→ Iscriviti
→  novembre 29, 2009

corrieredellasera_logo
di Francesco Giavazzi

La cultura: protagonisti, libri, arte, dibattiti, racconti. Prospettive: chi deve pagare il prezzo del benessere. Il modello organizzativo in vigore ha forti riflessi anche sul mercato del lavoro, con una serie di difficoltà di accesso. Un saggio di Alberto Alesina e Andrea Ichino pone l’ interrogativo sul rapporto tra il prezzo e i benefici e sulla coscienza che ne abbiamo.

La centralità della famiglia nella società italiana è un valore che ci avvantaggia rispetto a Paesi in cui i legami familiari sono più attenuati o pressoché inesistenti, come ad esempio negli Stati Uniti, oppure è una palla al piede? Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, non ha dubbi: nel «Libro Bianco» sul futuro del modello sociale italiano, scrive: «Esiste un legame inscindibile tra il benessere della famiglia e quello della società. Famiglia vuol dire tessitura di legami verticali, solidarietà intergenerazionale, relazioni che danno il senso della continuità temporale; vuol dire rapporti di prossimità e parentela, che consentono la coesione comunitaria. La famiglia trasmette ai figli il patrimonio, ma anche la cultura, la fede religiosa, le tradizioni, la lingua, e crea quel senso profondo di appartenenza, di consapevolezza delle origini così necessario all’identità di ciascuno. La famiglia è anche il nucleo primario di qualunque Welfare, in grado di tutelare i deboli e di scambiare protezione e cura, perché è un sistema di relazioni, in cui i soggetti non sono solo portatori di bisogni, ma anche di soluzioni, stimoli e innovazioni». Così poste sono affermazioni che ciascuno di noi può valutare solo alla luce dei propri valori religiosi, delle proprie convinzioni politiche. Un cattolico dirà: «È certamente così». Un laico osserverà che in altri Paesi, ad esempio quelli scandinavi, la famiglia non è il perno centrale del Welfare, e ciononostante la società pare funzionare bene, talvolta persino meglio della nostra. Privi di evidenza empirica, di fatti e di analisi con cui formarsi un’opinione, i cittadini si divideranno – come accade ormai su ogni argomento in Italia – in due fazioni opposte, pronte ad aggredirsi, incapaci di ragionare perché prive degli strumenti per farlo. Il libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino L’Italia fatta in casa (Mondadori) è uno strumento per capire. Non se la famiglia sia un valore, non è di questo che si discute. Bensì quali siano i vantaggi, e anche i costi, della scelta (che è quella che fa Maurizio Sacconi) di affidare alle famiglie, anziché al Welfare pubblico, un ruolo tanto importante nella tutela di chi perde il lavoro, di chi è anziano, dei bisognosi.

Per capirlo il libro di Alesina e Ichino parte da un fatto. In Italia il 45% delle coppie sposate di età inferiore ai 65 anni vive entro un raggio di un chilometro dai propri genitori. La vicinanza rende possibili aiuti reciproci: assistenza dei figli ai genitori anziani e dei genitori ai figli per la cura dei nipoti. Ma anche scambi monetari: una famiglia ogni dieci dichiara di aver ricevuto un aiuto dai genitori (solo una su venti in Spagna e una su cento in Gran Bretagna) e la frequenza di questi aiuti cresce quando qualcuno nella famiglia perde il lavoro. Quindi in Italia non solo i trasferimenti finanziari fra parenti sono più frequenti che altrove, ma il soccorso dei parenti viene invocato e offerto proprio quando qualcuno perde il lavoro. Osservate che l’aver spostato l’assistenza (dei bimbi, degli anziani, dei disoccupati) a carico delle famiglie, non ci ha consentito la costruzione di un Welfare «leggero»: il nostro Stato sociale è tutt’altro che leggero, costa oltre un quarto del reddito nazionale, più o meno come nel resto d’Europa. Ma mentre negli altri Paesi l’assistenza alle famiglie rappresenta il 20% della spesa per il Welfare, in Italia è solo il 6%. Il nostro Welfare si limita sostanzialmente a pagare pensioni. Perché abbiamo fatto queste scelte? Le istituzioni di un Paese non sono casuali, bensì riflettono le preferenze dei cittadini. Agli italiani piace una società costruita intorno alla famiglia e nel tempo hanno creato istituzioni che consentono il perpetuarsi del ruolo centrale della famiglia. Nel secolo scorso l’emigrazione era una necessità: rompeva le famiglie, sia che si emigrasse in America o a Torino, ma non vi erano alternative. Diventati più ricchi, non abbiamo utilizzato la maggior ricchezza per costruire reti di protezione sociale che si sostituissero alla famiglia, ad esempio asili nido o sussidi di disoccupazione per tutti. Al contrario le istituzioni si sono evolute proprio per consentire alla famiglia di divenire il maggior erogatore di servizi sociali. Pensioni e Statuto dei lavoratori sono un esempio. Molte famiglie italiane possono contare sul reddito di almeno un «maschio adulto» protetto. Alesina e Ichino osservano che ciò trasforma la famiglia in un magnete che la tiene unita. La loro ricerca stima che se in una famiglia italiana il padre perde non il lavoro, ma semplicemente la certezza di essere occupato nell’anno successivo, la probabilità che i figli escano di casa aumenta del 40%. Lo stesso potrebbe dirsi a proposito della «cronica assenza» di asili nido. Se ce ne sono pochi non è perché «politici cattivi» non vogliano costruirne, ma perché razionalmente valutano che destinare miliardi di euro alla costruzione di un ponte sullo Stretto di Messina paghi di più, in termini di voti, che destinarli agli asili. La medesima osservazione aiuta a comprendere come mai il ministro del Welfare si opponga con tanta violenza alla costruzione di un Welfare moderno, mentre difende a spada tratta il diritto ad andare in pensione prima dei sessant’anni di età. Pensioni sicure e assenza di asili nido rendono la centralità della famiglia al tempo stesso possibile e necessaria.

