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Archivio per il Tag »il corriere della sera«

→  marzo 28, 2017


Intervista di Gianluca Rotondi

«Ci sono prassi e modalità consolidate per scegliere i consiglieri di amministrazione, le best practice, che valgono per tutte le aziende, quotate o no. In questo caso c’è invece una pratica sbagliatissima di una nomina basata sull’affiliazione politica».
Franco Debenedetti, imprenditore e già senatore in quota Pds e poi Ds, ha fatto parte dei consigli di amministrazione di società, enti e fondazioni e non è stupito dallo scontro intestino che si sta consumando tra renziani e orlandiani sulle nomina nel cda di Hera. Un vizio antico, che si ripete nel tempo.

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→  febbraio 22, 2017


Caro direttore,

«Competenza e credibilità — scrive Antonio Polito (Il dilemma del volo 93 vale anche per i 5 Stelle, sul Corriere della Sera, 16 febbraio), da virtù che erano, oggi fanno perdere le elezioni». Ma competenza e credibilità a governare sono giudizi opinabili, la differenza di giudizi è l’essenza stessa della politica: e così può succedere che il consenso popolare vada a personaggi e movimenti politici chiaramente impreparati a governare.

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→  maggio 14, 2016


articolo collegato di Sabino Cassese

Qualche giorno fa, l’amministratore delegato di un’impresa ha dichiarato trionfante di aver avuto le autorizzazioni per una importante opera di interesse collettivo solo in un anno e mezzo. Una recente ricerca Aspen ha dimostrato che su cittadini e imprese gravano vincoli molto maggiori di quelli strettamente necessari per proteggere la salute, l’ambiente, il territorio e gli altri beni collettivi. Sindaci di diversi partiti hanno dichiarato nei giorni scorsi che è impossibile amministrare, stretti come sono tra leggi invadenti e Procure aggressive. Perché è tanto difficile governare l’Italia? Perché è così basso il rendimento delle istituzioni?
La prima responsabilità è del Parlamento. Esso sconfina nell’area dell’amministrazione: troppe leggi, norme troppo lunghe e minuziose, che sono spesso atti amministrativi travestiti da leggi. A questo si aggiunge il sogno della norma autoap-plicativa, in cui si cullano governi colpiti dalla sindrome del sabotaggio burocratico, nell’illusione che, fatta la legge, ne sia assicurata l’attuazione. Di qui il circolo vizioso: si governa legiferando; si crede di aver deciso, ma, nella maggior parte dei casi, ci si è soltanto legati le mani, e si è costretti per ciò a ricorrere a un numero sempre crescente di leggi. Il corpo legislativo cresce, aumentano le frustrazioni e gli sconfinamenti legislativi nell’amministrazione, il Parlamento-legislatore trascura la sua altra funzione, quella di controllo del governo, il sistema va in blocco.
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Dall’altra parte, c’è il potere giudiziario: non vi è ormai decisione grande o piccola che non passi nelle mani di procuratori, giudici civili, giudici penali, giudici amministrativi. I primi si proclamano «magistratura costituzionale», investita del compito di «vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo». Giudici civili e penali con la lentezza delle loro decisioni rallentano il funzionamento del Paese. I giudici amministrativi — come è stato detto da più parti — «bloccano l’attività produttiva», senza nello stesso tempo fornire una guida a chi voglia districarsi nella selva delle norme e delle loro interpretazioni. Sopra ogni cosa, quello giudiziario è un corpo che corre verso la politica, più impegnato a fare dichiarazioni ai quotidiani che a scrivere sentenze.
Un acuto osservatore dei fenomeni amministrativi, Marco Cammelli, ha osservato che tutto questo provoca la marginalizzazione dell’amministrazione. Quest’ultima è stretta in una tenaglia. Da una parte, ha un legislativo che prende decisioni amministrative in veste di leggi, per saltare la dimensione amministrativa. Dall’altra, è intimorita o frustrata dalle tante voci del potere giudiziario, dinanzi al quale anche chi dovrebbe controllare dall’interno cede le armi. A questo si è aggiunto il sospetto della corruzione, la diffidenza che ciò ha creato nell’opinione pubblica e la formazione di una Procura anticorruzione «in prima linea contro ogni tipo di ingiustizia» (sono parole del nostro presidente del Consiglio dei ministri). Da ultimo, l’amministrazione si è impoverita: pochi investimenti, personale scelto male dai politici di vertice e non per concorso, carriere dominate dai governi, strutture e procedure arcaiche.
Le modificazioni della costituzione materiale che ho descritto, e dell’equilibrio tra i tre poteri dello Stato, stanno producendo guasti gravi nei rapporti tra poteri pubblici e società. I primi si legittimano non solo attraverso elezioni, ma anche per la loro capacità di svolgere il proprio compito al servizio della seconda. Il fossato che divide popolo e Stato non si colma solo con le elezioni. La democrazia del voto non basta. Occorre anche poter dimostrare, con l’efficacia dell’azione pubblica, che lo Stato è al servizio del cittadino.

→  gennaio 31, 2016


articolo collegato di Sergio Bocconi

Si profila un nuovo confronto Italia-Europa. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, intervenendo sabato al Forex di Torino, sollecita una revisione dei meccanismi europei di risoluzione delle crisi bancarie, e in particolare del bail in, entrato in vigore in gennaio. La Commissione Ue fa però subito sapere che «non ci sono piani per cambiare la direttiva, adottata nel 2014 con il consenso di una stragrande maggioranza al Parlamento europeo e con l’accordo unanime degli stati membri. Da un anno e mezzo si sa che il bail in dei creditori avrebbe protetto i contribuenti».
Al Forex Visco ha poi spiegato l’intervento sui quattro istituti in dissesto; ha approvato l’intesa con la Commissione Ue sulla garanzia pubblica per liberare i bilanci del settore dalle sofferenze e ha rinnovato l’appello a una maggiore diffusione della cultura finanziaria. Il Governatore ha quindi dedicato spazio alla congiuntura: in Italia la ripresa procede a ritmi moderati, come nell’area euro, sostenuta dalla domanda interna. Resta l’indicazione che nel 2016 e nel 2017 il prodotto possa crescere dell’1,5%. Sono in aumento i prestiti al settore privato e in particolare alle famiglie per i mutui. Dettagliata è stata la spiegazione relativa ai provvedimenti adottati nel novembre 2015 da governo e Bankitalia per risolvere le crisi di Banca Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti, che nel complesso detenevano l’1% dei depositi italiani. Visco spiega che, dopo lo stop europeo all’utilizzo del Fondo interbancario, assimilato ad aiuto di Stato, sono state applicate le regole introdotte con la direttiva europea sulle crisi bancarie. I costi sono stati sopportati, oltre che dagli azionisti e i detentori di obbligazioni subordinate, dal sistema bancario attraverso il Fondo di risoluzione. L’alternativa? La liquidazione coatta. Da gennaio è entrato invece in vigore il bail in, che prevede il coinvolgimento con perdite anche delle obbligazioni ordinarie e dei depositi sopra i 100 mila euro. Secondo Visco le nuove regole, maturate in sede europea dopo i massicci interventi pubblici per i salvataggi bancari (che non si sono verificati in Italia) hanno comportato un cambiamento «drastico e repentino». Secondo Bankitalia e ministero dell’Economia invece di un’applicazione immediata e retroattiva dei nuovi meccanismi sarebbe stato preferibile un periodo di transizione per consentire a banche e risparmiatori di adattare strumenti e percepire rischi finora remoti. Ecco dunque la richiesta di revisione, possibile entro giugno 2018, precisa Visco, grazie a una clausola. Ma la Commissione Ue ha frenato.
E sempre sulle crisi Bankitalia precisa di aver chiesto alla Etruria a fine 2013 misure correttive e un’aggregazione. Ma il board dell’istituto nel 2014 ha rifiutato l’unica offerta «autonomamente avanzata dalla Popolare di Vicenza» (quindi non sponsorizzata dalla Vigilanza). Infine il Governatore invita le banche a predisporre meccanismi volontari di intervento, aggiuntivi rispetto ai sistemi obbligatori di garanzia dei depositanti, per contenere i costi di una crisi per i risparmiatori. Così come l’accordo sulle sofferenze (il cui flusso si sta riducendo) deve essere accompagnato da una migliore capacità di intervento da parte degli istituti. «Sarà utile lo schema di garanzia concordato con la Commissione Ue per facilitarne lo smobilizzo. Il mercato potrà attivarsi. Ma nessun provvedimento può cancellare la massa di sofferenze del passato: vanno aggredite con determinazione». L’Italia, viene sottolineato, sta uscendo da un periodo più grave della depressione degli anni Trenta: la crisi ha messo a dura prova imprese, famiglie e banche. Gli istituti però oggi hanno un patrimonio «molto più elevato rispetto al passato» e il rafforzamento, a differenza di altri Paesi, «è stato conseguito senza pesare sulle finanze pubbliche». E anche la redditività comincia a migliorare.

→  novembre 15, 2014


Dopo l’elezione di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione Ue, solo ora scopriamo che l’ex primo ministro lussemburghese era a capo di un paradiso fiscale, come a dire se vuoi rubare un pò puoi. Non c’è proprio limite al peggio.

Carlo Rovina

La risposta di Sergio Romano

Caro Rovina, un direttore del Corriere, parecchi anni fa, diceva spesso ai suoi redattori che non c’è nulla di tanto inedito quanto il già edito. Intendeva dire che una vecchia storia, saputa e risaputa, può sembrare nuova e fresca di stampa se torna sulle pagine dei giornali in circostanze diverse e con qualche dettaglio in più. È quello che sta accadendo in questi giorni. Come ha osservato nel suo sito una deputata europea del gruppo liberal-democratico, Sylvie Goulard, il caso degli accordi speciali sul trattamento fiscale riservato alle imprese che decidono di stabilire la loro residenza in Lussemburgo, o in altri Paesi dell’Ue particolarmente accoglienti, è noto dagli anni Novanta a chiunque abbia un po’ di familiarità con il mercato unico. All’origine del problema vi sono due principi difficilmente conciliabili. Il primo è quello della sovranità fiscale. Mentre si scrivevano le regole finanziarie dell’Ue alcuni membri dichiararono che non avrebbero mai rinunciato ad adottare il regime fiscale che meglio corrispondeva ai loro interessi e alle loro tradizioni. Altri osservarono che il migliore trattamento offerto da un Paese avrebbe creato imprese avvantaggiate e svantaggiate, vale a dire esattamente ciò che il Trattato sul mercato unico voleva evitare con regole eguali per tutti in materia di aiuti di Stato e concorrenza. È accaduto allora quello che generalmente accade nell’Unione Europea quando qualcuno si oppone a una soluzione condivisa: è stato deciso che alla materia fiscale venisse applicato il principio della unanimità, ovvero che a ogni Paese venisse concesso il diritto di veto. In altre parole il Lussemburgo e coloro che lo hanno governato non hanno commesso reati; hanno agito nell’ambito dei trattati. Sylvie Goulard ricorda che nel 2010 Mario Monti, dopo essere stato commissario per la Concorrenza, indirizzò un rapporto sull’argomento al presidente della Commissione Manuel Barroso, ma le sue proposte rimasero lettera morta. Le proteste sono dunque inutili? No. La generale indignazione provocata dal caso Juncker dimostra che la licenza concessa al Lussemburgo negli anni Novanta non è più tollerata. Se questa vicenda si concluderà con una maggiore armonizzazione dei sistemi fiscali nazionali, dovremo probabilmente ringraziare la crisi e la rabbia delle pubbliche opinioni. Senza saperlo, anche i grillini lavorano per l’Europa.

