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→  luglio 21, 2015


articolo collegato di Yanis Varoufakis

I l 12 luglio, il summit dell’eurozona ha imposto le condizioni della resa al primo ministro greco Alexis Tsipras, che, terrorizzato dalle alternative, le ha accettate tutte. Una di queste condizioni riguardava la cessione dei restanti beni pubblici della Grecia. I leader europei hanno chiesto che i beni pubblici greci siano trasferiti in un fondo equivalente al Treuhand – un’agenzia deputata alla svendita simile a quella usata dopo la caduta del muro di Berlino per privatizzare velocemente, con grandi perdite finanziarie e con effetti devastanti sull’occupazione, tutto il patrimonio pubblico della Germania dell’Est che stava scomparendo. Il Treuhand greco sarebbe situato – udite udite – a Lussemburgo, e sarebbe gestito da un gruppo supervisionato dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, autore del modello. Dovrebbe completare la svendita entro tre anni. Tuttavia, mentre il lavoro del Treuhand originale era accompagnato da un massiccio investimento della Germania dell’Ovest in infrastrutture e trasferimenti sociali su larga scala verso la Germania dell’Est, il popolo greco non riceverà nessun beneficio di alcun genere. Euclid Tsakalotos, diventato mio successore come ministro delle Finanze della Grecia da due settimane, ha fatto del suo meglio per migliorare gli aspetti peggiori del Treuhand greco. È riuscito a mantenere il fondo ad Atene, e ha ottenuto dai creditori della Grecia (la cosiddetta troika della Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) l’importante concessione che le vendite siano estese a 30 anni, piuttosto che a 3. Una conquista importante, perché consentirà allo Stato di tenere gli asset sottostimati fino a che il loro prezzo non si riprenda dagli attuali cali che hanno indotto la recessione.Ahimè, il Treuhand greco resta un abominio, e dovrebbe essere un marchio sulla coscienza dell’Europa. Peggio, è un’opportunità sprecata.Il piano è politicamente tossico, dal momento che il fondo, anche se domiciliato in Grecia, sarà effettivamente gestito dalla troika. È anche finanziariamente nocivo, poiché i proventi andranno a pagare quello che anche secondo l’Fmi è un debito insostenibile. E rappresenta un fallimento economico, poiché spreca una straordinaria opportunità di creare investimenti locali per contrastare l’impatto recessionistico del consolidamento fiscale punitivo che rientra nelle «condizioni» del summit del 12 luglio. Non doveva andare così. Il 19 giugno ho comunicato al governo tedesco e alla troika una proposta alternativa, che fa parte del documento intitolato Fine della crisi greca : «Il governo greco propone di raggruppare i beni pubblici (esclusi quelli relativi alla sicurezza del Paese, le bellezze pubbliche e il patrimonio culturale) in una holding centrale separata dall’amministrazione del governo e gestita da un ente privato, sotto l’egida del Parlamento greco, con l’obiettivo di massimizzare il valore degli asset e di creare un flusso di investimenti locale. Lo Stato greco sarà l’unico azionista, ma non darà in garanzia le sue passività o il debito». La holding giocherà un ruolo attivo preparando i beni alla vendita: «Emetterà un bond completamente collateralizzato sui mercati dei capitali internazionali» per raccogliere 30-40 miliardi di euro (32-43 miliardi di dollari), che, «prendendo in considerazione l’attuale valore degli asset», saranno «investiti nel modernizzazione e ristrutturazione degli asset in gestione». Il programma ha previsto un piano di investimenti di 3-4 anni, con conseguente «ulteriore spesa del 5% del Pil all’anno», con le attuali condizioni macroeconomiche che implicano «un moltiplicatore di crescita positivo superiore all’1,5», il che «dovrebbe spingere la crescita del Pil a un livello superiore al 5% per diversi anni». Ciò, a sua volta, indurrebbe «proporzionali aumenti del gettito fiscale contribuendo in tal modo alla sostenibilità fiscale e consentendo al contempo al governo greco di esercitare la disciplina della spesa senza affossare ulteriormente l’economia sociale». In questo scenario, l’avanzo primario (che esclude il pagamento degli interessi) «raggiungerà una certa rilevanza sia in termini assoluti che in termini percentuali nel tempo». Di conseguenza, alla holding «sarà concessa una licenza bancaria» entro un anno o due, «trasformandosi quindi in una Banca dello sviluppo capace di avere un assumere un ruolo primario negli investimenti privati alla Grecia e di partecipare a progetti collaborativi con la Banca europea di investimenti».La Banca di sviluppo che abbiamo proposto «permetterà al governo di scegliere quali asset privatizzare e quali no, garantendo al contempo un maggiore impatto sulla riduzione del debito dalle privatizzazioni selezionate». Dopo tutto, «il valore degli asset dovrebbe aumentare di un importo superiore a quello attuale speso sulla modernizzazione e sulla ristrutturazione, sostenuto da un programma di partnership pubblico-privato il cui valore è aumentato in base alla probabilità di privatizzazione». La nostra proposta è stata accolta con un silenzio assordante. Più precisamente, l’Eurogruppo e la troika hanno continuato a far credere ai media del mondo che le autorità greche non avevano proposte credibili e innovative da offrire – il loro solito ritornello. Pochi giorni dopo, una volta constatato che il governo greco stava per capitolare del tutto di fronte alle richieste della troika, hanno ritenuto opportuno imporre alla Grecia il loro modello del Treuhand umiliante, inimmaginabile e pericoloso. In un momento cruciale per la storia europea, la nostra alternativa innovativa è stata gettata via. Tocca agli altri recuperarla.