È questo che gli italiani vogliono, ed è questo che Sacconi offre loro. Se si riflette su questo punto, forse si capisce perché il centrodestra vince le elezioni. Ma acquisito che ci ritroviamo le istituzioni che ci soddisfano, la domanda successiva è: quali sono i costi di questo modello e dove ci sta portando? Vi sono almeno quattro conseguenze: la scarsa mobilità geografica che dà luogo al fenomeno che Edward Banfield – un politologo dell’università di Chicago che studiò attentamente l’Italia – cinquant’anni fa definì «familismo amorale»; il precariato, cioè un mercato del lavoro diviso fra un gruppo di super-tutelati e un esercito senza alcuna protezione; la difficoltà delle nostre imprese di crescere e un peso straordinario a carico delle donne. «Non a caso le cosche mafiose si definiscono famiglie». In una società centrata sulla famiglia, le persone tendono a fidarsi dei propri parenti e a diffidare degli estranei. In una serie di lavori di ricerca molto interessanti, tre economisti italiani, Paola Sapienza, Luigi Guiso e Luigi Zingales, costruiscono una misura del «capitale sociale» in diverse regioni italiane (il capitale sociale è proprio ciò che il familismo non consente di accumulare) utilizzando come indicatore il numero dei donatori di sangue. Ne emerge che nel Mezzogiorno, dove la famiglia è più centrale e la mobilità inferiore, vi sono meno donatori di sangue che, ad esempio, in Friuli. La scarsa mobilità influenza anche l’accesso al mercato del lavoro. «In una società fondata sulla famiglia, il primo passo è trovare un lavoro, anche precario, ma vicino a casa per poter essere aiutati dai genitori. Poi si aspetta un posto stabile, che generalmente si trova attraverso i contatti familiari e quindi sempre vicino a casa. A questo punto nascono i figli e i genitori, per fortuna, sono vicini, aiutano ad accudirli. Poi i figli, diventati adulti, accudiranno i genitori anziani. La famiglia italiana è il complemento perfetto del mercato del lavoro duale, fondato sull’immobilità geografica». Quando la ricerca del lavoro si limita ad un intorno della propria famiglia, conoscenze e raccomandazioni contano più di meccanismi che consentono un’allocazione efficiente tra lavoratori e imprese, a esempio utilizzando i servizi forniti dal sito www.monster.com. Altri tre economisti, Samuel Bentolilla, Luigi Pistaferri e Claudio Michelacci mostrano che la ricerca del lavoro tramite le amicizie dei parenti consente di trovare un posto relativamente presto, ma con una retribuzione inferiore rispetto ai lavori trovati al di fuori della cerchia delle amicizie familiari. Ma poiché il lavoro trovato dai parenti consente di vivere vicino alla famiglia, lo stipendio inferiore è compensato dai molti servizi offerti gratis dai genitori. Ma che occasioni ha perso quella ragazza che ha rinunciato alle opportunità che avrebbe potuto offrire il mercato del lavoro di un’altra regione? Lo stesso si può dire per le aziende: «Mio figlio è purtroppo un pessimo ragioniere, ma se riesco a farlo assumere dall’azienda del mio amico (magari promettendogli un piccolo aiuto nella sua pratica in Comune), troverà prima un lavoro». Ma quanto costa questo scambio all’azienda dell’amico, che su monster.com avrebbe potuto trovare un ottimo ragioniere, certo, pagandolo abbastanza per convincerlo a muoversi da una città lontana? Francesco Caselli e Nicola Gennaioli mostrano che in Italia la frequenza con cui la proprietà delle imprese viene trasferita dai genitori ai figli è particolarmente elevata perché la giustizia civile rende più difficile far rispettare i contratti. Familismo amorale e giustizia civile inefficiente fanno sì che la proprietà delle aziende rimanga all’interno della famiglia. Alla luce di quanto sopra osservato sulle istituzioni, viene da chiedersi se l’inefficienza della giustizia civile non rifletta semplicemente le preferenze degli italiani. Ma poi non dobbiamo lamentarci se le aziende non crescono, rimanendo piccole non sono in grado di investire in ricerca e sviluppo e prima o poi non ce la fanno più. Ma il costo maggiore di una società centrata sulla famiglia è il peso straordinario che incombe sulle donne. Non può esservi centralità della famiglia se la casa è vuota. E chi la riempie in Italia è la donna. In Italia le donne che lavorano lo fanno in media per 7,1 ore al giorno, contro le 8,8 dei maschi. Rientrati a casa, gli uomini aggiungono 2 ore di lavoro, le donne 4,3. Sommata sull’arco di un anno questa differenza significa che le donne in un anno lavorano 27 giorni (di 8 ore) più degli uomini. In Spagna, un Paese per molti aspetti simile, la differenza è la metà.

Siamo sicuri che questo squilibrio sia un bene? È un bene che tante donne intelligenti scelgano il part-time e addirittura abbandonino il lavoro per poter accudire figli, suocere, genitori e nipotini, o magari semplicemente per tenere la casa pulita anziché assumere un collaboratore domestico? L’Italia fatta in casa si chiude con due vignette suggestive che confrontano la sera in una casa americana e in una italiana dove la donna, nonostante i suoi quattro lavori, mantiene sempre il sorriso – ma prima di addormentarsi si chiede se anni prima abbia fatto bene a rinunciare alla promozione che le era stata offerta dall’azienda per poter trascorrere più ore a casa. Quanto siano scelte libere e quanto imposizioni di una società centrata sulla famiglia e sui maschi adulti è difficile dire. Certo, come ho osservato, la risposta che tutto dipende dalla scarsità dei servizi pubblici non tiene. Le donne sono una maggioranza. Se considerassero questi servizi essenziali, nel tempo avrebbero votato per chi si impegnava a fornirli. È più probabile che il ruolo delle donne dipenda da tratti culturali che hanno radici profonde ed è difficile cambiare. Studiando il comportamento negli Stati Uniti d’America di immigrati provenienti da diversi Paesi, tre giovani economiste, Raquel Fernandez, Alessandra Fogli e Claudia Olivetti (anche gli economisti talvolta aiutano a comprendere la società!) hanno scoperto che, nonostante l’esperienza di una società tanto diversa, le caratteristiche culturali del Paese d’origine (in particolare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro) sono molto persistenti, non scompaiono neppure dopo due o tre generazioni. È possibile che la mia sia un’interpretazione tutta sbagliata. Se le lettrici lo pensano, le invito, dopo aver letto L’Italia fatta in casa, a spiegarmi perché le donne italiane accettano di sopportare un peso tanto sproporzionato. Se non si capisce questo punto, discutere delle «quote rosa» non porta molto lontano.