→  luglio 13, 2014


Intervista di Maria Teresa Meli a Matteo Renzi

Polo viola, jeans, sneakers , il presidente del Consiglio è loquace e sarcastico come sempre: «Scusi se la ricevo così, ma tanto qui il sabato mattina non c’è praticamente nessuno». Lui c’è. Anche perché ha in programma diverse telefonate con i leader del Pse in vista della «cena delle nomine», il 16. Poi deve chiamare il presidente ucraino Petro Poroshenko e il premier spagnolo Mariano Rajoy.
Ha l’aria di uno che ha fatto le ore piccole. Ed effettivamente è così. Si è svegliato alle cinque del mattino per leggere il suo livre de chevet , «la mia lettura quotidiana», lo chiama lui, il libro che ha sempre sotto mano e che ieri mattina troneggiava anche sulla sua scrivania: il riassunto del bilancio dello Stato, voce per voce. Lo compulsa (da solo) quotidianamente e con Pier Carlo Padoan, Carlo Cottarelli e i loro rispettivi staff settimanalmente. Lo sa quasi a memoria. Tanto che l’altro giorno un funzionario addetto alla spending review è rimasto stupito perché conosceva l’esatto ammontare di una voce che non gli tornava. Sulla sua scrivania c’è anche un altro dossier. Ben più agile. Glielo ha dato Denis Verdini. Allungando lo sguardo, nell’attesa che il premier multitasking si occupi della politica internazionale, saltano all’occhio le simulazioni dei diversi sistemi elettorali. Si finirà per parlare di entrambi i dossier. Non perché giacciono lì sul suo tavolo, ma perché lui lega la politica italiana e quella europea con un nodo indissolubile.
Colto l’occhio della giornalista sul suo tavolo, l’avvio della conversazione è questo: «Calcisticamente parlando, qualcuno pensa che io sia un fantasista, cioè quello che inventa il colpo a sorpresa, o il portiere fortunato, che para i rigori perché provoca l’avversario. Non hanno capito che, dal punto di vista amministrativo, io sono un mediano (o in termini non calcistici, accessibili anche a chi non si interessa di pallone, un mulo), che su tutti i palloni si mette lì e “butubum-butubum” studia le carte. Ma è meglio che non lo abbiano compreso: così arrivo a fari spenti lì dove voglio arrivare, con buona pace di tutti i commentatori e dei professionisti della gufata».

Presidente, lei parla così, ma intanto c’è chi dice che la troika potrebbe commissariarci.
«Mai e poi mai. È un’ipotesi che non esiste. Dirò la verità: io non vivo nel terrore dei mercati. L’Italia è più forte delle paure dei vari osservatori e i dati lo dimostrano».

Be’, tutti i dati, no.
«Ogni giorno ci sono istituti che sfornano montagne di dati e ognuno legge quelli che vuole. Qualcuno poi si è accorto che nell’ultimo mese c’è stato un aumento di oltre 50 mila posti di lavoro? No, perché, com’è naturale, fa notizia l’albero che cade e non la foresta che cresce. L’Italia è molto più forte di come si racconta in sede internazionale: ha un alto debito pubblico, è vero. Ma ha ricchezza privata e se rimette finalmente a posto il fisco, la burocrazia e la giustizia ce la può fare. Il problema, però, è che la ripresa europea è fragile. Molto fragile. Più del previsto. Il problema è che la produzione industriale non segna negativo solo in Italia ma in quasi tutta Europa, a cominciare dalla Germania».

Ma noi abbiamo qualche problemino in più. Non ha paura dei mercati?
«No. Non mi preoccupano gli investitori internazionali. Al massimo, possono preoccuparmi i frenatori italiani. Ma sono convinto che li stiamo sconfiggendo ogni giorno di più. Tre anni fa, i mercati segnalarono un “problema Italia” in Europa. Adesso c’è un problema Europa nel mondo. Certo, alcuni analisti continuano a dire che noi non ce la faremo. Ma mi piace pensare agli esperti di alcune banche che dieci anni fa dicevano che l’Italia sarebbe fallita. In questi dieci anni sono fallite le banche e nessuno ce l’aveva annunciato. L’Italia, invece, è sempre qui».

Ma non si può dire va tutto bene, madama la marchesa.
«D’accordo con lei. Infatti non va tutto bene. È una situazione difficile, da gestire con grande responsabilità. Ma essere responsabili non significa essere catastrofisti. Responsabile è chi quando vede un ostacolo prova a cambiare strada, non chi urla più forte».

Presidente, può assicurare che i bonus verranno confermati anche il prossimo anno?
«Gli 80 euro verranno senz’altro riconfermati. Stiamo ragionando se sia possibile allargare la platea, partendo da famiglie, partite Iva, pensionati. Questo non lo sappiamo ancora».