→  luglio 14, 2015


Articolo collegato di di Albero Alesina e Francesco Giavazzi

Le discussioni sul caso greco sempre più riflettono ideologia e stereotipi, un approccio che certo non aiuta a capire che cosa sia davvero accaduto. Alcuni numeri forse possono servire. Nel 1995 il reddito pro capite greco era il 66 per cento di quello tedesco. Nel 2007, l’anno prima dell’inizio della crisi finanziaria mondiale, era l’80,5 per cento (Commissione europea, Statistical Annex, primavera 2015). Un risultato straordinario – pochi Paesi riescono ad arricchirsi tanto rapidamente – e che dovrebbe imbarazzarci: nello stesso periodo l’Italia anziché guadagnare posizioni rispetto alla Germania ne ha perse, arretrando (sempre in termini di reddito pro capite) dal 95 al 90 per cento. Nei primi anni, fino al 2005, l’aumento del reddito pro capite greco è stato sostenuto da una crescita della produttività dell’economia, che aumentava di circa il 2 per cento l’anno, oltre il doppio della crescita della produttività tedesca.
Tutto cambia dopo il 2005 quando la produttività inizia a scendere, perdendo mezzo punto l’anno fra il 2005 e il 2010. Maggior reddito senza un corrispondente aumento della produttività si può ottenere solo indebitandosi. E infatti fra il 2000 e il 2010, l’anno del primo salvataggio, la Grecia ha speso ogni hanno (a debito) oltre il 10 per cento in più di ciò che produceva. Il risultato è che in quel periodo il debito salì dal 100 al 146 per cento del Pil. Insomma quegli anni sono stati per molti greci una grandiosa festa di consumi e di vacanze (pensionamenti a cinquantenni). Se quei prestiti fossero invece stati impiegati in investimenti produttivi, e ci fosse stata qualche liberalizzazione, oggi la Grecia sarebbe in grado di ripagarli e il reddito pro capite sarebbe ben piu alto di quello che è. Invece sono stati spesi in consumi, privati (grazie ad un’evasione fiscale endemica dei ricchi) e soprattutto pubblici.
Anche le Olimpiadi del 2004 hanno contribuito, ma per una quota minore: 11 miliardi di euro, un quinto del debito contratto negli anni precedenti le Olimpiadi. E chiusi i Giochi, che nessuno obbligò la Grecia ad organizzare, il Paese ha continuato imperterrito a indebitarsi. È vero che la Grecia ha una spesa militare elevata (più dell’Italia e della Germania, ma meno di Francia e Regno Unito in rapporto al Pil), che in parte va in acquisti di materiale militare all’estero. Ma nel 2009, ad esempio, a fronte di un indebitamento complessivo di 36 miliardi di euro le importazioni di materiale militare furono (solo) 2 miliardi: un quarto dalla Germania, un quarto dalla Francia, il resto dagli Stati Uniti.
Dal 2010, il costo della crisi è stato molto elevato. Il reddito pro capite, che come detto aveva raggiunto oltre l’80 per cento di quello tedesco, è oggi arretrato al 60, inferiore persino al livello del 1980, l’anno prima che la Grecia entrasse nell’Unione Europea. Sarebbe stato meglio fare default totale (non parziale come accadde) e uscire dall’euro allora? Forse, ma non lo sapremo mai con certezza. La Grecia è un’economia molto chiusa: esporta non più del 25 per cento di quanto produce contro il 30 per cento dell’Italia e il 45 per cento della Germania.
La svalutazione, anche se non si fosse tradotta tutta in maggiore inflazione, avrebbe aiutato meno che altrove. Le ripercussioni finanziarie sulle banche, sul credito e quindi sull’economia di un default e di un’uscita dall’euro erano imprevedibili. Il pericolo di contagio nel 2010 era altissimo, ricordiamoci i tassi al 6-7 per cento sul debito italiano che pagavamo nel 2011. Quei tassi costrinsero il governo Monti a politiche di austerità urgenti che si tradussero (purtroppo) in un aumento di imposte. Un contagio generalizzato poteva innescare una seconda crisi finanziaria.
Certo dal 2010 ad oggi la Grecia ha pagato caro i suoi errori. Ma un luogo comune (sbagliato) è che la Grecia in questi ultimi anni sia stata soffocata dal peso degli interessi sul debito. Dal 2010 al 2014 la Grecia ha continuato a ricevere dai Paesi europei, dalla Bce e dal Fondo monetario un flusso netto positivo di aiuti, cioè più denaro di quanto dovesse pagarne in interessi sul suo debito estero (Ken Rogoff e Jeremy Bulow, www.vox.eu). Solo quest’anno, dopo che Tsipras ha arrestato il processo di riforme, il flusso netto è diventato negativo. E con esso la crescita. Dopo anni di recessione la Grecia nel 2014 aveva ricominciato a crescere: quest’anno il segno è di nuovo negativo.
Questi sono i numeri. Il resto è ideologia e politica. Se la Grecia geograficamente si trovasse al posto del Portogallo, anziché nel mezzo del Mediterraneo fra Siria e Turchia, sarebbe già fuori dall’euro. Conoscendo bene la geografia politica Tsipras l’ha usata per cercare di ricattare l’Europa. Gli è andata male. Se farà quanto domenica notte si è impegnato a fare è improbabile che il suo governo sopravviva. La Grecia forse sì, se un altro governo ci riuscirà. In quel piano ci sono quasi tutte le riforme che da anni il Paese avrebbe dovuto fare e non ha mai fatto, dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni (il cui ricavato verrà destinato ad un fondo speciale sotto il controllo dei creditori, in modo che i greci non possano spenderlo) alla riforma del sistema fiscale e della giustizia civile. C’è anche la promessa implicita, dei creditori, ad allungare la scadenza del debito e ridurne gli interessi, cioè a tagliarlo significativamente.
Funzionerà tutto questo o tra sei mesi saremo al punto di oggi? Il risultato del referendum del 5 luglio non lascia ben sperare, ma stiamo a vedere.

→  luglio 14, 2015


Articolo collegato di Carlo De Benedetti

Siamo sicuri che quella di cui stiamo parlando da mesi sia la crisi greca? E se fosse la crisi tedesca? Per chi resta convinto che il nostro futuro è più che mai legato al sogno di un’Europa autenticamente unita, è quest’ultima la vera questione che andrebbe messa in primo piano, è l’incapacità di Berlino di porsi al livello della responsabilità alta che la storia europea gli assegna in questo inizio di millennio.
Non sottovaluto le responsabilità della Grecia, con tutte le relative implicazioni di natura economica e politica. Anzi, ritengo che il dovuto rispetto per la storia europea di questo straordinario Paese, non debba impedirci di affermare nel modo più netto che i vari governi che si sono succeduti da quando Atene ha chiesto di entrare nell’Euro (errore grave averla ammessa) si sono dimostrati distrosi. Tutti, senza eccezioni. A parte le menzogne sui conti e i trucchi contabili, l’inesistenza di un sistema fiscale degno di questo nome, un sistema pensionistico troppo generoso rispetto alle risorse del paese, la totale incomprensione delle responsabilità che l’ingresso nell’euro, e ancor prima le grandi trasformazioni dell’economia mondiale, comportavano sono tutte colpe gravi ascrivibili alla classe dirigente greca.
Anche il referendum indetto a sorpresa da Tsipras, oltre ad essere stato ingannevole rispetto ai problemi reali del paese, è stato di fatto un ulteriore provocazione verso l’Europa. La Grecia, del resto, non è “nuova” a questi referendum “sbagliati”: 95 anni fa un’altra consultazione popolare segnò un’analoga impennata di orgoglio nazionale che ebbe conseguenze altrettanto disastrose. Era il 1920 e la Grecia si trovava in guerra con la Turchia. Come scrive Ureneck, l’autore di un bel libro sulla distruzione di Smirne, la disfatta greca cominciò con un morso di scimmia inferto al giovane re greco Alessandro I, mentre passeggiava nel suo giardino. L’infezione che ne seguì portò alla morte del sovrano, poco prima delle elezioni. Si tenne allora un referendum in cui i Greci decisero (con una maggioranza che oggi si direbbe bulgara) di richiamare al trono il padre di Alessandro, Costantino I, che era filo-tedesco (sua moglie era la sorella del Kaiser Guglielmo). Gli alleati americani e inglesi informarono Atene che se Costantino fosse tornato sul trono la Grecia non avrebbe più ricevuto aiuti, così fu, e da allora il paese si avvitò in una crisi ancora peggiore di quella di oggi.
Adesso come allora, e forse come conseguenza di allora, i Greci sono pronti a pagare un prezzo altissimo per riaffermare il loro orgoglio nazionale e la loro sovranità. Ma la crisi greca, che ha origini così lontane, ha palesato la debolezza dell’Unione Europea e, soprattutto, la grave crisi politica e di leadership della Germania. Occasione storica quella che ha la Germania, occasione che qualunque leader politico aspirerebbe ad avere: quella di porsi alla guida della nascita di un verso soggetto politico unitario europeo, uno di quei passaggi che la storia ricorda.
Ma questo sembra non interessare a Berlino, non sembra essere questa l’ambizione di un ceto dirigente chiuso in un pragmatismo del qui ed ora.
La realtà è che in Germania è in corso una dura lotta politica per la successione di Angela Merkel. Una cancelliera che si è dimostrata certamente una negoziatrice determinata e capace di trovare comunque una via d’uscita finale, una buona interprete dei fumi delle birrerie tedesche, ma certo non una leader come la Germania ci ha offerto nel dopoguerra con figure come Adenauer, Schmidt, Kohl. Qui torna in mente il conflitto che ancora attanaglia la Germania e che Thomas Mann aveva evocato nel suo discorso nella prima riunione del parlamento tedesco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In quell’occasione, come tutti ricordano, il grande scrittore auspicò, proprio perché conosceva bene il suo paese, una Germania europea anziché una Europa tedesca. Oggi il vero, aspro, confronto in Germania è proprio su questo tema e vede la contrapposizione tra gli integralisti tedeschi Schaeuble e Weidemann e il vicecancelliere e capo del SPD Gabriel. Con quest’ultimo che ha assunto una posizione che non è certo nel solco del pensiero socialdemocratico tedesco, ma che è solo teso a stringere la morsa sulla Merkel.
Bisogna dare atto alla debole figura politica di Hollande di essersi battuto perché le decisioni assunte dall’Unione Europea non fossero vittime della lotta politica interna tedesca. Un compromesso è stato raggiunto. E nelle prossime settimane si verificherà la sua tenuta, tutt’altro che scontata, per le perduranti tensioni all’interno di entrambi i fronti contrapposti, quello greco e quello dell’eurogruppo. Ma, al di là di come voterà il parlamento greco, è stata inferta un’umiliazione profonda a un paese “orgoglioso”. E, quel che è peggio, la forza delle culture politiche nazionali e l’assenza di una leadership politica europea (l’unico leader europeo resta Mario Draghi) hanno rivelato, ancora una volta, l’estrema fragilità dell’Ue. Per chi come me ha pensato, e continua nonostante tutto a pensare che non esista un’alternativa razionale all’Europa, è una sconfitta. Se non vogliamo più il ripetersi di casi Grecia, se non vogliamo che lo spirito europeo si perda in pratiche di waterboarding (secondo la ormai famosa definizione di un funzionario europeo a proposito dell’incontro Merkel-Tsipras), serve camminare con decisione sulla strada della cessione reciproca di pezzi crescenti di sovranità nazionale, nell’obiettivo di un bene superiore, che è il bene comune dell’Europa.
Serve una leadership politica forte perché ciò avvenga. E ci sarebbe da aspettarsela dal paese oggi più forte, che è anche quello del popolo che ha voluto vedere, con i suoi filosofi, un destino e un senso nella storia degli uomini. L’Europa è il nostro destino. Ma i suoi leader, oggi, sembrano averlo dimenticato, smarriti nello sguardo corto di una difesa pragmatica di una supremazia in fondo inutile e rinunciataria.

