Trucchi e risparmi

novembre 28, 1997


Pubblicato In: Giornali, Il Messaggero


La presentazione del rapporto Cer è stata l’occasione per un nuovo sviluppo nella polemica divampata in queste settima­ne sui maggiori organi di informazione nazionale e internazionale su come so­no gestiti i conti al Tesoro, in vista del raggiungimen­to del famoso 3% di deficit necessario all’Euro. Il sottosegretario Piero Giarda, avvocato d’ufficio del Teso­ro, ha respinto con energia le accuse mosse da France­sco Giavazzi sul Corriere della Sera e da James Blitz sul Financial Times.
E mentre lo ascoltavo impe­gnato nella sua appassiona­ta difesa, non ho potuto fa­re a meno di registrare in me una crescente sensazio­ne che mi provocava, lo ammetto, effetti rassicuran­ti. Di che si trattava? Mi sembrava di tornare indie­tro nel tempo, quando il mio mestiere era quello di rappresentante non della sovranità popolare, ma di un azionista per gestirne l’azienda. Allora capitava — è capitato — che l’au­mento dei costi, o l’anda­mento delle vendite, ren­desse necessario comprime­re le spese: in quel caso inutile era invocare il bilan­cio preventivo, il budget veniva rivisto, e le spese controllate non solo per funzione, ma assai più stringentemente per natu­ra. Come ogni manager sa, in questo modo si realizza­no le correzioni in corso di esercizio rispetto al bilan­cio preventivo: Franco Ta­tò, per esempio, è su que­sto specifico terreno, un maestro insuperato.

Ascoltando Piero Giarda la rassicurante impressione era quella di vedere adotta­ta questa prassi dell’impre­sa privata anche nei conti della pubblica amministra­zione. In effetti dallo scor­so anno il Tesoro si è dato una linea innovativa: ri­spetto alle spese di compe­tenza autorizzate dalla fi­nanziaria. dapprima ha parzialmente prosciugato i conti correnti delle varie amministrazioni pubbli­che, e poi ha preso a con­trattare in maniera restritti­va il ritmo di esborsi dalla tesoreria centrale. La diffe­renza tra le somme che la PA. è stata autorizzata dal Parlamento a spendere e quelle che il Tesoro le ha effettivamente fornito e che essa ha a sua volta erogato, forma i cosiddetti «re­sidui passivi»: oggi essi am­montano a 300.000 miliar­di, dei quali ben 140.000, ha denunciato il Financial Times, accumulato nell’ul­timo anno per effetto della drastica chiusura del rubi­netto effettuata dagli uomi­ni di Ciampi.

E’ rispetto a questa pras­si innovativa che si sono scatenate le polemiche. L’accusa è che siamo in presenza di un modo di truccare i conti, non di ri­sparmio vero: infatti que­ste somme «appartengono» alle amministrazioni, sono loro in forza di leggi votate dal Parlamento, in base ad esse le amministrazioni hanno stipulato contratti con fornitori. Impegni pre­si da amministratori pub­blici in base a leggi votate dovranno prima o poi esse­re onorati: non si tratta quindi di risparmi, ma so­lo di rinvio di spese.

Giarda non ha certo ne­gato il fenomeno. Resta si­curamente vero che il Teso­ro dovrà impegnarsi a este­nuanti trattative con le am­ministrazioni pubbliche de­siderose di poter spendere entro i limiti del consentito più di quanto via XX Settembre rende concretamen­te disponibile. Tuttavia, ha puntigliosamente ricordato Giarda, «considerando un campione di circa 100 enti locali si osserva che la crescita della spesa è stata sistematicamente minore  per quegli enti che hanno avuto la maggiore riduzione della rispettiva giacenza sui conti di tesoreria». Si tratta di un effetto dovuto a leggi economiche o a principi del diritto, si tratta — Giarda lo ha riconosciuto — di una forma di «illusione monetaria» ben nota a ciascuno di noi: si spende meno se si hanno meno soldi in cassa e a lun­go andare ci si abitua a spendere meno.

Tra me e me sentivo istintivamente il piacere che un manager privato prova nel veder adottato da un funzionario pubblico criteri che sono parte operante della vita di milioni di individui, di migliaia di imprese. Tuttavia, mentre ancora Giarda parlava, non ho potuto fare a meno di registrare un nuovo sen­timento che pian piano si affiancava al primo fin quasi a sopraffarlo. Questa «privatizazione» dei crite­ri con cui sono gestiti i con­ti pubblici, purtroppo, tro­va ben presto i suoi limiti. Già, perché in un’impresa privata, all’azione di conte­nimento delle spese seguo­no le modifiche strutturali che ne eliminano le cause; mentre alla stretta finanzia­ria del Tesoro raramente fa seguito il ridisegno di fun­zioni, che riduca l’area di intervento dello Stato per concentrare le risorse sulle attività qualificanti. Ma so­prattutto, nell’impresa pri­vata, il manager sarà sotto­posto alla pressione, certa ed inesorabilmente costan­te, dell’azionista al quali egli risponde: cosa che non è affatto detto che avvenga al Tesoro. Oggi — ed è un loro grande merito — gli uomini impegnati al Tesoro riducono le spese di cassa rispetto alla competenza, ma niente impedirà domani, mutato l’indirizzo di non adeguare le previsioni di spesa di competenze alle più basse uscite di cassa effettivamente registrate. Lo dimostra una storia non troppo lontana, quella dell’esplosione del deficit degli anni successivi a quelli in cui Andreatta al Tesoro tentò — sia pur con strumenti diversi ed esiti meno rilevanti — un analogo contenimento della spesa, nel 1981 e 82. In altre parole ho pensato mentre Giarda concludeva il suo intervento, il monito di Giavazzi del Financial Times sui rischi potenzialmente esplosivi di un tale «bottino» residui passivi è assolutamente fondato. Oltretutto contiene in sé una inevitabile verità: per quanto lodevole Ciampi oggi, nessuno davvero pensa che Franco Tatò possa fare nella pubblica amministrazione ciò che fece in Mondadori.

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