Vincoli, veti e norme nel paese dalle mani legate

maggio 14, 2016


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articolo collegato di Sabino Cassese

Qualche giorno fa, l’amministratore delegato di un’impresa ha dichiarato trionfante di aver avuto le autorizzazioni per una importante opera di interesse collettivo solo in un anno e mezzo. Una recente ricerca Aspen ha dimostrato che su cittadini e imprese gravano vincoli molto maggiori di quelli strettamente necessari per proteggere la salute, l’ambiente, il territorio e gli altri beni collettivi. Sindaci di diversi partiti hanno dichiarato nei giorni scorsi che è impossibile amministrare, stretti come sono tra leggi invadenti e Procure aggressive. Perché è tanto difficile governare l’Italia? Perché è così basso il rendimento delle istituzioni?
La prima responsabilità è del Parlamento. Esso sconfina nell’area dell’amministrazione: troppe leggi, norme troppo lunghe e minuziose, che sono spesso atti amministrativi travestiti da leggi. A questo si aggiunge il sogno della norma autoap-plicativa, in cui si cullano governi colpiti dalla sindrome del sabotaggio burocratico, nell’illusione che, fatta la legge, ne sia assicurata l’attuazione. Di qui il circolo vizioso: si governa legiferando; si crede di aver deciso, ma, nella maggior parte dei casi, ci si è soltanto legati le mani, e si è costretti per ciò a ricorrere a un numero sempre crescente di leggi. Il corpo legislativo cresce, aumentano le frustrazioni e gli sconfinamenti legislativi nell’amministrazione, il Parlamento-legislatore trascura la sua altra funzione, quella di controllo del governo, il sistema va in blocco.
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Dall’altra parte, c’è il potere giudiziario: non vi è ormai decisione grande o piccola che non passi nelle mani di procuratori, giudici civili, giudici penali, giudici amministrativi. I primi si proclamano «magistratura costituzionale», investita del compito di «vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo». Giudici civili e penali con la lentezza delle loro decisioni rallentano il funzionamento del Paese. I giudici amministrativi — come è stato detto da più parti — «bloccano l’attività produttiva», senza nello stesso tempo fornire una guida a chi voglia districarsi nella selva delle norme e delle loro interpretazioni. Sopra ogni cosa, quello giudiziario è un corpo che corre verso la politica, più impegnato a fare dichiarazioni ai quotidiani che a scrivere sentenze.
Un acuto osservatore dei fenomeni amministrativi, Marco Cammelli, ha osservato che tutto questo provoca la marginalizzazione dell’amministrazione. Quest’ultima è stretta in una tenaglia. Da una parte, ha un legislativo che prende decisioni amministrative in veste di leggi, per saltare la dimensione amministrativa. Dall’altra, è intimorita o frustrata dalle tante voci del potere giudiziario, dinanzi al quale anche chi dovrebbe controllare dall’interno cede le armi. A questo si è aggiunto il sospetto della corruzione, la diffidenza che ciò ha creato nell’opinione pubblica e la formazione di una Procura anticorruzione «in prima linea contro ogni tipo di ingiustizia» (sono parole del nostro presidente del Consiglio dei ministri). Da ultimo, l’amministrazione si è impoverita: pochi investimenti, personale scelto male dai politici di vertice e non per concorso, carriere dominate dai governi, strutture e procedure arcaiche.
Le modificazioni della costituzione materiale che ho descritto, e dell’equilibrio tra i tre poteri dello Stato, stanno producendo guasti gravi nei rapporti tra poteri pubblici e società. I primi si legittimano non solo attraverso elezioni, ma anche per la loro capacità di svolgere il proprio compito al servizio della seconda. Il fossato che divide popolo e Stato non si colma solo con le elezioni. La democrazia del voto non basta. Occorre anche poter dimostrare, con l’efficacia dell’azione pubblica, che lo Stato è al servizio del cittadino.

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