Tv, servizio pubblico? Un’idea da preistoria

dicembre 7, 2004


Pubblicato In: Giornali, La Stampa

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Rai privata e novità del digitale terrestre

Due cose dice il Presidente dell’Antitrust a proposito della vendita al pubblico di azioni della RAI: primo, che resti tutta pubblica la società con obblighi di servizio pubblico e si metta in Borsa solo la parte a carattere commerciale finanziata dalla pubblicità; secondo, che per quest’ultima si definiscano regole di corporate governance che garantiscano un effettivo controllo dell’operato del management.

Angelo Benessia (Il Grande Fardello, La Stampa del 5 Dicembre) si sofferma sulla prima, e ignora la seconda. Che è invece la più rilevante: perché mentre alla separazione del canone dalla pubblicità si potrà sempre dar luogo anche dopo la vendita parziale, sol che ce ne sia la volontà politica; sono difficoltà giuridiche che renderanno praticamente impossibile la modifica delle regole di corporate governance.
Ma queste sono distinzioni che interessano gli specialisti. Il punto centrale, è un altro. La resistenza a vendere le reti, la richiesta di separazione delle attività finanziate dal canone da quelle commerciali, l’assurda regola di corporate governance, sono figlie tutte della concezione stessa di servizio pubblico che domina nella televisione e che non si incontra in nessun altro mezzo di comunicazione. Nessuno si sogna di dire che la stampa di quotidiani e periodici è un servizio pubblico: perché dovrebbe esserlo la televisione? “La risposta più plausibile – secondo Vincenzo Zeno Zencovich (La libertà d’espressione, il Mulino, 2004) – è che la nozione di servizio pubblico è stata piegata all’esigenza di giustificare il controllo sulle imprese radiotelevisiva. Per certi versi essa costituisce una linea di ripiego rispetto all’insostenibile tesi del monopolio statale, ma si nutre delle idee che erano alla base di quest’ultimo, e cioè che la collettività deve poter accedere ovunque e senza costi eccessivi a servizi informatici e di intrattenimento”.
I servizi pubblici sono necessari per assicurare beni e servizi che i privati non avrebbero interesse a fornire: l’esempio classico è quello dei paesini che non avrebbero la posta, l’elettricità, i trasporti. Qui invece non c’è traccia di market failure, anzi i privati forniscono, e ambiscono a fornire, questo servizio a nessun costo che non sia l’inserimento di messaggi pubblicitari.
A sua volta quello del servizio pubblico si apparenta a un altro pregiudizio, che la TV debba essere regolamentata perché “fa male”. Siamo al primo posto in Europa per consumo televisivo (quasi quattro ore al giorno pro capite!), osserva scandalizzato Benessia.. Ma se è questione di quantum, qual è la dose massima quotidiana e chi la stabilisce? Ammesso che la televisione faccia male, perché non dovrebbe ciascuno regolarsi come già fa con gli alcoolici o con i dolci?

“E siamo in fondo alla classifica nella diffusione dei giornali,” continua. Capisco la difesa d’ufficio dei giornali. Il duopolio televisivo è criticabile dal punto vista della concorrenza. Il conflitto di interessi in capo a Silvio Berlusconi è un’anomalia dal punto di vista politico. Ma non diamo la colpa alla televisione: se in Italia mancano giornali popolari come la Bild Zeitung, che da sola vende più della somma di tutti i principali grandi giornali italiani, mi sembra veramente difficile da sostenere.

Nel settore televisivo stanno succedendo cose nuove: nel digitale terrestre il 40% della capacità trasmissiva di RAI e Mediaset dovrà essere ceduto a terzi. Telecom acquista i diritti per le partite di calcio. La possibilità di trasmettere 12 ore al giorno su tutto il territorio nazionale rende aggregazioni tra le 600 TV locali. Sulle piattaforme è in corso una guerra tra Sky, Telecom, Mediaset e RAI. Smettiamo di arrovellarci su concetti metafisici, quali quello di servizio pubblico, o sui limiti illiberali da porre a un’attività di manifestazione del pensiero. Tra breve ci accorgeremo che fanno parte della preistoria.

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