Dipende da quel librone che tiene sulla scrivania?
«Anche e non solo».

Cioè?
«Se noi vogliamo avere la forza di mutare il modello di politica economica della Ue, basato tanto sul rigore, e poco sulla crescita, dobbiamo dimostrare di essere capaci di cambiare prima il nostro Paese. Ecco perché attribuisco grande importanza alla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, perché simbolicamente significa che la classe politica non ha paura di cambiare se stessa. E questo le dà l’autorevolezza di dire, in Italia, che si possono abbassare i tetti degli stipendi dei manager pubblici e dei magistrati, per fare un esempio, e di spiegare in Europa che è ora di cambiare verso».

A proposito di Italia, sul Senato non avete ancora convinto tutti .
«Impossibile convincere tutti. Però mi pare che in Commissione si sia registrato un consenso più ampio della maggioranza. Ed è la prima volta che questo accade: non era successo nel 2001, non era successo nel 2006. Certo, sono un po’ stupito. C’è un consenso di quasi tutti sull’impianto. Persino chi mi accusa di autoritarismo riconosce che semplificare i livelli istituzionali, ridurre il potere delle Regioni, superare il bicameralismo perfetto, costituisce un obiettivo condiviso. Ci sono un paio di punti – un paio, non di più – su cui si è scatenato un dibattito molto duro. In particolar modo sull’articolo 57 che disciplina la composizione del nuovo Senato seguendo il modello tedesco. Mi piacerebbe discutere sulle grandi questioni del disegno di legge costituzionale. Invece stiamo a discutere se l’elettività del senatore sia di primo o di secondo livello. A mio giudizio l’obiettivo dei frondisti non è questo».

Qual è, allora?
«Affermare l’elezione diretta per poter dire che il Senato deve avere più poteri. Non si rassegnano all’idea della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori. Inoltre, metto nel conto le resistenze fisiologiche e comprensibili delle burocrazie. Anche per questo, il risultato della Commissione è un passaggio straordinario. E non è che l’inizio. In questa settimana noi abbiamo lavorato su agenda digitale, riforma della pubblica amministrazione, servizio civile universale, riforma della giustizia: il fatto che voi giornalisti siate più attenti ai sospiri di Mineo, Minzolini e Mucchetti che non a questi provvedimenti, mi sembra più il frutto di un affetto tra colleghi che di una valutazione di merito».

Venendo al merito: i frondisti dicono anche che con questa riforma del Senato e con l’Italicum chi vince le elezioni vince tutto e addio democrazia.
«Ho notato come il suo occhio andava a quel documento che riguarda le simulazioni sulla Camera dei diversi sistemi elettorali sulla base delle ultime Europee. Ebbene sa quali sono i risultati? Con il Mattarellum senza lo scorporo, sui 475 collegi uninominali, il centrosinistra ne avrebbe 458, con lo scorporo ne avremmo 438, con il Mattarellum corretto ne guadagneremmo 504 (e Grillo ne avrebbe zero), con il Consultellum 340 (perciò avremmo sempre la maggioranza) e gli stessi con l’Italicum. Quindi, di quale Parlamento a mia immagine e somiglianza si parla?».

Intanto Grillo prepara il sit in.
«È la cosa che gli riesce meglio. Organizzare proteste è il suo mestiere. Il mio, invece, è cambiare l’Italia. Vorrà dire che martedì mattina, mentre si prepara alla 27esima marcia su Roma, che ormai mi sembra una retromarcia su Roma, e mentre urla al 42esimo colpo di Stato dall’inizio della legislatura, gli faremo trovare una puntuale risposta del Pd – argomento per argomento – al suo decalogo della settimana scorsa. Alcuni parlamentari e amministratori 5 stelle sono molto bravi. Spero che abbiano la forza di farsi sentire e non siano zittiti dal blog o espulsi. Le loro idee ci stanno a cuore, la loro passione non merita di disperdersi in un insulto o in una manifestazione».