ARTICOLI CORRELATI
I costi del familismo

di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2009

Sud e isole, far crescere il capitale sociale
di Alberto Alesina e Andrea Ichino – Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2009

Spaghettate fuori dal PIL
di Alberto Alesina e Andrea Ichino – Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2009

Sulla famiglia evitare le miopie
di Alberto Alesina e Andrea Ichino – Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2010

→  novembre 29, 2009

corrieredellasera_logo

di Massimo Mucchetti

Il Tribunale di Milano si prepara a emettere una sentenza che potrebbe costituire una pietra miliare nel diritto di Internet e costringere il re della rete, Google, a correggere il suo modello di business aperto e, oggi, irresponsabile. Mercoledì 25 novembre i pm Francesco Cajani e Alfredo Robledo hanno pronunciato la requisitoria. Il processo ha origine dalla querela depositata il 9 novembre 2006 dall’Associazione Vivi Down in merito a un video che riprendeva le umilianti angherie di alcuni ragazzi contro un compagno di scuola handicappato.

Il filmino è apparso sul sito htpp://video.google.it nella sezione «video divertenti». Le immagini sono rimaste online abbastanza a lungo da essere visualizzate 5.500 volte ed entrare così nella classifica dei 100 video più scaricati, al 29esimo posto, prima di essere rimosse. La censura è stata fatta da Google, ma solo su ordine della polizia avvisata dall’ Associazione a sua volta mobilitata da un cittadino, Alessandro D’ Amato, che prima aveva invano segnalato la cosa allo stesso Google e poi ne aveva scritto sul suo blog. Questa clamorosa violazione della privacy fa emergere l’ ambiguità di una multinazionale che reagisce raccontandosi in modi diversi a seconda dell’ interlocutore. Al popolo degli internauti Google si mostra come il campione del mondo free, dove tutto è libero e gratuito. Alla stampa e alla Borsa come un motore di ricerca attrezzato per contrastare gli abusi, nel rispetto delle leggi di ogni Paese.

Agli inserzionisti come un editore innovativo che, con il programma AdWords, consente di raggiungere il cliente potenziale con costi legati alla performance. Ma di fronte alla magistratura Google nega l’ interesse economico di Google Video per non doversi riconoscere editore con le conseguenti responsabilità, salvo dover ammettere il fine del lucro davanti alle evidenze. E cerca di disconoscere la giurisdizione italiana a carico dei legali rappresentanti di Google Italy. Fanno tutto a Mountain View, ripete: ci si informi per rogatoria e magari ci si giudichi in base alla legge californiana. Quattro verità sono troppe per essere tutte buone.

A naso la più credibile è quella legata al quattrino. Le altre sembrano di comodo. E allora non si capisce perché in un giornale, in una tv o anche in un sito registrato debbano rispondere sul piano penale e civile delle violazioni della legge sia l’ autore del servizio che il direttore responsabile coperti dall’ editore, mentre su Google Video, piattaforma editoriale di autori vari e un padrone solo adattata ai diversi Paesi, non debba rispondere nessuno. Certo, controllare costa. Non basta la persona a ciò preposta a Dublino. Google spende molto in uomini e mezzi per scannerizzare i libri e fare la Biblioteca universale dai cui si attende adeguati ricavi.
Potrebbe farlo anche per evitare che gli imbecilli o i malvagi usino i suoi servizi per colpire i più deboli. Guadagnerà meno? Pazienza. Il Tribunale di Milano può porre un vincolo che aiuterà Google a diventare migliore. Come tanti anni fa la legge sulla giornata di lavoro di 8 ore costrinse le industrie a reinventarsi per recuperare quanto avevano dovuto sacrificare alla civiltà.
ARTICOLI CORRELATI

Banda larga nel vicolo Telecom
di F.G. – Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2009

Italia ferma nella corsa alla nuova rete
di Leonardo Maisano – Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2009

Telecom: colosso senza strategie
di Alessandro Penati – La Repubblica, 12 dicembre 2009

Labour’s digital plan gets in the way of real progress
di John Kay – Financial Time, 25 novembre 2009

→  novembre 22, 2009

corrieredellasera_logo
Bene essenziale, ma non conviene farne una guerra di religione

di Massimo Mucchetti

La privatizzazione dell’acqua, avviata dal decreto Ronchi, divide l’Italia. La questione scotta: si può vivere senza petrolio, non senza acqua. E non ci si può nascondere dietro un dito dicendo che la proprietà di quanto immesso nel tubo resta pubblica se il servizio non lo sarà più. Ma ha senso spaccarsi sul piano del principio? La risposta è: no.
Che il gerente dei servizi idrici sia pubblico o privato significa fino a un certo punto. La Germania ha i consumi più virtuosi, le minori dispersioni, Berlino ha l’acqua più cara e la gestione è diffusa in mano ai comuni. La Francia, invece, ha tre colossi quotati in Borsa ma influenzati dal governo. Il Regno Unito ha privatizzato. Negli Usa prevalgono le public authority, enti pubblici senza capitale, e ci sono i consumi più alti del mondo.

