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→  agosto 11, 2014


By Deirdre McCloskey

Making men and women all equal. That I take to be the gist of our political theory.”
This rejoinder to rightwingers who delight in rank and privilege is spoken by Lady Glencora Palliser, the free-spirited Liberal heroine of Anthony Trollope’s Phineas Finn. It encapsulates the cardinal error of much of the left.
Joshua Monk, one of the novel’s Radicals, sees through it. “Equality is an ugly word . . . and frightens,” he says. The aim of the true Liberal should not be equality but “lifting up those below him”. It is to be achieved not by redistribution but by free trade, compulsory education and women’s rights.
And so it came to pass. In the UK since 1800, or Italy since 1900, or Hong Kong since 1950, real income per head has increased by a factor of anywhere from 15 to 100, depending on how one allows for the improved quality of steel girders and plate glass, medicine and economics.
In relative terms, the poorest people have been the biggest beneficiaries. The rich became richer, true. But millions more have gas heating, cars, smallpox vaccinations, indoor plumbing, cheap travel, rights for women, lower child mortality, adequate nutrition, taller bodies, doubled life expectancy, schooling for their kids, newspapers, a vote, a shot at university and respect.
Never had anything similar happened, not in the glory of Greece or the grandeur of Rome, not in ancient Egypt or medieval China. What I call The Great Enrichment is the main fact and finding of economic history.
Yet you will have heard that our biggest problem is inequality, and that we must make men and women equal. No, we should not – at least, not if we want to lift up the poor.
Ethically speaking, the true liberal should care only about whether the poorest among us are moving closer to having enough to live with dignity and to participate in a democracy. They are. Even in already rich countries, such as the UK and the US, the real income of the poor has recently risen, not stagnated – if, that is, income is correctly measured to include better healthcare, better working conditions, more years of education, longer retirements and, above all, the rising quality of goods. Admittedly, it is rising at a slower pace than in the 1950s; but that era of rising prosperity followed the wretched setbacks of the Great Depression and the second world war.
It matters ethically, of course, how the rich obtained their wealth – whether from stealing or from choosing the right womb (as the billionaire investor Warren Buffett puts it); or from voluntary exchanges for the cheap cement or the cheap air travel the now-rich had the good sense to provide the once-poor. We should prosecute theft and reintroduce heavy inheritance taxes. But we should not kill the goose that laid the golden eggs.
What does not matter ethically are the routine historical ups and downs of the Gini coefficient, a measure of inequality, or the excesses of the 1 per cent of the 1 per cent, of a sort one could have seen three centuries ago in Versailles. There are not enough really rich people. If we seized the assets of the 85 wealthiest people in the world to make a fund to give annually to the poorest half, it would raise their spending power by less than 4p a day.
All the foreign aid to Africa or South and Central America, for example, is dwarfed by the amount that nations in these areas would gain if the rich world abandoned tariffs and other protections for their agriculture industries. There are ways to help the poor – let the Great Enrichment proceed, as it has in China and India – but charity or expropriation are not the ways.
The Great Enrichment came from innovation, not from accumulating capital or exploiting the working classes or lording it over the colonies. Capital had little to do with it, despite the unhappy fact that we call the system “capitalism”. Capital is necessary. But so are water, labour, oxygen and pencils. The path to prosperity involves betterment, not piling brick on brick.
Taxing the rich, or capital, does not help the poor. It can throw a spanner into the mightiest engine for lifting up those below us, arising from a new equality, not of material worth but of liberty and dignity. Gini coefficients are not what matter; the Great Enrichment is.