→  giugno 26, 2015


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Singolar tenzone fra l’interventista Mucchetti e il liberista Giavazzi sulla politica industriale ai tempi del governo Renzi. Dalla rivoluzione in Cdp al nuovo ruolo dello stato e del mercato

Due giorni fa, nella redazione del Foglio, si è svolto un forum con la partecipazione di Francesco Giavazzi, professore di Economia all’Università Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, e Massimo Mucchetti, senatore del Partito democratico. Il tema è quello della politica industriale del governo di Matteo Renzi, e in particolare dei recenti cambiamenti che stanno investendo la Cassa depositi e prestiti (Cdp). Proprio ieri il Consiglio di amministrazione della Cdp, riunitosi sotto la presidenza di Franco Bassanini, ha convocato l’assemblea in sede straordinaria e ordinaria per l’approvazione di modifiche statutarie concordate dai soci e per l’adozione di decisioni sugli amministratori. L’assemblea è stata convocata per il 10 luglio e il 14 luglio. Alla guida della cassaforte del Tesoro, secondo le indiscrezioni emerse finora, dovrebbero arrivare Claudio Costamagna (presidente) e Fabio Gallia (amministratore delegato).

Su questo e su molto altro si è ragionato a ruota libera tra Giavazzi e Mucchetti. Per il nostro giornale, a moderare, c’era Marco Valerio Lo Prete.

Il Foglio. Il senatore Massimo Mucchetti una volta, su queste colonne, ha definito la Cassa depositi e prestiti (Cdp), come quella “dotazione finanziaria che serve a reagire al Tradimento del Capitale” privato italiano. Il professor Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera, ha ipotizzato che, se è vero che la Cdp può investire solo in aziende sane, allora può fare quello che possono fare i privati, quindi tanto vale privatizzarla. La Cdp, nel 2015, serve ancora?

Mucchetti. La Cassa, in teoria, potrebbe essere liquidata, ma non privatizzata, perché i cinque sesti della sua raccolta sono garantiti dallo Stato. In pratica, credo che serva. Esiste anche in Francia, Germania, Spagna, Polonia, tutti paesi importanti. La Cassa dovrebbe investire, avendo il capitale necessario per farlo, nelle aziende che possono richiedere un supporto di questo genere per le ragioni più svariate.

Faccio un esempio: in Telecom, abbiamo avuto tutte le forme possibili di investimento da parte del settore privato, e il risultato è che la Telecom non ha fatto molto bene. L’Italia ha una infrastruttura debole, l’azienda è molto indebitata e fatica ad andare avanti. Il mio ragionamento non c’entra con il nazionalismo: si può immaginare pure una Telecom italiana che poi si sposa con la Orange francese e con la Deutsche Telekom tedesca, in modo da avere una stazza sufficiente a intavolare un negoziato serio con gli over-the-top; in un caso del genere, avere una presenza di rilievo, anche pubblica, dentro Telecom Italia, servirebbe a sedersi al tavolo con gli altri nelle stesse condizioni. Per dirne una. E Telecom non è un’azienda fallita, ma un’azienda in cui il capitalismo italiano ha fatto fallimento. Dall’altra parte, invece, abbiamo il caso dell’Ilva, dove c’è stato uno choc dovuto a un’emergenza ambientale e a indagini giudiziarie che hanno messo in ginocchio un’azienda altrimenti profittevole.

Senza impiccarsi alla formula del “Tradimento del Capitale italiano”, la mia impressione è che l’Italia abbia un mercato dei capitali povero, per tante ragioni. Preso atto di questo, bisogna cercare di offrire una soluzione pragmatica. Negli ultimi 6-8 anni, tutte le aziende di un qualche rilievo che hanno dovuto affrontare una transizione proprietaria, sono tutte state acquistate da investitori esteri. Non è un male che un investitore estero acquisti un’azienda italiana. Bisogna vedere caso per caso se c’è un progetto industriale, una solidità finanziaria, per dire se è bene o male. Ma se non c’è mai un soggetto italiano che si assume questo rischio, uno si domanda se l’Italia industriale, sulla grande dimensione, è capace o no di fare il suo lavoro.

Giavazzi. Io ho una preoccupazione più generale: che l’operazione del governo Renzi sulla Cassa depositi e prestiti abbia lo sguardo troppo breve e rivolto soprattutto a Ilva oppure a un’altra crisi come quella di Whirlpool, cioè che si voglia disporre di uno strumento affinchè lo Stato possa intervenire in queste situazioni. Il rischio quindi è che si faccia un passo dalla valenza istituzionale, cambiando lo statuto della Cdp, con l’obiettivo di risolvere una vicenda contingente. A mio parere bisogna invece partire da un’idea di quello che si pensa debba essere il ruolo dello Stato nell’economia.

Un economista si chiede: esistono dei “fallimenti del mercato”? Perché, se non esiste un fallimento del mercato, e il mercato funziona, allora non c’è bisogno di intervenire. Oggi, di fallimenti del mercato ne esistono molti, quindi ci sono molte occasioni per un intervento dello Stato nell’economia. Ma c’è un passo successivo: la maggior parte dei fallimenti del mercato si possono correggere con la regolamentazione, non con la proprietà pubblica. Le reti – quelle elettriche, del gas, la stessa banda larga – creano un’esternalità e devono essere ben regolate, perché c’è un problema di servizio universale e la necessità che non si trasformino in rendite monopolistiche per i privati che le posseggono. Ciò richiede autorità di regolamentazione forti. Non è richiesta la proprietà pubblica; la rete può essere tutta del Fondo sovrano di Singapore, ma se io ho una regolamentazione forte non c’è alcun problema. Quindi l’idea che lo Stato debba essere presente con la proprietà pubblica delle reti non è il modo corretto per correggere l’esternalità. E così in altri campi. Il problema italiano è che abbiamo una regolamentazione debole e oscillante. Il caso di Autostrade è illuminate; abbiamo una regolamentazione che spesso cambia in corso d’opera; poi siccome cambiare le regole “in corsa” danneggia i concessionari, lo Stato dice “è vero che vi ho danneggiato, quindi vi compenso allungando la concessione di altri dieci anni senza metterla a gara”, e così si finisce per creare una rendita inappropriata. La regolamentazione dev’essere forte e non volatile.

