Il libro di Piketty è un manifesto politico stroncabile anche senza tabelle

giugno 6, 2014


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Da quando è stata pubblicata la traduzione inglese di “Le Capital au XXIe Siècle”, le recensioni, i convegni, gli inviti hanno proiettato Thomas Piketty a livelli di notorietà inusuali per un economista. Ragion per cui, quando il Financial Times spara la notizia che ci sono errori nei suoi numeri e nel modo di usarli, il botto è proporzionato al successo. Gli entusiasti tutti dietro a Paul Krugman, a scagliarsi contro i pignoli incompetenti che avevano osato attaccarlo, i critici (quorum ego) a sorridere: che vi dicevo? Thomas Piketty ha scritto 1.000 pagine (dell’edizione originale) corredate da 115 tra grafici e tabelle, sintesi di 15 anni di lavoro accademico, una formidabile cintura protettiva intorno alla tesi che il capitalismo produce diseguaglianza. “Dimostrare” una tesi con una massa intimidente di dati: è il pikettismo. Ragionare sul rapporto tra scelta della tesi e raccolta dei dati: è il metapikettismo.

Quelli che hanno confutato la tesi di Piketty l’hanno fatto prescindendo dai suoi dati, con argomenti che valgono indipendentemente dal fatto che i numeri fossero giusti o sbagliati. Solo se la tesi è convincente, si cercano i dati atti a confermarla. Vale nelle scienze fisiche: la teoria della relatività viene prima della conferma con la precessione del perielio di Mercurio; il bosone di Higgs è predetto decenni prima di trovarlo. Vale a maggior ragione nelle scienze sociali, dove – Hayek docet – non esistono “leggi” deterministiche analoghe a quelle dei fenomeni fisici. Non c’è mole di dati che “dimostri” che la diseguaglianza è la conseguenza del capitalismo, “inevitabile” come “inevitabile” ne era per Karl Marx la fine a causa della caduta del saggio tendenziale di profitto. Per refutare la tesi di Piketty basta refutare la sua idea di capitale, senza bisogno di grafici e tabelle: osservare che il capitale per lui non sono i mezzi di produzione, ma qualsiasi proprietà con un valore di mercato, che sia o no produttiva; che il rendimento, la “r” al centro della sua rappresentazione, ne indica la variazione in valore; che il capitale si riduce a una massa omogenea il cui valore aumenta da solo al passare del tempo, senza bolle che crescono e scoppiano, non correlato al rischio, concetto estraneo alla sua teoria; che l’1 per cento dei più ricchi è un aggregato statistico, non l’insieme in continuo movimento di persone che vi entrano e che vi escono.
Per il metapikettista è evidente che il pikettismo, preoccupato di accumulare dati a sostegno di una tesi universale, rinuncia a usare i dati per indagare le differenze. Cina, Nigeria, America sono tutte, in senso lato, economie di mercato, e tutte presentano diseguaglianze, ma quello che interessa è la diversità tra le cause che le producono e le forme che assumono, non solo la loro entità. Nell’aggregato statistico non si individuano le cause: ad esempio come l’esplosione del numero di persone raggiunte dai media globalizzati abbia sospinto chi fa parte dello star system verso il club dell’1 per cento supericco. O ancora: quanti in ogni momento sono i banchieri nell’1 per cento più ricco in America? Come si spiega che gli azionisti delle banche accettino di pagar somme da capogiro ai loro amministratori? O che clienti delle banche gli affidino i propri soldi pur sapendo che quei bonus premiano i profitti che le banche fanno usandoli per speculare? Il settore bancario è di gran lunga il più regolato di tutti: sarà che i bonus premiano proprio la capacità dei banchieri di sfruttare le conseguenze impreviste della regolazione? E’ quello che sostiene, ad esempio, Michael Lewis descrivendo come le grandi banche hanno usato l’High Frequency Trading.
C’è una logica connessione tra tesi della “diseguaglianza fondamentale”, dati per dimostrarla, “strumento nuovo” per porvi rimedio. Non è perché i dati sono inesatti che una tassazione confiscatoria su redditi e su patrimonio non può funzionare, ma perché, rincorrendo l’universalità della legge, Piketty perde di vista lo specifico delle organizzazioni sociali. Se in America la gran parte degli appartenenti al club dell’1 per cento vogliono escludere i figli dall’eredità non è per ridurre le disuguaglianze, ma per il bene dei figli stessi e per la fedeltà alla società dove han potuto accumulare ricchezza, e in cui i privati si fanno carico di sostenere welfare, cultura e politica. E non si vergognano se, nel farlo, produce diseguaglianze.
Gravi o meno gravi che siano gli errori trovati dal Ft, essi hanno spostato il discorso dal pikettismo al metapikettismo: a considerare il “Capitalismo del XXI secolo” come un manifesto politico, e valutarlo indipendentemente dall’apparato statistico che dovrebbe supportarlo.

ARTICOLI CORRELATI
Europe pessimistic on income equality as Americans cling to dream
By Stefan Wagstyl – Financial Times, 17 agosto 2014

Equality lacks relevance if the poor are growing richer
By Deirdre McCloskey – Financial Times, 11 agosto 2014

What Would Piketty’s 80 Percent Tax Rate Do to the U.S. Economy?
by Michael Schuyler – Tax Foundation, 28 July 2014

Is Piketty’s ‘Second Law of Capitalism’ fundamental?
by Per Krusell, Tony Smith – Vox, Research-based policy analysis and commentary from leading economists, 1 June 2014

The Rise and Fall of General Laws of Capitalism.
by Daron Acemoglu and James A. Robinson – August 2014

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: