Le grandi banche troppo “presenti”

luglio 27, 2001


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Un’occasione per il capitalismo privato italiano

All’inizio del 1998, discutendosi in Parlamento il TUF – più noto come legge Draghi -, pensai di creare un’occasione in cui il capitalismo privato italiano dicesse la sua su un progetto che introduceva nel nostro ordinamento regole di corporate governance su cui si era discusso per decenni. Organizzai un convegno, in cui da un lato c’erano le istituzioni, il Tesoro con Mario Draghi e la Consob con l’allora presidente Tommaso Padoa Schioppa; dall’altro protagonisti del grande capitalismo privato, Giovanni Agnelli, Franco Bernabè, Fedele Confalonieri, Pietro Marzotto, Don Moore, Francesco Trapani, Marco Tronchetti Provera. E, a completare il quadro, le due Fondazioni bancarie torinesi, Compagnia di S.Paolo e CRT, che convinsi a sponsorizzare il convegno.

Ho ripensato a quel simbolico incontro in diverse occasioni, in particolare le due OPA, quella “epica” su Telecom, e quella “storica” su Montedison. Entrambe vedono coinvolte Fiat e Mediobanca, i due pilastri del sistema capitalistico italiano: questa, campione della resistenza al dilagare del pubblico in economia; quella, protagonista di quella ridefinizione dei rapporti con il potere sindacale in azienda grazie alla quale l’industria italiana si è rimessa in piedi negli anni 80. In entrambe le operazioni, Fiat e Mediobanca si sono trovate su fronti opposti: coincidenza troppo singolare per essere casuale, e che quindi stimola qualche riflessione.
La prima riflessione é, una volta tanto, ottimista: in fondo le due vicende, quella Telecom e quella Montedison, dimostrano che la legge Draghi funziona, che le regole di corporate governance e sull’OPA forniscono gli strumenti per far saltare antichi equilibri, promuovono la competizione per il controllo. In Montedison, per stare al caso recente, i nuovi azionisti realizzeranno con maggiore rapidità quel progetto di razionalizzazione industriale messo a punto dal precedente management, ma su cui fino a ieri alcuni dei suoi azionisti non consentivano se non a parole. Sarà dunque la Fiat a smontare il conglomerato messo in piedi da Enrico Cuccia e difeso da un patto di sindacato; in luogo di un insieme di business eterogenei tenuti insieme da logiche di controllo, la focalizzazione sull’attività elettrica; in luogo di incroci azionari e barocche costruzioni finanziarie, un’alleanza industriale. Altro che erede di Cuccia, come ha scritto il Foglio: da questo punto di vista Agnelli sarebbe semmai l’antitesi di Cuccia.
Fiat ha raccolto con prontezza di riflessi l’assist del decreto Amato: se poi questo capitale verrà impiegato per dar vita a una nuova avventura industriale o se sarà stato solo la valorizzazione di un bene immateriale, lo dirà il tempo. E il tempo non sempre passa invano: l’alleanza di oggi in Italenergia appare tutto sommato preferibile a quella tra EDF ed Enel ipotizzata sette anni fa dal Governo Ciampi: una volta che si debba accettare che un’azienda pubblica e monopolista nel suo paese come EdF possa entrare nel mercato che stiamo liberalizzando.
Mi sia consentito di aggiungere un nota di campanile: non fu solo per “interesse di collegio” che scelsi Torino come sede del convegno di cui dicevo all’inizio, ma perché Torino è sede sia di grande industria – Fiat e Telecom per citare solo le due maggiori – sia di grande finanza: Sanpaolo IMI, allora non ancora scavalcata in graduatoria da Ambrosiano-Cariplo; CRT; e poi SAI, Toro, Reale Mutua. Oggi si aggiunge Italenergia: per la consolazione dei tanti torinesi afflitti dalla sindrome di emarginazione.
Ma l’OPA Montedison induce anche riflessioni di tono più problematico. Perché rivela il perdurare di un grave problema: nel nostro capitalismo senza capitali stentano a crescere nuovi protagonisti. La legge Draghi da sola non basta. Come dimostra la vicenda Montedison, dai conflitti interni tra i soci di Mediobanca non nasce un policentrismo ma, per il momento almeno, si alimentano occasioni di cui difficilmente grandi imprese straniere, protagoniste dei mercati, non vorranno approfittare. Il nodo che sta venendo al pettine è quello dell’evidente ma problematica centralità assunta dalle primarie banche italiane, protagoniste tutte, sia a monte sia a valle, dei diversi schemi di sistemazione di quella che si chiamava la “Galassia Mediobanca”: le ipotesi SanPaolo – Banca di Roma e Unicredito-Mediobanca; la presidenza di Mediobanca; le tante combinazioni che ruotano intorno alla preda più ambita, le Generali; di lì passa anche il consolidarsi di Olivetti -Telecom come nuovo centro autonomo oppure no, come testimonia l’infittirsi delle voci di mercato.
Tutte e ciascuna di queste vicende ruotano intorno al ruolo delle banche presenti a diverso titolo, grazie al TU bancario del 93, nell’azionariato di imprese anche diverse da quelle creditizie.
Ma le banche ( e ancor più le Fondazioni) sembra che facciano discendere le loro decisioni più da considerazioni di schieramento su poli di potere che da valutazioni di redditività e di sinergie. Così il fatto che l’assetto del nostro capitalismo finisca per dipendere da operazioni che coinvolgono banche, unito al potere di antitrust bancario che la legge attribuisce a Banca d’Italia, produce la paradossale conseguenza di mettere un onere molto pesante sulle spalle del Governatore. Interpretando quel mandato, il Governatore ha aperto l’azionariato delle nostre banche a soci stranieri più di quanto abbiano fatto altri paesi, contemporaneamente assicurando condizioni di reciprocità. Sarà ancora più impegnativo per lui il compito nel caso che lotte interne a Mediobanca facciano dipendere da sue decisioni la difesa dell’italianità e dell’indipendenza del nostro più ambito asset finanziario, la sola nostra public company, le Generali.
Tagliare questo nodo con un colpo d’ascia che esponga il sistema delle banche alla stessa stregua delle imprese industriali alle forze della concorrenza, senza riguardo alla nazionalità, è oggi improponibile. Quanto invece alla possibilità che nel nostro paese si sviluppi un “sano” policentrismo industriale e finanziario – cioè qualcosa di molto diverso dalle contrapposizioni degli ultimi tempi -oltre all’incidenza delle decisioni del regolatore, conta e conterà molto, purtroppo, l’inevitabile influenza della politica; anzi oggi più che in passato, per la forte maggioranza su cui può contare chi è a Palazzo Chigi. Ma, innanzitutto, non può che dipendere dalla lungimiranza e dal senso di responsabilità dei protagonisti del nostro capitalismo. «E’ un peccato che il capitalismo italiano si divida» ha commentato recentemente l’Avv. Agnelli. Sarà più facile evitare questo “peccato” se prevarrà l’assennatezza delle ultime fasi dell’OPA su Montedison.

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