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→  gennaio 27, 2016


articolo collegato di Martin Sandbu

Arigged market price
Almost everything about Italy’s agreement with Brussels over the country’s so-called “bad bank” policy to rid Italian banks of its problem loans should set off alarm bells. It illustrates how halfhearted is Europe’s commitment to reform the way it does banking.

The agreement, as the Financial Times reports today, involves a scheme by which the Italian state will issue financial guarantees for packages of non-performing loans that are burdening the banks’ finances. The guarantees are supposed to help the banks sell off the loans to other types of investors such as hedge funds.

To be clear, getting bad loans off Italian banks’ backs is a good idea. At about €350bn or 17 per cent of the banking system’s total loan book (three times the European average, according to the European Banking Authority’s last transparency exercise), they constitute a large patch of rot on the banking system’s balance sheet. The uncertainty over the eventual size of the losses is bound to restrain both the banks’ willingness to issue loans and their ability to raise capital as and when that becomes necessary. That fact that Italian bank lending is growing again, which is very welcome news, is nevertheless no reason not to shift this uncertainty to investors willing to bear it and whose risk exposure does not damage the wider Italian economy.

It’s such a good idea, in fact, that it’s useful to ask why banks haven’t sold off these loans to foreign hedge funds already. The Italian government’s plan has been to issue guarantees on the bad loans to facilitate their sale. The sticking point with the European Commission has been how to price the guarantees so they don’t constitute a subsidy. The agreement supposedly ensures that the insurance against losses will be sold at the market price for similar loss insurance on equally risky products.

But if it’s the market price, why does the government need to be involved at all? There are plenty of investment banks in the world that will issue loss insurance at a price. And there is little reason to think that the Italian government’s risk assessment is more reliable than a third-party investor’s: on the contrary. The very notion that the government must provide the insurance because the market doesn’t should make us suspicious of the risk it attributes (or rather not) to the loans in question.

If banks are not already selling off loans to private investors, it’s because the price at which they are willing to sell is higher than the price buyers are willing to pay. The reason for that is most probably not that the banks know the loans are better than they look. Instead, it is that a price at which buyers would be interested would expose losses that the banks would rather be without — or pretend to be without.

The only way a state guarantee can get around this problem is by making the bad loans look more attractive to investors, and thereby raise the price they would consider paying to a level that flatters the selling banks. But don’t let Rome and Brussels fool the rest of us into thinking that this is a market price: if the government needs to make it happen, it’s a price at which there is no market.

The alternative policy is, of course, to write down the value of the trouble loans to their real market value, which could be done, for example, by forcing banks to auction them off to the highest bidder with no state-sponsored insurance (banks could buy the insurance privately if they thought it would sufficiently raise the market price). That this has not happened simply illustrates that Rome remains unwilling to apply the spirit of the EU’s new bail-in rules, which requires bank shareholders and creditors to share in any losses. Yet again, a proper restructuring is too much to stomach for a national government.

As Free Lunch has complained during a previous public bout of Italian bank rescues, this unreconstructed attitude illustrates that European governments are still not comfortable with the banking reforms they signed up to in 2012. That is dispiriting but not surprising. That Brussels is willing to play along, however, is both.

Other readables
- An idea developed to address the job displacement due to trade and globalisation may well have a new lease of life in an era of job loss through automation: Lori Kletzler argues for wage insurance, which would compensate displaced workers for the lower salary in whatever job they managed to find.
- New research documents the long-term effect of migrating from a poor to a rich country by comparing winners and losers of New Zealand’s immigration lottery for citizens of Tonga.
- Harvard economist Gita Gopinath chills the optimism about India that many — including Free Lunch — had allowed themselves to feel. about India’s economy. Investment is falling, not just because reform promises have not been kept, but because of growing rot in the banking system. Seventeen per cent of Indian bank loans are in bad shape, and the cost of borrowing has soared.

→  gennaio 20, 2016


articolo collegato di Luigi Zingales

Mentre i titoli di Monte Paschi e Carige scendono a picco (rispettivamente -46,8% e -38,3% dall’inizio dell’anno) e il presidente della Consob si scaglia contro i presunti speculatori responsabili di ogni male, il ministro del Tesoro cerca disperatamente di accelerare i tempi per risolvere il problema delle sofferenze bancarie. Il peggior nemico degli investitori è l’incertezza.

