Aborto: la mia risposta ad Alberto Mingardi e Giuliano Ferrara

aprile 6, 2006


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio

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Al direttore.
Confesso di aver letto, anch’io “non senza vergogna”, la lettera di Alberto Mingardi (Il Foglio di martedì): ancor più perché è un amico e un liberale.

Pazienza per l’assolutismo che lo induce all’errore logico di porre il suo dilemma – se il cordoglio generalizzato per il povero Tommi, che lo irrita (sic), sia dovuto o all’impotenza della vittima o all’uso di mezzi teatrali (sic) per ucciderlo – a valle di una assunzione aprioristica, che aborto e omicidio siano la stessa cosa. Ignorando la radicale distinzione che ne fanno, da un lato, le molteplici e differenti opinioni in merito che attraversano la dottrina della Chiesa nei secoli, e, dall’altro, il codice prima della depenalizzazione.

Pazienza per non voler considerare quanto i filosofi hanno discettato sulla differenza tra vita in potenza e in atto.

Ma non ho pazienza se penso alle donne, migliaia e migliaia, italiane e viventi, che sono passate attraverso il trauma dell’aborto, e forse ancora ne portano i segni, e alla ripulsa che provano – e noi con loro – a sentirsi equiparate agli assassini di Tommi. Chi ha il diritto di criminalizzarle?

O se penso a quanti domenica non riuscivano a leggere i giornali, tanto le lacrime gli offuscavano gli occhi, e ai bambini delle scuole che hanno provato dolore per Tommi: perché dovrebbero vergognarsi del loro sentimento?

E mi ritraggo dal pensare al disumano sovraccarico imposto alla mamma di Tommi privandola persino del proprio individuale dolore, dissolto e disperso nella genericità di un male così diverso dal suo.

Io rispetto le opinioni di chi, a differenza di me, ha bisogno della metafisica per fondare la propria etica.

Ma esiste un comune senso dell’etica: ignorarlo è ideologismo.

Soprattutto, Alberto, un’etica che offenda la carità non può essere etica.

Alberto Mingardi aveva scritto:

Il Foglio – martedì 4 aprile 2006 (pag. 4)
Lo schiaffo di un libertario all’erodiade ipocrita dei piagnoni

Al direttore – Confesso, non senza vergogna, che il giusto e generalizzato cordoglio per la fine infame del povero Tommaso mi irrita. Mi irrita profondamente, perché non riesco a non pensare ai tanti Tommaso senza nome che non sono pianti da nessuno, perché morti ancor più anzitempo, senza lasciare testimonianza dei loro occhi lampeggianti. Delle due l’una: o crediamo davvero, come in questi giorni sembra essere il caso, che l’omicidio è tanto più efferato quanto più inerme e impotente, persino di balbettar difesa, è la vittima. Oppure siamo, e neppure segretamente, convinti che l’utilizzo di mezzi meno teatrali del badile faccia la differenza. Pensando a Tommi vediamo tutte le cose della vita che non potrà vedere. E per gli altri, quelli che della vita si sono persi anche la prima luce? Soprattutto per un liberale è impossibile sognare la fine dell’aborto, è un’utopia troppo onerosa per le nostre coscienze grigie. Ma che ci colga almeno un’ombra di pensiero e di rimorso, almeno quando vestiamo il lutto dei vinti di Erode, è chiedere troppo?

Giuliano Ferrara aveva scritto:

Il Foglio – martedì 4 aprile 2006 (pag. 4)

Non ve l’aspettereste, quelli di voi che non lo conoscono, ma Mingardi è un liberista e un libertario di quelli cui si potrebbe attribuire il famoso cinismo darwiniano che, fissata con l’osservazione una specie di origine delle specie, finisce con l’osservare che la sopravvivenza della specie è un pleonasmo idealista. Come già per Giovanni Orsina, che ci stupì con una splendida lettera di un liberale contro l’aborto, mi sento schiaffeggiato e stupito da questa formidabile intemerata ai sonnolenti. Neanche a me era venuto in mente di rilevare nel mio stesso stupido cuore che il pianto di questi giorni è il pianto di Erode, in un mondo pieno di orchi e di orchesse.

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