→  agosto 4, 2014


di Federico Fubini
Giovedì presenterà la sua proposta più operativa: il taglio dei costi delle società partecipate dalle amministrazioni dello Stato e una drastica sforbiciata al loro numero, così esorbitante che nessuno sa più quante sono: di certo, più di diecimila.
L’IMPEGNO DI RENZI
Il 18 aprile scorso Matteo Renzi si è impegnato a ridurle “a mille entro tre anni”. Il premier lo ha fatto nella conferenza stampa in cui annunciò il bonus da 80 euro al mese sui redditi medio-bassi, una promessa mantenuta. Ora Cottarelli intende aiutarlo a rispettare anche quella sulle imprese di cui sono azionisti lo Stato centrale, le regioni, le provincie o i comuni. È un obbligo di legge: il decreto 66, quello sul bonus Irpef, vincola il commissario a presentare in questi giorni un piano sulle mille piccole Iri d’Italia e ormai esso è pronto. Il piatto forte sarà un doppio programma di liquidazione e accorpamento di migliaia di imprese pubbliche o semi-pubbliche.
AL LAVORO CON LA CORTE DEI CONTI
Per arrivarci, Cottarelli ha lavorato fianco a fianco con la Corte dei Conti su ciò che è dato sapere dei bilanci delle società pubbliche. È stato un viaggio dalle gigantesche controllate della Regione Lombardia, alle follie veneziane, fino alle società “in house” di Priolo Gargallo in Sicilia, passando le attività balneari di Alassio, l’incredibile voragine finanziaria di Viareggio, i problemi della provincia di Firenze e gli scioccanti livelli di costo pari e inefficienza dell’Ama, la società dei rifiuti del comune di Roma.
In Italia le società controllate al 100% da amministrazioni dello Stato sono circa cinquemila, di cui 400 in mano alle regioni. Cottarelli definisce questo mondo una “giungla”. Un codicillo fatto passare dal governo di Mario Monti due anni fa ora obbliga gli amministratori di questa giungla a fare un po’ di trasparenza: i revisori devono registrare i loro conti sul Siquel, la banca dati della Corte dei Conti. I primi numeri iniziano ad emergere proprio in queste settimane, con vaste lacune, ma il quadro che si profila appare già più critico del previsto. Non c’è solo il fatto che, in aggregato, le partecipate viaggiale con una perdita netta di 1,2 miliardi (sul 2012). C’è di peggio: anche gli utili dichiarati spesso sono da prendere con le molle. Non che siano falsi: sono solo indebiti, in molti casi. Possibile? Solo la metà delle cinquemila imprese prese in esame dalla Corte dei Conti, dunque appena un quarto della galassia del capitalismo di Stato, dichiara la vera entità dei trasferimenti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche. Ma già così i dati sono eloquenti: 61 imprese, alcune enormi, incassano in cambio della loro attività delle somme superiori al valore della loro produzione. È come se i contribuenti pagassero qualcuno per farlo lavorare otto ore, ma questi ne assicurasse solo quattro o sei. Date proporzioni del campione, è dunque certo che le imprese pubbliche in questa situazione in Italia sono molte più di cento. Senza parlare di altre aziende partecipate che forniscono servizi a costi eccessivi o costituiscono veri e propri doppioni con gli enti che le controllano.
IL CASO LOMBARDIA
Il caso Lombardia è forse il più evidente, anche se fino a oggi era difficile per il contribuente di quella regione misurare i costi che sta coprendo. Non che la giunta guidata da Roberto Maroni controlli al 100% molte imprese: sono appena quattro, create per esternalizzare certe funzioni e la fornitura di servizi. Ma il loro fatturato totale sfiora i 400 mino lioni di euro, molto più della spesa in personale dell’ente stesso. I trasferimenti dall’azionistacliente — cioè la Regione — non sono stati comunicati dai revisori alla banca dati della Corte dei Conti, ma colpisce un fatto: il fatturato di Lombardia Informatica, la società per la fornitura di beni e servizi elettronici, raggiunge la cifra monstre di 185 milioni di euro (sul 2012). Costa molto ma almeno la Regione risparmia sulle spese in computer, si presume. Sbagliato: nel bilancio preventivo per cassa della giunta Maroni figurano nel 2014 altri 71 milioni per “statistica e servizi informatici”. Di conseguenza ogni volta che vedono salire le addizionali regionali, i contribuenti lombardi possono legittimamente sospettare che stanno pagando due volte per le stesse funzioni dell’ente che li tassa.
IL RECORD DI ROMA
Il comune di Roma Capitale detiene invece un altro record: una sua impresa riesce a incassare denaro in eccesso al valore della propria produzione a livelli senza eguali in Italia e forse in Europa. Si tratta dell’Ama, ovviamente. Ai conti del 2012, la società romana della raccolta rifiuti ha fatturato per 752 milioni di euro ma il totale delle erogazioni pubbliche a suo favore ha superato il miliardo. In sostanza ha incassato 250 mila euro per pulizie che non ha fatto, e si vede: malgrado la grande disponibilità di denaro del contribuente, Roma resta senz’altro la capitale più sporca dell’Unione europea. E l’utile di 16 milioni dell’Ama può in realtà essere visto come una perdita, se solo i pagamenti fossero stati in linea al lavoro effettivamente svolto. Roma non è sola, beninteso.
Venezia per esempio le fa compagnia con alcuni risultati singolari. Sul 2012 la Cmv Spa, la società del casinò del comune, dichiara un “valore della produzio- ne” di 72 milioni di euro ma erogazioni dall’ente azionista di 173 milioni. In sostanza, il casinò viene sussidiato dalle tasse per oltre il doppio del suo fatturato. Per non parlare dell’Istituzione per la Conservazione della gondola e la tutela del gondoliere: fattura mezzo milione, incassa dal comune 760 mila.
TRA FIRENZE E VIAREGGIO
Più a sud spicca il caso della Florence Multimedia, società di pubbliche relazioni fondata dalla provincia di Firenze quando presidente era Matteo Renzi. Sia il ministero dell’Economia che la Corte dei Conti hanno mosso rilievi molto critici sulla gestione. Certo nel 2012, quando Renzi non era più alla provincia, è fra le società pubbliche che incassano più di quanto fatturato: oltre 1,1 milioni di euro. Niente a confronto di Viareggio, una piccola Grecia in Toscana. Lì il comune nel 2012 dichiarò un deficit di 1,5 milioni, che la Corte dei Conti rivide al rialzo a 9 milioni. L’anno dopo, cambiata la giunta, il buco sale a 53 milioni di euro per le perdite più o meno nascoste in precedenza. Pesano le voragini di società “esterne” come la Viareggio Patrimonio o la Fondazione Carnevale.
La lista delle assurdità potrebbe continuare. A Alassio la società comunale “Bagni del Mare” fattura 43 euro ma ne incassa centomila. A Ascoli in Palio della Quintana ne fattura 63 mila ma gliene versano 274 mila. E così via. Non tutti lasciano che le cose continuino così: nel Lazio il governatore Nicola Zingaretti ha ereditato una regione al default di pagamento sui fornitori, ma è già riuscito cinque controllate e ne vuole eliminare dieci su 40.
Non è mai facile chiudere una società di una Regione, perché serve il voto a maggioranza del consiglio e gli eletti del popolo di solito non vogliono mai privarsi di una buona fonte di spesa e sprechi. Specie ora: in ottobre si vota in Emilia-Romagna, in primavera in altre sei Regioni. Per Renzi, è arrivato il momento di mostrare che sulla sua promessa di quattro mesi fa fa davvero sul serio. Con o senza Cottarelli.

→  agosto 3, 2014


di Luca Ricolfi
Su quel che fa il governo Renzi le opinioni divergono. C’è il partito del «finalmente, dopo trent’anni !» che si compiace di ogni novità, reale o presunta che sia. E c’è il partito del «niente di nuovo sotto il sole», che vede riemergere i soliti difetti della politica: tanti annunci e pochi fatti, scadenze non rispettate, leggi e decreti pasticciati, eterno rinvio dei problemi più spinosi, a partire da quello del mercato del lavoro.
Quello su cui quasi tutti sono d’accordo è che lo stile di governo è cambiato, perché il nuovo premier non è ingessato come i predecessori, e pare determinatissimo a portare a termine i propri piani. C’è un punto, tuttavia, su cui mi pare che non si stia riflettendo abbastanza. Quel che Renzi e i suoi stanno cambiando non è solo lo stile di governo, il tipo di comunicazione, il rapporto con l’opinione pubblica. A me pare che il cambiamento più importante sia una sorta di ritorno in grande stile del primato della politica. Un ritorno che, a seconda dei punti di vista, si può descrivere come sussulto di orgoglio o come rigurgito di arroganza, ma che comunque è in pieno atto.

Ma primato nei confronti di chi?
Alcune vittime del ritorno della politica si vedono ad occhio nudo. I magistrati e i sindacati, ad esempio. Non che questi due poteri siano stati riformati o meglio regolamentati, come da qualche decennio si attende. Però sono stati subito «messi a posto»: verso i magistrati Renzi ha dichiarato che non aveva alcun problema a tenersi degli indagati fra i membri del governo, verso i sindacati ha detto chiaro e tondo che potevano scordarsi i riti della concertazione, perché lui avrebbe deciso anche contro il loro parere.
Questa però è solo la parte più visibile della restaurazione del primato della politica. Accanto ad essa ve n’è un’altra, a mio parere ben più carica di conseguenze. Di tutti i premier della seconda Repubblica (e forse anche della prima) Renzi è quello che mostra il minore rispetto, per non dire il maggiore disprezzo, per qualità come l’esperienza, la competenza, la preparazione tecnica e culturale. E, simmetricamente, è il premier che con più spregiudicatezza ha puntato sulla fedeltà e l’appartenenza come criteri di selezione della classe dirigente.

Tutto questo era evidente fin dalla scelta della squadra di governo, con la rinuncia a servirsi dei migliori e la preferenza accordata ai più fedeli, ma è diventato via via più evidente nelle ultime settimane. Quando, nella polemica con il commissario alla spending review, Renzi e i suoi ribadiscono che «è la politica che decide», non c’è solo l’ennesima manifestazione dell’arroganza del potere (la frase «Cottarelli stia sereno» è un avvertimento di sfratto), ma c’è l’implicita affermazione di un’idea della politica come attività sostanzialmente autosufficiente. Un’idea che verrebbe da definire semplicemente ingenua, se le sue conseguenze non fossero estremamente dannose. Pensare che problemi di enorme complessità e delicatezza, come il cambiamento della Costituzione, la riforma del mercato del lavoro, la riorganizzazione della Pubblica amministrazione, si possano affrontare mediante un negoziato fra partiti, gruppi parlamentari e fazioni varie, senza un disegno coerente e meditato, con la sola logica delle concessioni reciproche, significa non avere la minima idea degli enormi limiti cognitivi della politica, tanto più di questa politica, con questi politici, nell’Italia di oggi. Nessuno costruisce un aereo, o un’automobile, o un computer, cercando di mettere d’accordo tutti i produttori che ambiscono a fornirne parti e componenti. Eppure è questa la pretesa della politica in Italia. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aerei, delle automobili e dei computer funzionano, mentre le nostre leggi di riforma non funzionano quasi mai.

Ma la restaurazione del primato del politico, sfortunatamente, non finisce qui. Il disprezzo per la competenza, per l’esperienza, per i saperi tecnici e specialistici, non si limita a privilegiare i politici puri nelle posizioni di governo, ma investe anche il lavoro e le professioni della gente comune. Per chi è della mia generazione, e ha preso atto degli obbrobri della rivoluzione culturale cinese, con le sue epurazioni di intere categorie di persone, medici, insegnati, ingegneri, professionisti, intellettuali, colpevoli soltanto di essere «borghesi» anziché «contadini poveri», fa un certo effetto la leggerezza con cui la politica sta procedendo a rottamare medici, magistrati, professori semplicemente in base alla loro età, senza alcuna considerazione sulle loro competenze o la loro utilità. Come fa effetto sentire che qualcuno è stato scelto «in quanto donna», o «in quanto giovane», senza alcun riferimento ai suoi meriti rispetto ad altri candidati.
La realtà, temo, è che demagogia e populismo sono ormai saldamente insediati nel Dna della nostra classe politica. Renzi e i suoi, almeno per ora, non sembrano fare eccezione. Perché l’essenza del populismo, il suo ingrediente fondamentale, non è l’appello al popolo (che pure non manca: «ho preso il 40.8% dei voti»), ma è il semplicismo, l’incapacità di riconoscere e accettare la complessità dei problemi di una società moderna, tanto più se in crisi da vent’anni. E’ di qui che nasce il senso di sufficienza verso professionisti ed esperti. E’ qui che trova alimento il sentimento di onnipotenza dei governanti. E’ qui, soprattutto, che il progetto di restaurare il primato della politica ha il suo fondamento logico: se i problemi sono semplici, e si tratta solo di tradurre in legge alcuni nobili principi, la politica può farcela da sola, e i Cottarelli di ogni genere e specie possono tranquillamente (anzi: «serenamente») andare a farsi benedire, tanto un tecnico amico lo si trova sempre.

Per Stella e Rizzo, autori del più fortunato pamphlet politico degli ultimi anni (La casta, Rizzoli 2007), c’è oggi forse qualche nuovo materiale su cui riflettere: la lotta contro la casta, nata per cambiare la politica, sta producendo la più spettacolare e imprevista rivincita della politica stessa.

→  luglio 25, 2014


di Guido Tabellini
Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell’area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l’inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell’offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell’area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito.

Alla fine del 2013, i consumi privati dell’intera area euro erano del 2% sotto i livelli raggiunti a fine 2007; gli investimenti privati erano sotto del 20%; solo le esportazioni sono salite di quasi il 10% negli ultimi sei anni. Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell’area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l’emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell’arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull’espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell’operazione: l’espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l’aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso.

E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie. Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un’ipotesi del genere nell’area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l’azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l’intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l’aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana? Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt’altro che scontata, perché l’assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l’anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c’è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.

Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata. In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile. E le politiche dell’offerta per ridare competitività all’economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell’economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive. In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l’area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.

→  luglio 20, 2014


di Paolo Savona e Michele Fratianni

Il ministro Carlo Padoan non è uno sprovveduto: conosce l’economia, come disciplina accademica, e ha esperienza di vita concreta di policy all’interno e all’estero. Se dichiara in Parlamento che il programma del Governo Renzi include l’attuazione delle sei raccomandazione che il Consiglio Ecofin dell’Unione Europea dobbiamo credergli. Quando però afferma che la crescita, divenuta l’obiettivo della politica europea, è inferiore alle aspettative – anzi quasi nulla, come indicano la realtà e le ultime previsioni della Banca d’Italia – e tarda a manifestarsi ignora o finge di ignorare che esiste una frattura tra gli auspici di sviluppo del suo Governo e dell’Ue e il programma indicato. Naturalmente risponderà ancora una volta, come fatto dai precedenti ministri, che ciò non è dovuto al programma di riforme richiesteci dall’Europa e accettato dal Governo, ma al ritardo nella sua attuazione.

Il problema, invece, potrebbe essere nel programma stesso. Non è la prima volta che, unitamente a illustri colleghi, abbiamo sostenuto l’incoerenza tra la pressione tributaria sui redditi e sui risparmi e l’inarrestabile procedere della spesa pubblica, che è la vera causa del freno alla crescita del Pil e dell’occupazione. La strategia dominante di riduzione del deficit di bilancio pubblico e di perseguire avanzi primari per ridurre il rapporto fra debito pubblico e il prodotto interno lordo non ha funzionato, anzi ha avuto effetti perversi sulla crescita.

