casa nostra: se non si è fatto il ponte sullo Stretto di Messina è perché non tornano i conti, per la Torino Lione è solo per non essere confusi con i No Tav che si fanno sommesse le voci che avanzano dei dubbi, per le autostrade lombarde il decennale ritardo non è dovuto a mancanza di soldi, la rete a banda larga è in ritardo per ragioni connesse con la stabilità patrimoniale di Telecom. Il consuntivo delle grandi opere è sempre un multiplo del preventivo: dal tunnel del Fréjus nell’800, al ponte di vetro di Calatrava a Venezia, passando per l’alta velocità. Per il terremoto dell’Irpinia, i 4 miliardi previsti sono diventati 30.

C’è anche chi (Luciano Gallino) pensa a una mega-agenzia che, assunti tutti i disoccupati, li spedisca a fare tutto ciò di cui si sente la mancanza, dal restauro di Pompei alla ripulitura delle città ai servizi alle persone: dimenticando che tutte le imprese hanno bisogno di un’organizzazione, e che è per carenza di impresa e di organizzazione che ci sono i disoccupati.

L’Europa nel suo insieme è in equilibrio tra quanto produce e quanto consuma. Gli squilibri sono interni. Si sono formati perché si è ritenuto che la moneta comune annullasse il rischio paese, che Maastricht fosse un pranzo gratis. In Italia abbiamo creduto che bastasse un prestito a medio termine (l’eurotassa) e qualche operazione straordinaria (privatizzazioni) per eliminare per sempre il differenziale dei tassi. In Spagna all’idea del pranzo gratis hanno contribuito le banche tedesche, imprestando a tassi che non tenevano conto del rischio paese e finanziando così la bolla immobiliare. In Grecia si è falsificato il conto del ristorante. La Germania con la liberalizzazione del mercato del lavoro e la moderazione salariale ha risolto i problemi di costo, e approfittato del cambio favorevole per aumentare le proprie esportazioni. Ma quanto a modificare strutture e culture ha anche lei toccato con mano che non bastano i soldi: con le somme astronomiche riversate nei Land dell’Est, dopo oltre 20 anni, il PIL pro capite è ancora inferiore a quello dei Land occidentali. Da noi, chiusa la Cassa per il Mezzogiorno dopo 40 anni in cui ha speso 120 miliardi, la nuova strategia è riuscita a far peggio: dal 1998 al 2004, per interventi specifici si sono spesi 55 Miliardi, 3 volte quello che la Cassa aveva speso nei suoi 7 anni d’oro. E sappiamo i risultati.

Prima di Maastricht, se uno stato accumulava un debito insostenibile, ricorreva al ciclo svalutazione – inflazione – rinegoziazione del debito: Reinhart e Rogoff hanno contato le centinaia di volte in cui è accaduto. La rigidità dei patti per l’euro ha proprio lo scopo di persuadere i mercati che quella strada non verrà percorsa. Ma Grecia e Spagna non stanno all’Eurozona come il Mezzogiorno all’Italia o i neue Bundeslaender alla Germania: sono Paesi sovrani, con il proprio sistema giuridico, la propria cultura, i propri sistemi di protezione, la propria struttura produttiva: eleggono i propri rappresentanti. Partecipare all’euro significava cedere sovranità su moneta, politica estera, libertà di circolazione: aree per così dire esterne. Restare nell’euro richiede di modificare il proprio modello sociale, di ripensare il rapporto con il proprio paese: cioè il cuore stesso del rapporto di cittadinanza. Il solo piano possibile consiste nel concedere più tempo al rientro, ai processi di riduzione dei consumi e di aumento della produttività. Ma quando i tempi necessari coprono diversi cicli elettorali, bisogna dare assicurazione anche ai mercati, se si vuole che si abbassi lo spread. Posto sotto stretta osservazione, con le sue banche “europeizzate” dall’ ESF, il paese diventa un protettorato: risolvere il problema del tempo produce problemi di democrazia. Come è puntualmente avvenuto in Grecia: consci dell’imprescindibilità della propria permanenza nell’euro, i partiti estremisti danno voce al ricatto.

Neppure noi siamo immuni a rischi, anche se, per fortuna, diversi. Il nostro rischio è che la considerazione che l’euro o è per sempre o non è, ci induca nella tentazione di correre l’azzardo morale. Se vi avessimo ceduto, non avremmo neppure avuto il governo Monti: proprio chi trova ragioni di compiacimento in ciò che questo governo ha fatto, dovrebbe non dimenticarlo. Per la crescita bisogna liberalizzare, non chiuderci dentro gli steccati del controllo, offrire agli operatori un quadro di norme chiare e affidabili, restringere l’area di azione della pubblica amministrazione, ripensare daccapo le istituzioni dello stato sociale. La strada rimane sempre quella: qualunque cosa succeda.

ARTICOLI CORRELATI
Before Starting Over, a Spiral to Stop
di Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2012

Why it is Greece’s best interest to leave the Euro
di Costas Lapavitsas – Financial Times, 23 maggio 2012

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: