→ Iscriviti
→  settembre 25, 2014


Editoriale del Foglio

Quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori “è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese”. Lo ha detto due giorni fa il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, con discreta eco sulla carta stampata. D’altronde un imprenditore che dica che c’è “benaltro da fare”, proprio quando si vede all’orizzonte un governo finalmente pronto a cambiare una norma vecchia di 44 anni, in Italia lo troviamo sempre. Ieri, per esempio la Cgil rilanciava prontamente su Twitter l’intervista rilasciata a Ballarò da un “imprenditore” che sosteneva: “A noi dell’articolo 18 non interessa niente”. Lo stesso “imprenditore”, in realtà ai vertici di una cooperativa, che trenta secondi prima spiegava cosa s’attende dallo stato: “Meno tasse e più incentivi, più risorse”. Perché no? A Napoli hanno appena scoperto la più grande stamperia d’Europa di banconote false. Qualcuno ne metterà su un’altra e allora potremo realizzare l’originale proposta: meno entrate per lo stato e, allo stesso tempo, più uscite.
Ma De Benedetti non è un imprenditore qualunque. Eppure insiste: “L’articolo 18 è un problema minore”.

Nell’articolo 18, per 44 anni, si è cristalizzata una legge dell’economia che vige soltanto in Italia: sui licenziamenti individuali, per ragioni economiche o disciplinari che sia, è più titolato a decidere un magistrato che un datore di lavoro. Problema minore, quello dei licenziamenti, per chi per esempio, come De Benedetti, si è dovuto sudare contratti e accordi con un carrozzone statale e politicizzato come l’Iri. Problema minore quando gli organici si tagliano in grandi quantità, come fu per Olivetti, e addirittura si è nella posizione di intavolare trattative (raccontate anche su Rep. degli anni 90) per paracadutare i licenziati nel settore pubblico. Problema minore, quello dell’articolo 18, se la Sorgenia può avvalersi di sussidi pubblici (per carità, in buona compagnia). Problema minore, quello dell’articolo 18, se tanto per i propri dipendenti c’è sempre la cassa integrazione e per l’indotto c’è perfino quella in deroga. Poco importa se il welfare attuale, tutt’altro che universale, è figlio diretto della divisione dei lavoratori italiani tra insider garantiti e outsider senza protezioni. Poco importa se 90 assunti su 100, nel 2013, l’articolo 18 nemmeno l’hanno visto, spesso vittime di quella che il giuslavorista chiama “fuga dal diritto del lavoro”. La tessera numero uno del (vecchio) Pd vuole parlar d’altro. E purtroppo in Italia non è il solo.

→  settembre 24, 2014


di Vittorio Da Rold

«Quello dell’articolo 18 è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese». Così il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, a margine di un incontro in Bocconi per l’inaugurazione di una cattedra per l’imprenditorialità in memoria del padre Rodolfo.

L’articolo 18, ha premesso De Benedetti, è stato «storicamente importante ma nelle condizioni in cui è l’Italia oggi, che sono preoccupanti, fermarsi a parlare di articolo 18 è un problema minore, capisco lo spirito dei molti che ci sono affezionati».
Quanto alle resistenze all’interno del Pd alla linea di Matteo Renzi, non solo in materia di lavoro, «sono comprensibili ma devono essere superate», ha auspicato l’ingegnere che ha poi aggiunto: «L’Italia sta degradando, non declinando, è questo quello che succede, siamo miracolosamente ancora in Europa».
E per sconfiggere il declinismo De Benedetti è passato a spiegare perché ha deciso di dedicare un Cattedra alla Bocconi a suo padre, «un vero piemontese, nato ad Asti nel 1892, un gentiluomo dedito al lavoro più che alle pubbliche relazioni, un ingegnere laureatosi al Politecnico di Torino subito dopo la fine della Prima guerra mondiale e che divenne imprenditore, dopo essere emigrato in Germania, grazie a un venture capital ante litteram, un prestito dello zio di mio padre». Così Carlo De Benedetti ha ricordato gli inizi dell’avventura imprenditoriale della sua famiglia e i motivi che lo hanno spinto a istituire la Cattedra Rodolfo Debenedetti in Entrepreneurship alla Bocconi di Milano, grazie a una donazione a titolo personale, dell’ammontare di 3 milioni di euro.

«Con questa iniziativa in memoria di mio padre – ha affermato De Benedetti – vorrei insieme alla Bocconi aiutare i giovani che nonostante tutte le negatività hanno voglia di provarci». Per facilitare questo obiettivo bisogna aiutare l’imprenditorialità italiana a fare un balzo in avanti. In altri termini – ha detto Fabiano Schivardi, il professore titolare della Cattedra – le modalità di apprendimento tradizionali, la palestra dei distretti, non sono più sufficienti, in un mondo in cui il successo d’impresa dipende più dalla capacità di innovazione che da quella di contenere i costi. Una formazione più strutturata e l’acquisizione di capacità manageriali dall’esterno possono essere le soluzioni alla crisi di crescita.

→  settembre 23, 2014


di Michele Ainisi

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.
E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori – di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo – fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act ), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.

→  settembre 22, 2014


di Giorgio La Malfa

Caro direttore,

Sul piano strettamente economico la decisione del governo di procedere in questo momento a un’ulteriore riforma del mercato del lavoro per aumentarne la flessibilità a me sembra un errore. Anzi un errore grave che può compromettere ulteriormente una situazione economica che è già molto seria.

