Una tv pubblica senza spot alla fine diventerà inutile

gennaio 10, 2008


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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La proposta Sarkozy

Charles de Gaulle deve essersi rivoltato nella tomba, alla notizia che Nicolas Sarkozy prende proprio la BBC ad esempio di ciò che dovrebbe essere la televisione pubblica francese. In realtà la “rupture” sta solo nella fascinazione per un modello, anche in questo caso, straniero; perché invece l’idea di eliminare la pubblicità dalle reti pubbliche e di finanziarle con una tassa applicata a Internet, cellulari, televisioni private, rientra nella più pura logica centralista e costruttivista della République.

E, quanto ai presupposti teorici e ai propositi pratici a cui si ispira, nulla di nuovo, neppure per noi.

Il primo presupposto è che ci sia qualcuno che sappia che cosa una televisione pubblica deve trasmettere. Contrariamente a quello che succede in tutti gli spettacoli, in cui è il pubblico che sceglie che cosa vuole vedere, vuoi al botteghino di cinema e teatri, vuoi dal librario per i DVD, vuoi a casa col telecomando, l’essenza delle televisione pubblica è proprio di non essere scelta dal pubblico, ma da qualcuno al posto suo. Che a farlo siano le indicazioni di istituzioni – Governo, Commissioni di Vigilanza – o la decisione di organismi creati ad hoc – fondazioni, consessi di esperti o di ottimati – o le – come dire? – sollecitazioni dei rappresentanti in carne ed ossa dei partiti, la realtà non cambia: c’è qualcuno che sceglie al posto del consumatore. Sceglie che cosa trasmettere, e naturalmente anche che cosa non trasmettere: perché il potere di sapere che cosa è bene e bello è l’altra faccia del sapere che cosa non è bene e non è bello. Il potere di scegliere è tutt’uno col potere di censurare.

Il secondo presupposto è che ci siano il danaro buono e il danaro cattivo. Quello buono è quello che proviene dalle tasse, purificato dal sacrificio imposto ai cittadini, e nobilitato dai fini decisi dai suoi rappresentanti. Il danaro cattivo è quello investito dagli imprenditori nella pubblicità, con la quale coartano le scelte degli ingenui consumatori ai propri fini, meschini se di piccole imprese nazionali, perversi se di grandi multinazionali. La televisione pubblica, per potere essere “buona”, deve dunque essere resa indipendente dal danaro “cattivo” dei pubblicitari e delle imprese che li mantengono.

Ma se le imprese televisive tutte, private e pubbliche, competono tra di loro per “gli occhi” degli spettatori, esse si contendono i talenti, naturalmente scarsi, o i diritti di trasmissione del loro prodotti, necessariamente costosi. Se si finanzia la televisione pubblica in modo trasparente con un’imposta di scopo, quale è il canone, aumentarla è impopolare. E allora c’è il rischio che la qualità diventi sinonimo di austerità: già dato, anzi déjà vu. Per evitarlo, Sarkozy ha avuto un colpo di genio: non un prelievo fisso, ma una sorta di scala mobile che garantisca l’adeguamento automatico degli introiti della televisione pubblica, con un prelievo percentuale su quanto i consumatori liberamente scelgono. Più comprano ciò che vogliono loro e più riceveranno ciò che vogliono gli altri. Il prelievo verrà non solo da una tassa sulla pubblicità trasmessa dalle televisioni private, i cui titoli all’annuncio logicamente sono saliti in Borsa, ma anche su Internet e sui cellulari, inseguendo i cittadini nelle loro scelte di nuovi prodotti e servizi.

La proposta è stata accolta dal Ministro Gentiloni con un favore che credo mascheri qualche imbarazzo: infatti quel sistema da noi non funzionerebbe, e proprio a causa della legge che, piaccia o non piaccia, porta il suo nome. Essa infatti, nella sua norma più controversa, prevede che le televisioni private non possano avere ciascuna più del 45% delle risorse pubblicitarie del settore: nella attuale situazione italiana, Mediaset, per rientrare in quel limite, dovrebbe ridurre il proprio fatturato di circa un quarto. Invece col progetto francese, il fatturato pubblicitario RAI andrebbe a zero, e Mediaset dovrebbe ridursi a qualcosa di meno de La 7. Neppure dalle parti di Micromega si era osato tanto. E neppure dalle mie parti si era pensato ad una tale “reductio ad absurdum”.

Sarkozy o Gentiloni, sono tutte proposte che guardano all’indietro. In questi giorni, negli USA, ancor più che le grandi televisioni commerciali – per non parlare della PBS – è You Tube che si guarda per avere il polso della lotta elettorale, con le voci e i gesti dei candidati che più hanno colpito l’immaginazione e convinto gli elettori. L’informazione oggi viaggia anche su altri canali – Internet, i cellulari – è prodotta dagli stessi utenti e selezionata dalle loro stesse scelte: tutto finanziato dalla pubblicità. Tutto reso possibile non dalle pretesa superiorità morale ed estetica di governanti o di esperti da loro indicati, ma dall’interesse e dall’ambizione di imprenditori. Sui giornali sono apparse le doppie pagine in cui Murdoch traccia la storia del suo gruppo: ogni tappa una scommessa vinta contro le previsioni di chi guardava indietro. A chi oggi teme che il suo Wall Street Journal possa non essere più quello di prima, risponde che questa non è una previsione, é una promessa. Ed è di ieri la notizia che sta per esser lanciata una nuova generazione di satelliti che renderà possibili collegamenti a Internet molto più veloci.

Ci sono quindi buone ragioni per guardare senza eccessiva preoccupazione a quest’ultima infatuazione di Sarkozy: la sorte della televisione pubblica è irreversibilmente segnata. Anzi, isolandola del tutto dalla vita vera, quella in cui gli imprenditori investono e i consumatori scelgono, si riduce il rischio che inquini altri settori. Come per tante cose che diventano inutili, l’importante è solo che non costino troppo.

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