I sacrifici fatti hanno prodotto effetti irrisori rispetto alle forze che agiscono direttamente sulla consistenza della spesa pubblica e del debito statale in rapporto al Pil e hanno penalizzato la crescita economica. Quante altre conferme dobbiamo attendere prima che i Governi cambino strategia? Necessita un’azione sul debito pubblico e non sui flussi che tagli in breve tempo una fetta sostanziosa del suo stock senza penalizzare la crescita economica e il valore reale dei risparmi accumulati dagli italiani. Questa strategia passa attraverso una disponibilità a pronti e una cessione secondo i tempi del mercato dei beni dello Stato che permetta prima un alleggerimento dell’eccessivo peso del settore pubblico sul settore produttivo e poi un rilassamento della morsa deflazionistica dell’alta fiscalità. Il programma di questo Governo non affronta il nocciolo del problema e, di conseguenza, finirà per aggravarlo. Spieghiamo il perché.

Se la politica tributaria suggerita dall’Ecofin e condivisa dal Governo intende spostare l’onere della pressione fiscale dai redditi ai consumi e alla ricchezza, spingendo l’operazione fino a garantire un avanzo primario strutturale che avvii la riduzione del debito pubblico (anche se in un arco di un quarto di secolo), ci sono tutte le premesse che il Paese entri in una crisi strutturale irreversibile. Il problema della povertà di cui si discute in questi giorni verrà attenuato con una riduzione del Pil pro capite che, come noto, è la base di questi calcoli: se tutti diventassimo più poveri a seguito delle politiche seguite, i poveri attuali lo saranno relativamente meno. La filosofia sottostante la politica di redistribuzione del reddito e della ricchezza è nel Dna della sinistra tradizionale. Essa ha come sfondo non ideologico l’ipotesi che i meno abbienti spendano più dei maggiori abbienti e, quindi, il moltiplicatore keynesiano del reddito salga.

Condendo questa filosofia con istanze di equità sociale si ottiene il consenso, ma si produce un risultato perverso sul reddito e l’occupazione perché non si tiene conto che la domanda aggregata riguarda una struttura dell’offerta interna di prodotti e servizi che agisce in senso deflattivo se vengono ridotti i redditi dei più abbienti; ciò induce le imprese a delocalizzare produzioni e occupazione e i risparmiatori a risparmiare di più per fini cautelativi e compensare le perdite di reddito atteso e di valore della ricchezza accumulata dovuto alla maggiore tassazione. Si causa cioè un contro-effetto certo sulla crescita rispetto a quello incerto atteso dalla redistribuzione del reddito. Questo effetto è particolarmente grave nel settore immobiliare che resta un motore di crescita più potente delle esportazioni – come testimoniano anche i dati 2013 esposti nella Relazione della Banca d’Italia – ma viene discriminato come testimoniano le dichiarazioni rese in Parlamento dal ministro dell’Economia, che afferma essere questa una precisa volontà dell’Ecofin.

Draghi condivide questa impostazione avendo escluso l’edilizia dalle operazioni straordinarie finalizzate alla crescita preannunciate per settembre (campa cavallo…) per paura di nuove bolle speculative, mentre in Italia queste “bolle” sono deflattive! In sintesi, temiamo che vi sia una tremenda confusione di idee e, quindi, di politiche. Se il Governo vuole veramente la crescita, operi sulla dimensione e l’efficienza della pubblica amministrazione e lasci in pace fiscalmente il resto del sistema per un lungo periodo. Produzione e occupazione rifioriranno, sospinti da consumi e forse anche da investimenti (ma questa è un’altra e più complicata storia). In queste condizioni potremmo realizzare anche la tanto agognata e necessaria stabilità politica.