Meglio, allora, entrare nel merito. In Italia i servizi idrici appartengono agli enti locali con rare eccezioni: i francesi ad Arezzo, gli spagnoli in Sicilia. Nei 36 comuni di Federutility, avverte la fondazione Civicum, l’acqua costa un euro al metro cubo contro i 2 della media mondiale. Diversamente dal trasporto pubblico locale, in genere la gestione ordinaria degli acquedotti non è sussidiata. Perché allora si vuol privatizzare? Perché molto spesso regnano inefficienza e clientele, gli investimenti scarseggiano, gli acquedotti perdono più dell’accettabile.
Ci vuole una scossa. Ma perché imporre la privatizzazione laddove il servizio idrico funziona? Se non si rischiasse la demagogia, verrebbe voglia di referendum locali. I comuni azionisti di ex municipalizzate quotate in Borsa (A2A, Acea, Hera, Iride) dovrebbero mettere a gara le concessioni idriche e le «loro» società potrebbero partecipare. Bene. Ma si prevede una strana alternativa per i comuni renitenti a gare che potrebbero ridurre i margini sull’acqua: scendere al 30% della società quotata e conservare l’attuale, comoda concessione fino alla scadenza. Che senso ha? Il 30% in mano a un soggetto che non può salire è una quota inutile di fronte a un’ Opa.

L’acqua può attirare grandi operatori esteri come Generale des Eaux o Veolia ma anche speculatori che comprano a debito e poi trovano il modo di non investire. Il ministro Ronchi pensa di cavarsela con protezioni statutarie? A parte la debolezza della soluzione, se così fosse, i comuni continuerebbero a comandare e allora che senso avrebbe costringerli a (s)vendere di questi tempi? Poi ci sono le lacune. Saranno ammessi alle gare anche i pretendenti in conflitto d’interessi? Sarà consentito al gerente di affidare i lavori a proprie imprese quando poi i costi vengono addebitati in tariffa? Silenzio anche sui criteri delle tariffe: su quanto verrà remunerato il capitale investito; su come sarà il price cap, che limita la rivalutazione per l’inflazione delle tariffe, e l’azzeramento periodico delle rendite di monopolio attraverso il meccanismo di claw back. Visti gli «errori» dei governi (di ogni colore) sulle autostrade, è lecito dubitare che i comuni abbiano le competenze per fare meglio sull’acqua. Chi li aiuterà: un’Autorità, la Goldman Sachs o l’amico del sindaco?

ARTICOLI CORRELATI
L’acqua privata e le paure dei consumatori
di Franco Debenedetti – La Repubblica, 22 novembre 2009

In nome dell’acqua bene comune, viene sprecato ogni anno un terzo delle risorse idriche captate
di Alberto Mingardi – Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2009

La battaglia dell’acqua
di Paolo Rumiz – La Repubblica, 18 novembre 2009

→  novembre 5, 2009

corrieredellasera_logo
L’acqua è un bene pubblico, non ci piove. Dacia Maraini, che se ne preoccupa nella sua rubrica di martedì, può stare tranquilla. Che però a un certo punto diventa privato. Perde la sua natura pubblica quando fa girare le turbine (private) che producono elettricità? Quando irriga campi privati? E quella del rubinetto, lo diventa quando riempie il bicchiere? Come gli altri beni della terra, l’acqua è un bene pubblico, e il suo essere pubblico si realizza quando le usa il pubblico vero, l’“utilizzatore finale”. Quello che conta non è l’“in sé” del bene, ma il modo con cui viene usato. Bisogna distinguere il bene dal servizio.

leggi il resto ›

→  ottobre 19, 2009

corrieredellasera_logo
di Sergio Romano

Il caso del regista Roman Polanski è davvero molto penoso.
Sul piano umano, è triste che una persona di 76 anni venga perseguita per un reato che ha commesso trent’ anni prima. Sul piano sociale, la mobilitazione del mondo del cinema a difesa di un suo appartenente evidenzia, se mai ce ne fosse bisogno, come gli atteggiamenti di critica sociale che il cinema pretende di esprimere guardino non all’ etica ma al botteghino. Infine, il più penoso di tutti è l’ atteggiamento che si esprime nell’ assunto: gli stupratori non sono tutti uguali. Se si considera che in Italia è stato condannato a due anni un uomo reo di avere messo le mani sulle natiche di una donna appare chiaro il paradosso di difendere chi ha abusato di una ragazzina tredicenne.