Non è questa solo l’opinione mia e di molti economisti. Oggi è una posizione che trova importanti convalide nelle analisi delle organizzazioni internazionali. Ha cominciato il Fondo Monetario riconoscendo che gli effetti della correzione accelerata dei conti pubblici ha avuto effetti depressivi molto forti. Ma quello che più conta è l’analisi, largamente ignorata in Italia, che ha fatto il Presidente della BCE, Mario Draghi, in un cruciale discorso tenuto il 22 agosto scorso negli Stati Uniti.

In quel discorso Draghi ha spiegato che nella disoccupazione europea vi sono due componenti, una strutturale collegata alle condizioni di rigidità del mercato del lavoro ed una ciclica collegata alle condizioni della domanda. Subito dopo ha detto che oggi la priorità è risollevare la domanda aggregata: “Le politiche di intervento sulla domanda non sono giustificate soltanto dalla significativa componente ciclica della disoccupazione. Esse sono rilevanti perché, data l’incertezza che prevale in questo momento, esse contribuiscono ad evitare il rischio che la debolezza dell’economia produca un effetto di isteresi [un circolo vizioso in cui la depressione della domanda causa una parziale distruzione della capacità produttiva ndA].” Ed ha concluso: “Oggi […] i rischi di ‘fare troppo poco’ – e cioè il rischio che la disoccupazione divenga strutturale – sono maggiori dei rischi ‘di fare troppo’ – cioè di determinare un’eccessiva pressione in aumento per i prezzi ed i salari.”

Se questa è la diagnosi di un autorevole economista che per di piu siede al vertice di una istituzione che è, per cosi dire, istituzionalmente conservatrice, come si può pensare che il problema di cui oggi ha bisogno l’Italia sia un’ulteriore flessibilità del mercato del lavoro? Il primo effetto della maggiore flessibilita sarebbe un ulteriore aumento della disocccupazione e un ulteriore avvitamento dell’Italia nella crisi. Il governo dovrebbe concentrare la sua attenzione sullo stimolo della domanda e lasciar stare il mercato del lavoro che la crisi di questi anni ha già reso anche troppo flessibile.

Non discuto le ragioni politiche che possono indurre il presidente del Consiglio a ingaggiare una polemica con I sindacati. I sindacati non sono molto popolari oggi, nemmeno fra I loro aderenti, e quindi scontrarsi con loro può creare delle simpatie nell’opinione pubblica. E il governo può averne bisogno essendo palpabile la disillusione di una parte dell’elettorato che aveva votato Renzi alle elezioni europee. Tutto questo si capisce, ma non vorrei che la ricerca della popolarità ci facesse fare nuovi e costosi errori.

→  settembre 11, 2014


di Fabrizio Onida

Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».

Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.

Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.

Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.

I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.

Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).

Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.

ARTICOLI CORRELATI
I rebus della politica industriale
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2014

→  agosto 17, 2014


By Stefan Wagstyl
Most Europeans think their societies are far less equal than they are, while Americans are unusual in believing that their country is somewhat more equal than it really is.
A German report sheds new light on the political challenges involved in tax, income distribution and social fairness and raises fresh questions in the equality debate recently revived by French economist Thomas Piketty.
“The results of the study suggest that, in the political debate on income distribution, it is often not the facts that count but [perceptions],” says Professor Michael Hüther, director of the Cologne-based IW economic institute, which carried out the research.
Judith Niehues is due to present her findings this week at Germany’s Lindau economic conference, attended by Nobel laureates. She compared actual and perceived income levels in the US and 23 EU countries, using economic data and an international social attitudes study based on polling about 1,000 people in each country.
She found that people in Europe underestimate the proportion of middle-income earners and overestimate the proportion of the poor, commonly defined as people on incomes of 60 per cent or less of the median.
Only the US has a more unequal income distribution than its citizens imagined, with many more poor people.

In Europe, people on middle incomes are far more numerous than those at the bottom or the top of the pay ladder. So a European income distribution chart resembles a barrel, with a bulge in the middle. But many people see it as a tower standing on a broad plinth, with a small elite, a modest middle-class and a big base of low earners.

This is particularly true in Germany and France, where people see income distribution as far more unequal than it really is. By contrast in Britain and Spain, where income distribution is somewhat less equal than in France and Germany, people’s perceptions are more accurate.
In the US, more than 30 per cent of Americans have incomes of 60 per cent or less of the median. But most people think that only 24 per cent of their fellow citizens are at this level. “The middle class is truly smaller in the USA and the lower income group considerably more numerous than its citizens suppose,” says a summary of the study.
The report suggests this might be partly linked to social mobility in the US – people may be less focused on inequality if they think they are climbing the income ladder. The relative lack of concern about inequality could explain why pressure for redistributive taxation is lower in the US than on the other side of the Atlantic.
In Europe, the gap between perception and reality is particularly wide in the former Communist states, with citizens convinced their countries are far less equal than they are.
In addition to perceptions of income distribution, the report also looks at levels of concern about inequality. This tends to be greater in countries with higher levels of perceived inequality – such as France and Germany – than in countries with higher levels of actual inequality – such as the UK and Spain. More than 50 per cent of Germans and 79 per cent of French think income differentials are too great, compared with around 30 per cent of Britons and Spaniards.
The report suggests that all this should matter to policymakers designing tax and social transfer systems because actual levels of inequality seem less important to voters than perceived levels of inequality.
But it does not address the core argument in Mr Piketty’s book, which focused on inequalities of wealth rather than income, and argued that wealth inequalities are more significant in driving overall social inequality.

Subjective Perceptions of Inequality and Redistributive Preferences: An International Comparison, by Judith Niehues, Cologne Institute for Economic Research