Esistono situazioni in cui la proprietà pubblica è giustificata? Secondo me solo in casi come quello di Chrysler nel 2008. Un’azienda che versava in una crisi gravissima, in un momento in cui non esistevano acquirenti privati; perdere quell’azienda avrebbe voluto dire perdere un capitale di conoscenze non facilmente recuperabile. Però stiamo attenti a non generalizzare. La crisi di Chrysler è avvenuta nel momento più grave della crisi finanziaria peggiore degli ultimi 80 anni, non capita tutti i giorni. In quel caso ci possono essere argomenti per un intervento pubblico temporaneo nella proprietà. Ma non tutte le crisi sono come quelle di Chrysler. Inoltre il governo americano, entrato in Chrysler nel dicembre 2008, ha cominciato a vendere azioni nel giugno 2009, e ne è completamente uscito nel 2011. Devono esserci vincoli temporali precisi su quanto può durare la presenza pubblica nel capitale, altrimenti lo Stato entra e ci resta per sempre; negli Stati Uniti non ce n’è bisogno, vista la cultura del paese, ma da noi occorre stare molto attenti. E per Ilva: c’è anche qui bisogno dell’intervento pubblico? Io ragiono così: in Italia non possediamo la materia prima, cioè il minerale di ferro, per il quale siamo dipendenti dalle importazioni. Mi chiedo: che differenza c’è tra importare minerale di ferro e importare il tondino o il laminato già fatto? L’idea che devi produrre qua la lamiera non la capisco. Non vedo il problema se il laminato viene dal Venezuela dove c’è la materia prima, e lo si trasporta direttamente in Europa . Produrlo qui non mi pare fondamentale. In giro per il mondo c’è un grande eccesso di capacità di prodotto laminato. Poi ci sono i problemi occupazionali e di altro tipo, ma queste sono questioni da affrontare nel breve periodo; se è soltanto questo il problema, allestiamo una cassintegrazione speciale e si può chiudere l’azienda.

Due precisazioni, poi. Sul fatto che una Cdp c’è anche in altri paesi, come la Germania, no per favore; se altri fanno stupidaggini, non è una buona idea copiarle. E a proposito di Telecom: noi stiamo in un mondo in cui il telefono fisso lo useremo sempre meno; a proposito dei cellulari, le privatizzazioni hanno generato un fenomeno meraviglioso, il nostro è uno dei primi paesi per utilizzo di cellulari, con grande concorrenza. Per la banda larga, il doppino di rame ha una capacità fino a 30 Mbps; davvero c’è bisogno di andare a 100 Mbps? Io non sono mica sicuro. Si dice che lo Stato in Italia ci metterà 7 miliardi di euro di fondi europei o giù di lì, ma è veramente una priorità consentire ai ragazzini di fare lo streaming delle partite di calcio? Perché tutto il resto si può fare anche con il doppino di rame, incluso l’uso che della banda fa la gran parte delle imprese. Poi ci sono anche aree del paese dove nemmeno il doppino di rame arriva, e quel problema va risolto. Ma un grande investimento in banda larga non sono sicuro sia la priorità oggi per questo paese con i problemi che ha.

Il Foglio. Per il professor Giavazzi non è un problema che non si facciano avanti capitali italiani nei momenti di transizione proprietaria di un’impresa. Nemmeno sull’Ilva il professore sostiene che si possa ipotizzare lo “scenario Chrysler”, con la giustificazione di un intervento straordinario della Cassa depositi e prestiti.

Mucchetti. Vorrei ricordare alcuni dati di storia americana. La Chrysler è stata salvata due o tre volte dal governo americano, anche quando era fallita da sola e le altre case automobilistiche andavano bene: all’inizio degli anni 90, anche la Fiat venne coinvolta in un tentativo di salvataggio che poi non andò avanti perché Washington preferì sostenere la Chrysler stand-alone. Ricordo che accanto alla Chrysler è stato salvato, con un intervento pure più invasivo, anche il gruppo General Motors che contende a Toyota e Volkswagen il posto di primo gruppo mondiale. Ricordo che a tutt’oggi nel Regno Unito lo Stato è ancora dentro le principali banche. Questo per dire non che lo Stato è bello o brutto, ma che queste cose vanno viste con grande pragmatismo. Se l’Italia è un paese non più in grado di esprimere proprietà italiane in tutte le grandi aziende che si trovano davanti a questo problema, sia che vadano bene sia che non vadano bene, credo che questo sia un fallimento del mercato italiano, cui dobbiamo cercare di dare una risposta.

Per quanto riguarda l’Ilva, il discorso che fa Giavazzi è interessante, analogo nel merito a quello che fa il Movimento 5 Stelle. I clienti dell’Ilva, che sono in buona misura le grandi manifatture italiane, dall’auto agli elettrodomestici passando per il mobilio, ritengono però che l’Ilva faccia molto comodo perché, per le sue caratteristiche specifiche, quest’azienda di Taranto, di fatto, fa il prezzo dei laminati in Europa. Inoltre non ci sono soltanto i francesi e i tedeschi che mantengono una rilevante attività siderurgica, ma anche gli inglesi, gli spagnoli e perfino gli olandesi… Cioè in tutti i paesi dove esiste una forte manifattura meccanica e affini, esiste anche una siderurgia. Anticamente la siderurgia aveva un significato strategico-militare, perché con l’acciaio si facevano le corazzate e i cannoni; oggi questo per fortuna è un elemento del tutto minore e non rilevante. Ma il tema di dire “importiamo le lamiere” è relativo; già oggi un po’ le importiamo e un po’ le esportiamo; è un’attività come un’altra, ed è un’attività che, senza lo choc ultimo, ha generato profitti ingenti, perciò non capisco perché non dovremmo continuare a farla, avendo anche questo effetto “positivo” nella formazione dei prezzi dei prodotti siderurgici in Italia.

Detto questo, io vedo oggi altre aziende multinazionali, che hanno il quartier generale in Italia e vasti siti produttivi e commerciali all’estero, con proprietà già in vendita o potenzialmente in vendita come Saipem, Prysmian, Magneti-Marelli, Pirelli. Sarebbe poco utile per noi se trasferissero il proprio quartier generale all’estero. Perché il quartier generale è il luogo in cui si formano le professionalità più raffinate e meglio pagate. L’Italia è povera di grandi imprese; queste sono grandi imprese che hanno proprietà variamente instabili: la Saipem è dell’Eni ma l’Eni vuole deconsolidarla, ecco un campo in cui il Fondo strategico potrebbe intervenire; Prysmian è in mano ai fondi di private equity che hanno lavorato bene ma, come tutti i fondi del genere, sono destinati a vendere; Magneti-Marelli fa parte del gruppo Fiat, io mi preoccuperei che, nelle grandi ristrutturazioni che Fiat andrà a fare, questo gruppo della componentistica possa continuare a svilupparsi per quello che oggi è e può diventare. Su Telecom, vorrei ricordare che la Tim la fecero due grandi boiardi di stato, uno si chiamava Ernesto Pascale e l’altro Vito Gamberale, e poi è andata avanti. Oggi constato che alcuni dei paesi più efficienti e progrediti del pianeta – il Giappone, la Corea del Sud e Singapore – già alla metà del primo decennio del secolo hanno cablato l’intero loro territorio e connesso in banda larga e ultra larga l’intera popolazione. Essendo modesto, in queste cose tengo a copiare; negli altri paesi europei, d’altra parte, la banda larga è molto più diffusa che da noi perché nel tempo, alle telecomunicazioni classiche, avevano affiancato la televisione via cavo, ed è banda anche quella, perciò hanno infrastrutture molto più potenti delle nostre grazie al fatto di non aver avuto il duopolio Rai-Mediaset che in Italia ha imposto di non avere la tv via cavo. Tv via cavo che era alla base del Piano Socrate di Pascale, bloccato in vista della privatizzazione. Per dire che non c’è il pubblico che è buono o cattivo sempre, e il privato che è buono o cattivo sempre. Volta per volta, caso per caso, bisogna essere in grado di fare gli interventi utili.

Il Foglio. Mentre il professor Giavazzi chiede di fissare dei criteri quanto più precisi per limitare il campo degli interventi, criteri così stringenti che forse nemmeno l’Ilva rientrerebbe tra questi, quali sono invece secondo Mucchetti i criteri che la Cdp dovrebbe seguire e che il governo Renzi dovrebbe fissare, visto che le risorse della stessa istituzione sono ovviamente finite?

Mucchetti. Il criterio è indicato nel decreto legge che ha costituito la Cdp Spa, cioè “le aziende di rilevanza nazionale”. Stabilire che ci sono settori “migliori di altri” è assai superficiale. Negli anni 70, si diceva che l’auto era superata, era un prodotto maturo, poi oggi le auto si producono ancora in tutto il mondo. Esistono i settori che hanno un mercato e quelli che non ce l’hanno; esistono le aziende capaci e quelle incapaci; io credo che l’emergenza del sistema industriale italiano sia che a fronte di un sistema distrettuale e di un mondo della media e medio-grande impresa ottimi, abbiamo un sistema di grande impresa debole per numero e capacità prospettiche. Il Fondo strategico dovrebbe, laddove il mercato dei capitali faccia intravvedere delle debolezze, intervenire in maniera intelligente senza aspettare i tracolli. Lei dice: con quali soldi? Allora la Cassa oggi non ha pronti i denari per fare chissà che cosa. Ricordo che ha 30 miliardi di partecipazioni e 21 miliardi di mezzi propri, già questo dà il senso di uno squilibrio. Quindi la Cassa deve essere ricapitalizzata, se vuole adempiere a una funzione nuova e più ampia.

Mucchetti. Per ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti (Cdp) esistono svariati modi, non necessariamente l’aumento di capitale che mi sembra improprio; per esempio, nel 2003, lo stato conferì alcune partecipazioni, ora potrebbe conferire altri asset vendibili in modo che la Cassa faccia del denaro; oppure riformulando il Testo unico della finanza, aggiornandolo alle nuove esigenze, migliorando lo strumento delle azioni a voto plurimo e quant’altro, lo stato potrebbe anche cedere buona parte delle attuali partecipazioni, continuando a esercitare la capacità di orientare l’assemblea degli azionisti.

A proposito dei tempi da rispettare negli interventi della Cdp, infine, dico che sono un criterio utile ma che non può essere granitico. Faccio un esempio. La ragione per cui l’Ilva è invendibile in questo momento, è che ha dei contenziosi con la magistratura. Fintanto che tali contenziosi non saranno risolti, non ci sarà un privato interessato. Quindi come faccio a dire “due anni e stop”? La scelta va lasciata alla forte volontà politica di riprivatizzare appena utile e possibile.

Il Foglio. Professor Giavazzi, qui ci si preoccupa addirittura di trovare altre risorse per la Cdp…

Giavazzi. Due precisazioni. A proposito del triplo salvataggio di Chrysler. Come detto prima a proposito dell’esistenza di una Cassa pure in Francia e Germania, il fatto che gli Stati Uniti facciano degli errori non vuol dire che li dobbiamo ripetere. Io credo che la vicenda Chrysler del 2008 sia un fatto abbastanza unico.

A proposito dell’Ilva: cos’è questa storia della specificità delle lamiere dell’Ilva? Se c’è un mercato mondiale dove si fanno le lamiere, i produttori che usano prodotti siderurgici li compreranno in giro per il mondo. Tanto più se riteniamo che l’impianto di Taranto generi un problema ambientale insormontabile, chiudiamolo e compriamo il laminato in Venezuela.

Sul voto plurimo. Quest’ultimo ingessa le imprese, le rende meno contendibili perché vuol dire che chi è lì da più tempo ha più diritti di voto di chi è arrivato per ultimo. La scarsa contendibilità delle nostre imprese è uno dei motivi per cui in questo paese c’è poca produttività. In un recente rapporto del Fondo monetario internazionale su quanto aumenterebbe la produttività in Italia se capitale e lavoro potessero essere riallocati lì dove sono più efficienti, e sul lavoro questo inizia a essere consentito con il Jobs Act, si calcola di quanto crescerebbe il reddito se il capitale fosse riallocato in modo più efficiente. Se ingessiamo le imprese, il capitale non si può riallocare, e spesso finiscono per essere ingessate le imprese che sono gestite male. Negli Stati Uniti, il grande boom della produttività alla metà degli anni 90 non a caso si verificò dopo che, alla fine degli anni 80, quei famosi signori che hanno ispirato “Barbarians at the gate”, hanno comprato le imprese, le hanno tagliate con le forbici a pezzettini e le hanno riorganizzate in modo più efficiente; è lì che è nato il grande boom di produttività americana; senza quella riallocazione del capitale, l’Information technology non sarebbe stata di per sé sufficiente perché le imprese non erano adatte a recepirne i benefici.

Per tornare al nostro paese: non c’è alcun teorema economico secondo il quale le imprese debbono essere grandi. Il paese deve fare quello che sa fare. Siamo un paese con la bilancia commerciale in attivo; il che vuol dire che ci sono abbastanza imprese che esportano, tipicamente quelle piccole e medie, per pagare il petrolio che importiamo e tutto il resto. Un paese può crescere con molta vitalità nelle piccole imprese. Allora – si dice – non potrà essere fatta ricerca. Ma per fare ricerca occorrono buone università, e lì bisognerà investire di più, anche qui cominciando dalle regole prima che dal denaro. Contribuisce di più alla ricerca applicata italiana l’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova che non tutte le grandi imprese. Quanto ricerca ha fatto la Fiat negli ultimi sessant’anni?

Un’ultima cosa, a proposito delle possibilità d’intervento del Fondo strategico. Io ricordo che dieci anni fa il presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, commissionò un rapporto a Jean-Louis Beffa, un grande manager francese, un progetto in cui Beffa faceva l’elenco dei circa 20 settori in cui lo Stato francese doveva investire. Perché il signor Beffa? E’ il mercato che deve decidere. Altrimenti succede come con i pannelli solari in Italia. Li abbiamo sussidiati, ci abbiamo riempito il paese, con alcuni risultati: una rendita che ai contribuenti costa circa 10 miliardi di euro l’anno ed è difficile da smantellare; abbiamo riempito i tetti dei capannoni di questi pannelli, senza preoccuparci di chi dovrà occuparsi dello smaltimento; mentre oggi la tecnologia è già cambiata e in America già esistono start up che utilizzano delle vernici con capacità di catturare l’energia solare e costi e impatto ambientale molto inferiori. Quindi c’è anche il rischio di fare investimenti che sono sbagliati.