Perché tutta questa fretta per il Senato? Per paura che arrivi prima la sentenza sul caso Ruby?
«Non la chiami fretta. La chiamo urgenza di dare agli italiani il messaggio che finalmente si cambia. Comunque, Forza Italia sta mantenendo un atteggiamento di grande responsabilità, come del resto tutti i partiti che hanno votato la riforma. Le vicende giudiziarie di Berlusconi sono slegate dal processo di riforma costituzionale. A dispetto di alcune dichiarazioni di fuoco dei suoi, Berlusconi fino a questo momento non ha mai fatto venir meno la sua parola e il suo impegno: diamo a Cesare quel che è di Cesare».

Sembra che lei stia agendo su due fronti in contemporanea: la partita italiana e quella europea.
«Sono legate indissolubilmente. Le faccio qualche esempio pratico. Nel piano sblocca Italia c’è un progetto molto serio sullo sblocco minerario. È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini. È vero: stiamo combattendo su due fronti. Vogliamo restituire autostima all’Italia, ma anche dire che bisogna cambiare. Ed è per questo che ci siamo impegnati sulla legge Madia, quella sulla pubblica amministrazione: sarà una vera rivoluzione. Semplificherà e velocizzerà tante cose, migliorando la vita degli italiani e abbattendo i costi. E anche per questo incontra tante resistenze. Dall’altro verso, vogliamo far capire all’Europa che bisogna imboccare un’altra strada. Il mio unico cruccio è che non riesco – per colpa mia – a spiegarmi bene su quanto sia importante fare le riforme a casa nostra. I mille giorni non sono certo un modo per perdere tempo, ma un progetto di comunicazione organica che consentirà di legare il binomio flessibilità-riforme sia a livello europeo che cittadino».

In Italia, però, c’è chi pensa che lei si stia muovendo solo per se stesso.
«Non è così. Io vorrei che la classe politica italiana fosse consapevole che ci stiamo giocando tutto e che questa volta è possibile farcela. Anche per questo spero che Boldrini e Grasso abbiano la forza di mettere un tetto a tutti i loro alti funzionari come abbiamo fatto noi con i manager di Stato e pure con i magistrati».

Tornando all’Europa: come sono i suoi rapporti con Angela Merkel?
«Io la stimo molto. L’ho sentita ieri (l’altro ieri n.d.r. )».

Avete litigato sulla flessibilità?
«Nel senso che io le ho detto che con il Brasile la Germania era stata poco flessibile e lei mi ha risposto: ci vuole la giusta flessibilità».

In Italia: c’è stata polemica perché Indesit ha venduto a Whirlpool.
«La considero un’operazione fantastica. Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata. Noi, se ci riusciamo, vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto, come a Termini Imerese, nel Sulcis, come nel Veneto. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro, gli imprenditori stranieri in Italia sono i benvenuti».

Presidente, la sua querelle con le banche a che punto è?
«Le banche non hanno più alibi. Patuelli (presidente dell’Associazione bancaria italiana ndr ) che fa la lezioncina all’annuale assemblea dell’Abi non si può sentire. Ho molto apprezzato la reazione pacata ma tosta di Padoan. Le banche adesso sono piene di liquidità. Diano i soldi alle aziende, invece che lamentarsi. Con l’operazione Draghi non hanno più ragione di lamentarsi, né di mettere in sofferenza i piccoli artigiani, gli imprenditori del Nordest, le partite Iva. Navigano nei soldi, li spendano, grazie».

Ultimo capitolo, non certo per importanza, le donne. L’hanno criticata per l’uso strumentale delle suddette nel governo.
«Tanto, una critica in più, una in meno, cosa vuole che cambi. Preferisco essere criticato perché ci sono molte donne che lavorano in posti di responsabilità, che non perché siamo i soliti maschilisti. Una donna guida gli Esteri, una la Difesa, una sta seguendo la riforma costituzionale, una la riforma della pubblica amministrazione, una la politica industriale, una il patto per la salute. Le sembra poco? Preferiva prima? Nel frattempo, abbiamo nominato nelle posizioni di vertice una donna all’Agenzia delle entrate, una all’Agenzia digitale, una per i fondi europei, una alla guida del Legislativo di Palazzo Chigi. Forse i maschilisti sono i giudici che al Csm eleggono una sola magistrata».