L’incertezza sulle entità delle perdite delle banche crea più danno delle stesse perdite, paralizzando i mercati e bloccando la possibilità di prestiti. Per risolvere lo stesso problema nel settembre 2008 il Ministro del Tesoro degli Stati Uniti Paulson lanciò Tarp (Troubled Assets Relief Program), un programma governativo di 700 miliardi di dollari per comprare titoli tossici dalle banche, molto simile alla prima versione della “bad bank” proposta da Padoan. Allora a far crollare i titoli bancari negli Usa erano i famigerati titoli tossici subprime e non i prestiti, ma il problema che Paulson si trovò ad affrontare non era diverso da quello che oggi assilla il nostro Padoan. Come nel caso della crisi Usa, non si tratta di un problema di alcune banche, ma di un problema generale, che si manifesta prima laddove è più acuto, ma che rischia di coinvolgere l’intero sistema bancario. E non è solo un problema dei banchieri. Se le banche sono in crisi, non prestano e se non prestano è difficile che l’economia riparta.

Nonostante il sostegno da parte dell’establishment di entrambi i partiti, la prima versione di Tarp fu rigettata alla Camera dei Rappresentanti. Solo dopo molte trasformazioni il programma fu approvato. Ci sono dubbi su quanto l’intervento statale sia servito a rilanciare i prestiti all’economia, ma certamente ha contribuito a stabilizzare le banche, evitando una crisi ancora più profonda. Molto più difficile da calcolare sono le conseguenze politiche. L’ondata populista che sostiene la nomina di Trump e Cruz da un lato e di Sanders dall’altro si è formata proprio nell’opposizione popolare al salvataggio delle banche tramite Tarp. Che cosa possiamo imparare dall’esperienza americana?

Innanzitutto è importante capire che tanto in Tarp quanto nella nostra bad bank si mischiano due obiettivi: rilanciare l’economia e trasferire parte delle perdite derivanti da cattivi prestiti alla comunità. Il primo è un obiettivo meritorio, il secondo è una forma opportunistica di “rent seeking” da parte dei banchieri. Purtroppo non è facile raggiungere il primo obiettivo, senza contribuire in qualche modo al secondo. Ma è importante che l’aiuto alle banche sia un danno collaterale, che si vuole minimizzare, non l’obiettivo primario della manovra.

Affinché questo avvenga è necessario essere molto chiari sull’obiettivo immediato dell’intervento: ricapitalizzare le banche. Se questo è l’obiettivo – come lo fu per Tarp – , ci sono molti modi per conseguirlo. Strapagare per i loro crediti inesigibili non è il metodo migliore, non è neppure quello più economico. Ha il solo vantaggio di nascondere agli occhi degli elettori il trasferimento di soldi alle banche. Invece di favorirne l’approvazione, questo inganno suscitò negli elettori americani il sospetto che la manovra fosse unicamente mirata a trasferire soldi alle banche, di qui la reazione.

Il nuovo piano del Ministro Padoan di far acquistare le sofferenze a «prezzi di mercato» con una garanzia della Cassa Depositi e Prestiti rischia di avere gli stessi effetti. I prezzi di mercato per questi crediti non esistono, basta vedere Banca Etruria che ha venduto alcuni crediti incagliati al valore di bilancio (intorno al 40% del valore facciale) pochi giorni prima che la Banca d’Italia valutasse il resto dei suoi crediti incagliati al 17,5 per cento. Qual è il vero prezzo di mercato? Dipende dalla qualità dei crediti e dalla natura delle garanzie. Quindi non esiste un prezzo di mercato ma molti, troppi prezzi diversi per un acquisto dei crediti in massa. Proprio per queste difficoltà Paulson finì per abbandonare l’idea di acquistare i titoli tossici e preferì “costringere” le banche a fare degli aumenti di capitale sottoscritti dal Tesoro. Gli investimenti furono fatti in azioni privilegiate senza diritto di voto e con sufficienti restrizioni da spingere le banche sane a raccogliere più capitale sul mercato. Il meccanismo funzionò. Non solo il sistema bancario fu stabilizzato, ma il Tesoro americano finì perfino col guadagnare da questi investimenti.

Lo stesso dovrebbe fare il Tesoro italiano, magari attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. Mettere le banche di fronte alla scelta: o raccogliete un altro XX per cento di capitale di rischio sul mercato o questo capitale di rischio necessario a stabilizzare la banche e a far ripartire i prestiti ve lo diamo noi Stato, ma ad alcune condizioni. Primo, divieto di pagare dividendi per almeno tre anni. Secondo, ricambio totale del management. Terzo, azione di responsabilità obbligatoria in tutti i casi in cui ci si sia evidenza di mala gestio o di prestiti in conflitto di interesse. Quarto, nuove regole per evitare che tali conflitti di interesse possano ripetersi in futuro.