La banda larga, per esempio: tra dieci anni potremmo scoprire che, con nuovi telefoni cellulari, si navigherà dieci volte più velocemente. Sarei un po’ cauto a prevedere gli sviluppi tecnologici.

Il Foglio. Un punto d’accordo mi pare ci possa essere. Entrambi ritenete che, in un momento così importante di cambiamento per la Cdp, il governo Renzi dovrebbe essere più chiaro sul mandato dei nuovi manager.

Mucchetti. In questo sono d’accordissimo con Giavazzi. Il governo deve chiarire quali sono le finalità di questo cambio della guardia, per poterne valutare la congruità. Quando si cambia a un anno dalla scadenza un vertice aziendale del quale non si dice altro che bene, chiarire il futuro è un obbligo. Aggiungo che le modalità del cambio della guardia alla Cdp non sono state le più eleganti. Si poteva procedere in maniera più rispettosa del pluralismo dell’azionariato della Cassa e della dignità professionale delle persone.

Ma sono d’accordo anche su un altro punto sollevato da Giavazzi: la questione degli incentivi. Gli incentivi al fotovoltaico sono di circa 6,7 miliardi all’anno, c’è un tetto fissato per legge, ma è un incentivo che dura 20 anni; sono altrettanto rilevanti gli incentivi alle altre fonti non fotovoltaiche; il totale, l’anno scorso, è stato di 14,7 miliardi. Moltiplicatelo nel tempo. Stiamo parlando di un sussidio che è un multiplo dei fondi di dotazione, a valore attualizzato, dati dallo stato dal 1933 (anno della fondazione dell’Iri) al 2002 (anno di liquidazione dell’Iri) non solo all’Iri ma a tutti gli enti pubblici economici: quindi l’Iri, l’Eni, l’Enel, ma anche le malfamate Egam ed Efim, la Gepi… Tutto questo complesso è costato meno dei sussidi alle rinnovabili. Questo per dire che un intervento serio, mirato, della Cdp, andando a affrontare le difficoltà dove ci sono, costa infinitamente meno di certi incentivi erga omnes, e ha ritorni sull’economia reale infinitamente superiori.

Giavazzi sostiene che un paese può vivere anche senza grandi imprese. Beh, l’Italia più o meno ci sta arrivando. Però è abbastanza un classico che dalle grandi imprese, per esempio, originino poi i piccoli imprenditori, cioè ingegneri, manager che si mettono in proprio, oltre a quelli che nascono dal nulla certo. Dalle grandi imprese c’è una importante ricaduta tecnologica. Nelle grandi imprese si crea pure lavoro manageriale, servizi a valore aggiunto, che nelle piccole imprese non ci sono. Quindi un paese, senza grandi imprese, è un paese debole, che arriva dopo. Quando l’Italia va in Cina, in prima battuta ci va con le sue grandi imprese; solo che la Germania ci va con 200 grandi imprese, noi ci andiamo con 20! Io sono contro la retorica anti-piccoli che c’è in molta accademica italiana, preferisco in questo campo l’ufficio studi di Mediobanca a quello, ottimo per tante altre cose, della Banca d’Italia. Però, allo stesso tempo, considero un valore le grandi imprese attuali, e quelle che potranno venire domani.

Il Foglio. La Cdp quali “grandi imprese” italiane ha creato o favorito finora nei suoi quasi 15 anni di vita? Esiste cioè – per parafrasare il titolo del celebre libro di Mariana Mazzucato, “Lo Stato innovatore” – una Cdp innovatrice? E se il governo ha fatto finora intendere, quantomeno, di volere una Cdp più interventista nell’economia, perché lei, senatore Mucchetti, è scontento di questa scelta?

Mucchetti. La Cdp non è lo Stato cui fa riferimento Mariana. Del resto, ha cominciato ad assumere partecipazioni dal 2003, non da molto, e non è suo compito creare imprese. E’ suo compito sostenerne lo sviluppo. Poi certo, a proposito del Fondo strategico, credo di poter fare considerazioni critiche analoghe a quelle del professor Giavazzi. Ma il punto è che la Cdp finora non ha avuto un mandato chiaro, vedi il caso delle due Ansaldo, dentro nell’Energia e fuori da Sts, ha vincoli statutari, regole Eurostat, quindi il rinnovamento in Cdp va fatto in modo ponderato e non impressionistico.

Il Foglio. Come valutate le professionalità dei nuovi manager di cui si fanno i nomi, Claudio Costamagna per la presidenza e Fabio Gallia per il ruolo di amministratore delegato?

Mucchetti. Sono entrambi banchieri di ottima reputazione. Non so cosa voglia fare Renzi della Cdp. Certo, se seguisse la linea di condotta che ho provato a descrivere, ci vorrebbero anche altre competenze. Quella finanziaria va benissimo, ma poi serve competenza giuridica per fare le cose giuste in Europa; e poi competenza industriale perché, quando si tratta di stabilire dove andare a mettere dei quattrini, bisogna essere in grado di capire i piani industriali. Un tempo c’erano l’Imi e Mediobanca. Oggi non so.

Giavazzi. Sui sussidi con il senatore Mucchetti siamo d’accordo. Io per il governo Monti stilai un rapporto nel quale suggerivo di azzerarli; ovviamente è stato dimenticato. La differenza tra di noi è che io userei le risorse liberate dai sussidi per abbassare le tasse, una cosa molto più importante che non dare allo stato la possibilità di decidere in quali progetti investire, progetti decisi da burocrati o da politici che comunque, se sbagliano, non rischiano nulla. Sull’iPhone, visto che avete citato la Mazzucato, smettiamola di dire stupidaggini. Il fatto che nel 1945 il Pentagono abbia investito in progetti che sono poi diventati Internet, mi sembra avere una relazione assai debole con quanto ha fatto Steve Jobs.

Sul perché è stato fatto questo cambio repentino in Cdp. Io penso che, dal punto di vista istituzionale, un governo che è azionista quasi totalitario della Cdp, può fare dunque quel che vuole, però deve spiegare con trasparenza quale è il suo progetto. Ho un dubbio che in particolare vorrei fosse fugato: che tutta questa operazione è stata fatta solo perché l’attuale amministratore delegato della Cdp, Giovanni Gorno Tempini, con l’appoggio delle Fondazioni, ha detto “no” all’intervento Nell’Ilva, che poi si è riusciti comunque a fare facendo i salti mortali. Spero invece ci sia un progetto generale.

Se io fossi al posto di Renzi, mi chiederei: cos’è che oggi manca più di tutto all’Italia? C’è scarsa concorrenza troppo poche liberalizzazioni. E’ difficile liberalizzare perché quando liberalizzi porti via delle rendite e giustamente il tassista che ha comprato la licenza ieri dice: perché ci devo perdere i 100 mila euro che ho speso? Quindi bisogna compensare chi perde delle rendite. Usiamo i soldi della Cdp per creare un fondo per compensare chi perde la propria rendita, e così liberalizziamo il paese. Questo avrebbe un impatto di un ordine di grandezza superiore a qualsiasi intervento nell’impresa X o Y, o dal salvataggio dell’Ilva.

Sulle competenze dei nuovi vertici, io sono un ingegnere e attorno al tavolo vorrei solo ingegneri! Però noto che molti manager italiani del settore privato, incluso Andrea Guerra, hanno sviluppato una visione per cui i privati sono sostanzialmente degli incapaci e ci vuole lo Stato. Sulla prima parte possiamo essere pure d’accordo, ma sul fatto che ci voglia lo Stato… Quindi bisogna stare attenti.