→  luglio 15, 2014


di Carlo Calenda

Speaking in Venice, Prime Minister Matteo Renzi brought up the idea of a business plan that would transform Italy and enable it to catch up to countries like France and Germany. His idea would have the merit of crystallizing two internal debates, which until now have remained hazy: that of the degree of flexibility in European accords, and that of the realistic possibility of a recovery in Italy. We need to be clear, because recent economic data on industrial production and responses to it from our European partners seem to indicate that growth remains a phantasm, as does accommodating requests for more flexibility.

There’s no other way ahead, save for putting an industrial plan down in black and white, one that lays out basic norms and extraordinary initiatives that need to be undertaken, describes the precise margins of flexibility we need and quantifies the result that is expected.

We see then the outline of the “rungs” or steps of this program.

Today, Italy has an extraordinary occasion to expand internationally. That’s due to three fundamental tendencies: 1) the recovery of international trade and the return of developed markets, starting with the U.S., who are more accessible to our industrial production; 2) our sector specialization that benefits greatly from the dynamics of international demand; 3) easier access to international markets, determined in part by free trade agreements that the EU is negotiating.

Over the next 15 years there will be 800 million new consumers and tourists whom we can conquer if we move carefully. Today, Italy has a ratio of exports to GDP of 30 percent: we must push ourselves towards a goal of arriving at Germany’s level, near 50 percent. To get there, we need more export firms and a more favorable economic environment for them to operate in. The theory of these steps is that growth will continue to arrive mostly from abroad and that even internal demand could be helped by the international performance of Italian businesses, with more employment and investment, tourism, and new investors. A precise calculation of growth potential would be decisive in convincing investors and European partners to return to a plan that inevitably requires margins of flexibility.

To make the most of this opportunity, we must focus on initiatives to make our products competitive, rather than on stimulating internal demand. It’s the only way to do it and to act on the conditions that slow down business development, proceeding with more more focus in the three directions laid out in a recent competitivity decree.

The first is that of reform, starting with labor, which must have as a basic point the possibility of starting negotiations with individual companies, of rewarding productivity and of dramatically simplifying the thicket of rules currently in force, including moving beyond Article 18. Labor reform will be, as it has for previous governments, the key by which partners and investors will evaluate our executive’s ability to deliver. It’s fundamental that we speed up regulatory reviews, a process already started by Minister Federica Guidi, on all cases that impact economic activity, especially aspects of our law that keep investors at arms length, like the way bankruptcy law is set up.

The second rung is a big cut to IRAP (business tax) starting with companies that export (a solution that’s not easy from a technical point of view, but could be potentially decisive) and leading very quickly to it being completely eliminated.

Alongside these two paths must be the path of liberalization, examining the mechanisms that allow income inequality to continue: there’s much that can still be done with national and local utilities. The third prong is represented by public investment in strategic sectors that have an impact on the nation and on companies’ overall competitivity—in particular, digital, cultural and infrastructure.

To finance this program, it will be necessary to unchain European funds from the obligation of co-financing and to make proposals using specific figures and projects. Making this program credible requires an acceleration of privatization programs and a faster spending review process. On the second point, I maintain that we must change methods. The actual centralization of the spending review may not be the best method. We need to look closely at the operations of each single ministry to figure out how to reshape them, to make them more efficient and less expensive. Proceeding in this direction would make the political system more responsible in terms of how it manages the ministries; and it would and render transparent all the projects and funding for them that’s sometimes started but remain in the hands of top-level bureaucracy and disappears from sight.

Many of these initiatives are already on the government’s agenda. The point is to combine them into one organic design—transparent, precise and measurable. A design that asks Europe and asks investors for more room to maneuver quickly, stimulated by increased clarity of concrete growth objectives.

Today we’re talking about an objective that is realistic—thanks to the political will of the prime minister. After years of primary surpluses, with taxes and linear cuts to spending, spurring growth by investing in the competitive capacity of companies represents a clear “turning of the chapter” that Italy truly needs.