Ovviamente ci verrà detto che è impossibile perché Bruxelles non permetterà mai un intervento di questo tipo. Ma se Bruxelles concede alla Cassa Depositi e Prestiti di offrire delle garanzie a prezzi molto dubbi, non si capisce come possa vietare alla stessa Cassa di effettuare questi investimenti in azioni. Obiezioni verranno anche da chi teme una nazionalizzazione del nostro sistema bancario. Il rischio è serio. Ma c’è solo una cosa peggiore di una nazionalizzazione delle banche: una socializzazione delle perdite, quando i profitti rimangono privati. È quello che accadrebbe con la bad bank progettata dal governo.

Con la versione italiana di Tarp prospettata qui sopra, invece, il Governo prenderebbe due piccioni con una fava. Da un lato, renderebbe più solido il sistema bancario, evitando molti dei rischi di cui si è molto parlato nei giorni scorsi. Dall’altro, promuoverebbe un miglioramento della governance bancaria, uno dei punti più oscuri della nostra economia.

→  gennaio 10, 2016


Analisi dell’economista ed ex ministro Paolo Savona

Errare è umano, perseverare è diabolico. Ho pensato a questo vecchio detto quando ho letto la definizione che la Banca d’Italia ha dato del BRRD, la nuova direttiva per la “soluzione” delle crisi bancarie (Dio ci protegga dagli acronimi e dai termini inglesi che ne celano il significato): «Le nuove norme consentiranno di gestire le crisi in modo ordinato attraverso strumenti più efficaci e l’utilizzo di risorse del settore privato, riducendo gli effetti negativi sul sistema economico ed evitando che il costo dei salvataggi gravi sui contribuenti».

Questa definizione implica che: 1) le gestioni delle crisi precedenti fossero meno ordinate, in sostanza una critica che la Banca d’Italia rivolge a se stessa; 2) i nuovi strumenti saranno più efficaci di quelli usati in passato; 3) le risorse proverranno dal settore privato; 4) gli effetti negativi delle crisi sul sistema economico verranno ridotti; 5) i contribuenti non subiranno più il costo dei salvataggi bancari. Questa elencazione dei molti vantaggi ricorda un episodio accaduto all’Assemblea francese: un ministro esordì affermando che aveva molti buoni motivi per avanzare la sua proposta; lo interruppe un deputato logicamente agguerrito che obiettò «se dispone di una buona ragione basta e avanza; ci risparmi dal sentire gli altri».

Nessuno degli effetti indicati dalla Banca d’Italia ha solidi fondamenti. In passato la soluzione delle crisi ha funzionato bene, ne consegue che gli strumenti usati erano efficaci; le risorse provenivano anche dal settore privato e affluivano mosse dalla convenienza, non dall’obbligo di legge come sarà da questo momento in poi; l’economia reale ha sempre beneficiato del precedente regime, mentre non accadrà lo stesso in futuro; l’onere sulla collettività era spalmato in modo più equo di quanto non avverrà con la nuova legge che penalizza il risparmio.

La logica economica prescrive che per raggiungere ciascun obiettivo si deve applicare almeno uno strumento, mentre la nuova legge prevede un solo strumento per raggiungere i cinque obiettivi indicati dalla Banca d’Italia; la realtà è che il vero scopo del provvedimento è unico: trasferire la responsabilità delle crisi prodotte dalle autorità italiane ed europee ai risparmiatori anche piccoli, quelli che avrebbero dovuto tutelare.

La decisione è frutto della grave malattia che ha colpito l’Europa, quella di voler isolare i bilanci pubblici dalle vicende dell’economia e della società che le autorità dovrebbero governare, ma non riescono a farlo, come dimostra la grave crisi finanziaria diffusasi a seguito delle insolvenze dei crediti subprime e dei loro derivati. Per proteggere i conti pubblici si penalizzano quelli delle famiglie, già messe a dura prova dall’incapacità mostrata dalle autorità di saper governare la crisi e la sua diffusione. La legittimazione dell’irresponsabilità delle autorità e della responsabilità dei risparmiatori è priva di basi pratiche; infatti il nuovo regime di risoluzione delle crisi porta sulle spalle delle banche un onere solo inizialmente prevedibile, quello di costituire un fondo presso l’organismo di tutela dei depositi, e un onere imprevedibile se lo devono ricostituire se utilizzato.