Francesco Deambrois

Anche a me non è piaciuto lo spirito con cui alcuni intellettuali, uomini politici e rappresentanti del mondo dello spettacolo sono accorsi alla difesa di Roman Polanski. Lo hanno fatto con spirito di corporazione e, implicitamente, con la convinzione romantica che il genio abbia diritto alle sue sregolatezze: un atteggiamento che in questa vicenda mi è parso completamente fuori luogo.
Debbo confessarle tuttavia che altri aspetti di questa storia mi sono piaciuti ancora meno. Non mi è piaciuta ad esempio l’ improvvisa insistenza del procuratore californiano in un caso che, a giudicare dalle circostanze, era stato per molti anni informalmente archiviato. Non mi è piaciuto che la magistratura svizzera abbia tenuto in prigione sino al ricovero in ospedale, prima di pronunciarsi sulla richiesta di estradizione, un uomo che risiede nella Confederazione e avrebbe potuto facilmente ottenere gli arresti domiciliari. In un articolo apparso sul Riformista del 1° ottobre Franco Debenedetti osserva che la Svizzera è sempre stata «terra d’ asilo» e si chiede se l’ atteggiamento assunto verso Polanski non abbia qualche rapporto con le difficoltà della Confederazione dopo l’ offensiva del Tesoro americano contro i conti segreti di una delle maggiori banche svizzere.
Non mi è piaciuto infine che un vecchio reato venga giudicato oggi con criteri alquanto diversi da quelli che prevalevano nel periodo in cui fu commesso. Sarebbe giusto ricordare che gli anni Settanta furono quelli della «liberazione» sessuale, dell’ amore libero, dei «figli dei fiori», delle battaglie per la legalizzazione della droga. Sarebbe giusto osservare che la vittima, a quanto pare con l’ assenso della madre, frequentava registi e produttori cinematografici nella speranza di un provino. Un articolo recente del New York Times ricorda che in «Manhattan», un film del 1979, una ragazza dice all’ uomo di cui è l’ amante da qualche anno (Woody Allen nella parte di un quarantaduenne sceneggiatore televisivo): «Oggi ho compiuto 18 anni. Sono legale eppure mi sento ancora una ragazzina». Si potrà osservare che la Lolita di Woody Allen, a differenza della tredicenne di Polanski, era consenziente. Per questo appunto Polanski, se non fosse fuggito, avrebbe passato in prigione 41 giorni. Oggi, tuttavia, non se la caverebbe probabilmente con meno di cinque anni. È questa la ragione per cui esistono (e dovrebbero essere restaurate là dove sono state soppresse) le prescrizioni. Anche la morale è soggetta alle mode, agli umori del tempo, alle correnti di opinione. Noi stiamo attraversando oggi, a dispetto di certe libertà e licenze conquistate negli ultimi trent’ anni, un periodo particolarmente puritano. E la sentenza di Polanski, se venisse estradato, sarebbe puritana. Ma ciò che appare giusto oggi non sarebbe stato giusto 33 anni fa.

ARTICOLI CORRELATI
Polanski e la Svizzera
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 1 ottobre 2009

→  agosto 15, 2009

corrieredellasera_logo
Non è necessario che sia un’azienda pubblica a «fornire» una televisione che riguarda tutti i cittadini

Caro Direttore,

“La nozione di Servizio pubblico (SP)” implica “l’idea della tv come bene comune di importanza nazionale, al pari della luce, del gas, dei trasporti”, scrive Aldo Grasso (La Rai ha fatto una scelta di campo, Corriere della Sera del 10 Agosto). Proprio gli esempi che cita dimostrano che non è affatto necessario che un SP, quale certamente è la televisione, sia fornito da un’azienda pubblica, anzi che questa è, in generale, un’eccezione: l’energia elettrica è privatizzata e in concorrenza; nei trasporti, quelli su gomma, che ne costituiscono la parte più rilevante, sono la quintessenza del privato; largamente privati sono i trasporti aerei; e se il gas lo è in misura insoddisfacente, è per ragioni che con il SP hanno ben poco a vedere.

leggi il resto ›