Mucchetti. Non liquiderei così la Mazzucato. L’elenco dei risultati della ricerca pubblica confluiti nell’Iphone sono veramente tanti e non tutti remoti. Ma sono d’accordo anche io sul fatto che liberalizzare sia un bene. E tuttavia le aziende di cui abbiamo parlato prima operano su mercati globali in cui tutto è già liberalizzato, cioè hanno duemila dipendenti in Italia e 30 mila all’estero. La manifattura è super liberalizzata, non esistono vincoli.

Il Foglio. Proprio a partire da una valutazione del curriculum vitae di Costamagna, è circolata anche l’ipotesi che la Cdp possa essere usata per intervenire sul dossier bad bank e puntellare in qualche modo gli istituti di credito italiani.

Mucchetti. Premesso che il governo sta adottando misure per accelerare il recupero dei pegni e per la deduzione fiscale delle sofferenze, sulla bad bank abbiamo perso un sacco di tempo. Me la cavo con una battuta: si può fare, e si può fare anche senza regalare denari ai banchieri. Come? Il veicolo che acquista i crediti deteriorati dal sistema bancario pagherà un prezzo, che sarà una frazione del valore facciale di questi crediti, ma siccome non sarà stracciato per non affondare le banche, sarà pure parzialmente assistito da una garanzia. Cos’è la garanzia? Un quid che viene messo a copertura del rischio che gli incassi del recupero dei crediti non ripaghino il prezzo. Questa garanzia la potrebbe mettere la Cassa ma dovrebbe essere pagata dalle banche che diluirebbero così nel tempo l’eventuale perdita. La Cassa potrebbe anche avere un ruolo nel veicolo che dovrebbe avere anche la presenza delle banche beneficiarie e di investitori privati specializzati. Costruire simili congegni, a ben vedere, è il mestiere di Costamagna.

Giavazzi. Anche in questo caso, a dire il vero, c’è un mercato. Ci sono investitori specializzati nell’acquistare pacchetti di crediti incagliati o a vario livello di rischio d’insolvenza, e nel rivenderli. Perché oggi le banche italiane non ne vendono a sufficienza? Perché in questo paese escutere una garanzia richiede tempi biblici; se il piccolo imprenditore ha messo la sua casa a garanzia del credito, quando diventa insolvente è come se la garanzia non ci fosse, perché quasi 10 anni per un investitore internazionale sono troppi. Occorre dunque cambiare le regole e far sì che l’escussione delle garanzie avvenga come nel resto dell’Europa, che i tempi siano 1 o 2 anni. Altrimenti metteremmo una pezza a questo problema, dopodiché con la prossima crisi saremo punto e daccapo.

C’è invece un fallimento del mercato – e lì una garanzia pubblica sarebbe importante – dovuto al fatto che abbiamo un sistema bancario vecchio che non presta senza garanzie, che non è capace o abituato a finanziare le idee; ci sono invece bravissimi imprenditori che non hanno le garanzie sufficienti, almeno dal punto di vista di queste banche, e che quindi non riescono a realizzare i loro progetti; in questo caso una garanzia pubblica servirebbe; questo è un fallimento del mercato che non si cambia nel giro di pochi giorni, perciò un intervento pubblico di questo tipo – ripeto, una garanzia, che non ha nulla a che vedere con l’ingresso di fondi strategici pubblici in queste imprese – per le piccole e medie imprese sarebbe giustificato.

→  giugno 25, 2015


articolo collegato di Pietro Reichlin

Lo spettro della Grexit ha il merito di avere acceso un dibattito ampio sul destino politico ed economico dell’Europa. Siamo usciti a fatica dalle secche di una controversia tra specialisti sui pro e i contro delle politiche di austerità fiscale e sulla misura dei moltiplicatori della spesa pubblica. Il dibattito è sterile perché non tiene conto della situazione concreta in cui si trova la Grecia e l’Europa. Non si può ragionevolmente pensare che le politiche di rientro da un disavanzo (fiscale e commerciale) eccessivo possano avere effetti positivi sul Pil del paese, ma è altrettanto vero che una politica espansiva avrebbe l’effetto di riportare a livelli insostenibili il disavanzo commerciale e il debito pubblico greco, riaccendendo la speculazione contro i debiti sovrani. Secondo il gergo corrente, la Grecia non ha «spazio fiscale»: ogni euro di spesa pubblica in più va cercato fuori dal mercato, cioè presso i contribuenti europei ed è, di fatto, un finanziamento a fondo perduto. La crisi economica della Grecia non si risolverà in tempi brevi e qualunque accordo con l’Europa sarà solo un progresso temporaneo.
Data questa necessaria premessa, quali insegnamenti possiamo trarre dal dramma greco? Secondo un’opinione comune, la vicenda dimostra che l’Europa ha bisogno di istituire meccanismi più robusti di solidarietà e aumentare il bilancio federale per consentire maggiori aiuti ai paesi in difficoltà. Secondo altri, la vicenda dimostra che l’Europa ha finora scelto di difendere i creditori e le banche a discapito dei popoli e della democrazia. A me sembra che queste tesi siano, in buona parte, infondate. In primo luogo, vale ricordare che, dal 2010, la Grecia ha ricevuto dalle istituzioni internazionali risorse ingenti (in rapporto a qualunque esperienza passata di crisi dei debiti sovrani), e che essa è tuttora ampiamente sussidiata tramite tassi d’interesse artificiosamente bassi, liquidità emergenziale della Bce, fondi strutturali e ulteriori promesse di allungamento delle scadenze. Il fatto che tutto ciò non sia bastato ha molto a che fare con i problemi strutturali dell’economia greca, la cui soluzione richiede tempi lunghi e sacrifici. Non si capisce, inoltre, perché, come spesso si dice, la vicenda sia il sintomo di un “deficit democratico”. Se le politiche proposte dal governo greco si basano sul denaro dei contribuenti degli altri paesi europei, è logico che questi ultimi abbiano voce in capitolo. A scanso di equivoci, non intendo negare che l’Europa abbia bisogno di meccanismi di assicurazione più estesi per risolvere crisi nazionali. Questi ultimi sono necessari per fronteggiare problemi di natura temporanea e crisi di liquidità, ma non sono risolutivi di fronte a problemi fiscali di carattere strutturale, cioè legati a difetti istituzionali e di lunga durata (evasione fiscale, squilibri nel sistema previdenziale, bassa partecipazione al lavoro, ecc.) e all’indisponibilità dei governi di fare scelte politicamente costose. Se anche avessimo un bilancio federale ampio e gli strumenti adatti per correggere le crisi di liquidità degli Stati, il dramma della Grexit sarebbe esattamente dov’è ora (come ha sostenuto recentemente su questo giornale Franco Debenedetti).
È paradossale che chi sostiene le ragioni del governo greco sia anche sostenitore di una maggiore integrazione federale. Le federazioni sopravvivono solo se riescono a risolvere il rischio morale legato alla coesistenza di garanzie a livello centrale e decentramento del potere di spesa a livello sub-nazionale (che Rodden ha definito “il paradosso di Hamilton”). Per risolvere tale problema c’è bisogno di maggiore (e non minore) disciplina fiscale e più vincoli sulle deliberazioni democratiche a livello locale. D’altra parte, l’inopportunità della disciplina fiscale è proprio il primo punto del programma elettorale di Syriza, secondo cui l’austerità è l’origine di tutti i mali. È vero che l’austerità fiscale non aiuta a uscire dalla crisi, ma l’idea che i debiti si ripagano da soli è una strada che porta all’uscita dall’euro. D’altra parte, nessun meccanismo istituzionale può risolvere completamente il paradosso di Hamilton. Serve una forte reciproca fiducia tra gli stati membri, una visione comune ragionevolmente condivisa e la necessità che i governi nazionali siano parzialmente vincolati alle promesse dei governi precedenti. Il caso greco ha molto da insegnare su questo piano. Syriza ha vinto le elezioni anche perché ha promesso di rinnegare gli accordi sottoscritti dal governo Samaras e rinegoziare gli accordi con la Troika minacciando l’uscita dall’Euro. Il fatto che una rinegoziazione fosse opportuna o che il governo Samaras fosse incapace non cancella la natura del problema politico: chi garantisce che un eventuale accordo europeo con Syriza non possa essere rinnegato nel futuro? Ora una parte di Syriza preferisce andare alle elezioni anticipate piuttosto che accettare un compromesso che verrebbe votato dai partiti moderati del parlamento greco. Il costo di perdere la credibilità politica è maggiore del vantaggio di salvare il paese? Com’è stato detto giustamente da alcuni commentatori, la ragione per cui il negoziato è così difficile è che l’Eurogruppo e il Fmi non hanno fiducia nei confronti del governo greco. Forse è un atteggiamento sbagliato, ma senza questa fiducia la costruzione di un’Europa integrata non potrà andare avanti.

→  giugno 24, 2015


articolo collegato di Carlo De Benedetti

Ragionando in termini finanziari il problema dell’Europa con la Grecia è uno solo: «non dovevate farla entrare». Difficile dare torto a uno come Lloyd Blankfein, il ceo di Goldman Sachs, uno che solo nell’investment banking mobilita 1,6 miliardi di dollari all’anno. Quando un mese fa l’ho incontrato a New York la nostra discussione è andata, direi naturalmente, su quello che entrambi consideravamo il problema dei problemi: un’Europa che non solo non riesce e fare passi avanti, ma ne sta facendo più di uno indietro. A cominciare proprio dalla Grecia.

In termini finanziari Lloyd ha senza dubbio ragione. Nessuna unione monetaria può reggere su differenze così macroscopiche tra economie nazionali. La Grecia, al di là della falsificazione dei parametri sull’indebitamento, non era in grado di stare insieme alla Germania nella stessa moneta.

E a nulla potevano servire i numeri e i numeretti, i parametri e vincoli, dietro ai quali si è voluto nascondere questa realtà. Oggi le Borse festeggiano un possibile accordo, ma tutta la questione greca – come sottolineava oggi Gideon Rachman sul Financial Times – è un lose-lose qualsiasi sia l’esito della trattativa perché le premesse sono sbagliate.
L’Europa finanziaria, l’Europa dei numeri, è un dead man walking, un brutto sogno che non avremmo mai dovuto concepire. E non ce ne tireremo fuori con altri numeri, altri vincoli, altre regolette. L’Europa esiste, ed è un grande progetto per il futuro, se torniamo a considerarla prima di tutto una comunità di valori e di cultura. E in questo contesto la Grecia è un pilastro del nostro futuro comune, il fondamento stesso – indispensabile – dell’Europa. Ma allora va cambiato completamente il paradigma. Va preso atto del fallimento del disegno a trazione tedesca che da 25 anni produce solo danni. Siamo il continente che cresce meno in tutto il globo, conosciamo una disoccupazione che mai avevamo avuto, demograficamente arretriamo e, soprattutto, ogni giorno vediamo crescere al nostro interno le forze distruttive disgregatrici del populismo anti-europeista e razzista.

È vero, c’è stata la crisi finanziaria. Ma come abbiamo risposto? L’epicentro della crisi c’è stato negli Stati Uniti, loro inizialmente ne hanno vissuto l’impatto più drammatico, ma hanno reagito subito. Chi ha sbagliato ha pagato e si è fatto da parte. Le banche sono state nazionalizzate e poi rimesse sul mercato. La Banca federale non ha mai smesso di pompare liquidità nel sistema. In pochi anni l’economia è tornata a girare e a crescere, la disoccupazione è scesa dal 12 al 5,5 per cento.

È vero, c’è stata la crisi finanziaria. Ma come abbiamo risposto? L’epicentro della crisi c’è stato negli Stati Uniti, loro inizialmente ne hanno vissuto l’impatto più drammatico, ma hanno reagito subito. Chi ha sbagliato ha pagato e si è fatto da parte. Le banche sono state nazionalizzate e poi rimesse sul mercato. La Banca federale non ha mai smesso di pompare liquidità nel sistema. In pochi anni l’economia è tornata a girare e a crescere, la disoccupazione è scesa dal 12 al 5,5 per cento. Intanto abbiamo il record di produzione di progetti per la “nuova Europa”. Pieni sempre di numeri, di parametri, di regole. Avevamo provato a darci una Costituzione e l’avevamo fatta di 370 pagine. Un orrore. Se poi abbiamo provato ad essere ambiziosi, abbiamo prodotto il libro dei sogni che si chiama Lisbona: tanti obiettivi meritori senza una road map che fosse minimamente credibile.

E così siamo qua. Siamo qua a vedere crescere in tutta Europa l’onda dei partiti della rabbia e della protesta. In Francia, in Spagna, in Italia (da noi ce ne concediamo addirittura due), in Grecia. È con vero dolore che ho visto raddoppiare i consensi delle forze anti-europeiste anche in Danimarca, un Paese che amo da sempre, per il suo spirito di libertà, tolleranza, apertura, un Paese anche ben governato. Ma fino a quando la regola dell’Europa sarà quella dei vincoli e dei parametri numerici andrà così.

Anche sulla questione immigrati abbiamo risposto con la stessa logica, con lo stesso stile: lentamente, impiccati dalla mancanza di una policy comune sull’immigrazione e sull’asilo. Secondo le Nazioni Unite i rifugiati nel mondo del 2014 sono stati 59,5 milioni, niente di simile è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Una situazione eccezionale che richiederebbe risposte eccezionali. Le soluzioni esistono (così dicono gli esperti), ma occorre cambiare il linguaggio politico e di conseguenza è necessario coraggio e visione di lungo termine. Come ricorda Silvia Kaufmann, i 28 capi di Stato e di Governo che si incontreranno questa settimana a Bruxelles dovrebbero avere in mente un precedente tragico: la conferenza di Evian del luglio 1938. Convocata dal Presidente Roosevelt, aveva lo scopo di trovare una soluzione per le centinaia di migliaia di ebrei tedeschi e austriaci disperati dopo che Hitler li aveva espulsi. La conclusione della conferenza fu una catastrofe: né l’Europa, né il Nord America, né l’Australia accettarono di dare asilo a numeri significativi di questi rifugiati. Anche allora le due parole più usate furono “densità” e “saturazione”. Auguriamoci che l’Europa, che ha già vissuto anni fa questa tragedia, non dia una risposta che ha già avuto in passato conseguenze così catastrofiche.
Ma tutto fa pensare che non accadrà. Che l’Europa continuerà la sua deriva.
Andrà così. Andrà così fino a quando non saremo in grado di darci regole capaci di far nascere leader politici europei. Dove pensiamo di andare con l’Europa così com’è? Perciò serve una rifondazione. E non basterà di certo l’aspirina prevista nel documento dei cinque presidenti.

Dobbiamo ricorrere a dosi massicce di politica per restituire l’Europa agli europei. Dobbiamo prendere coscienza che l’Europa esiste se torniamo a concepirla come una piattaforma unica di valori e cultura. Anche gli Stati Uniti, in fondo, funzionano così. Nessuno si immagina di far diventare l’Arkansas una Silicon Valley. L’Arkansas viene sovvenzionato, perché è parte di un sentire comune.

L’Europa così com’è ha fallito. O ne prenderemo rapidamente atto, e saremo capaci di cambiare, oppure saremo travolti dall’onda. Va recuperato l’orgoglio di essere la comunità che ha dato al mondo, proprio partendo dalla cultura ellenistica, il meglio del pensiero e dei diritti dell’uomo. Solo su questa base potremo ancora stare insieme e costruire un futuro comune.