Le banche trasferiranno l’onere in forme più subdole alla clientela per ricostituire il rendimento del loro capitale al fine di evitare i riflessi negativi sulla loro capacità di concedere credito alle imprese produttive e, di conseguenza, all’intero sistema economico; ma non basta, perché ridurranno la remunerazione del risparmio a esse affidato e aumenteranno il costo dei servizi prestati. In conclusione la collettività pagherà comunque l’onere degli interventi in forme più difficili da valutare.

Chi trae un vantaggio dalla nuova regolamentazione sono quindi solo le autorità responsabili delle crisi per non aver saputo governare il mercato. Ma anch’esse si illudono, perché se vogliono avere un sistema del credito e del risparmio all’altezza dei compiti che attendono l’economia fuori dalle speranze e dalle chiacchiere in corso dovranno darsi carico di studiare un meccanismo meno pericoloso di quello approvato che protegga l’offerta di credito e il risparmio che la sostiene.

Ciò che sconcerta in questo provvedimento, come nella spiegazione datane dalla Banca d’Italia che lo ha propiziato, è che non si parla del problema di fondo, quello di chi fornisce le informazioni ai clienti della banche; danno invece la colpa alla loro ignoranza, che è anche frutto delle omissioni pubbliche in materia.

Ammesso che l’ignoranza possa essere attenuata o, al limite, anche sconfitta, su quali basi statistiche deve poggiare l’uso del sapere finanziario conquistato dai risparmiatori e chi è tenuto a fornirle? In passato, la tutela del risparmio era stata affidata alle società di rating, istituzioni private che ne hanno combinato più di Bertoldo di Francia. Non si può delegare a esse o altre simili istituzioni private il compito di attuare l’art. 47 della nostra Costituzione. Devono provvedere le autorità. Ciò sarà possibile solo dividendo nettamente il sistema dei pagamenti, le cui prestazioni vanno totalmente garantite dallo Stato, dal sistema del credito, che si svolgerà sotto il controllo del Governo, la vigilanza di enti delegati e, in caso di crisi, risolto con norme meno rigide di quelle erroneamente introdotte con il bail in. Si può sperare in una maggiore attenzione al problema da parte degli organi democratici rispetto a quella finora prestata? Le informazioni raccolte sul trattamento discriminante seguito dai paesi membri dell’UE testimonia il modo affrettato e superficiale con cui la direttiva è stata varata e da noi approvata.

Porvi rimedio è tanto più urgente e importante quanto più si intendono ridurre i livelli di protezione sociale per necessità legate alla competizione globale con paesi che non hanno gli stessi livelli. Da decenni si va operando sul sistema pensionistico senza sviluppare in parallelo regimi di tutela del risparmio volontariamente accumulato; anzi le due responsabilità, quella di formarsi una previdenza integrativa continuando a contribuire a quella pubblica vengono accompagnate da un aumento dei rischi finanziari corsi dal cittadino, ormai ritornato allo stato di suddito di leggi improvvide approvate dal suo decisore collettivo, il Parlamento.

La protezione della collettività dagli oneri delle crisi non può avvenire infliggendo ai risparmiatori una perdita, con le conseguenze indicate, ma migliorando i meccanismi pubblici di informazione e di vigilanza, come pure i meccanismi di soluzione delle crisi; per questi ultimi insisto sul fatto che vanno eliminati i conflitti di interesse esistenti che hanno generato ritardi nel salvataggio e oneri più elevati per la collettività, ponendo le funzioni di vigilanza e di soluzione in posizione di autonomia e reciproca indipendenza.

Come consuetudine, lo si capirà solo dopo che i buoi sono scappati dalle stalle, ossia a crisi scoppiata.

→  gennaio 9, 2016


articolo collegato di Alberto Brambilla

Se il governo Renzi deve mettersi di traverso in Europa, lo faccia sulle banche. E’ l’appello che arriva di fatto da un fronte variegato di economisti e addetti ai lavori, anche vicini al premier come l’investitore Davide Serra. A seguito dell’entrata in vigore il 1° gennaio nell’Unione europea del nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, il bail-in, tre economisti di diversa estrazione e differenti impostazioni hanno esortato il governo a chiedere alle autorità comunitarie una “moratoria” eccezionale e temporanea all’uso del nuovo meccanismo, approvato ed efficace nei 28 stati membri dell’Ue. Il bail-in rappresenta una rivoluzione nella gestione delle crisi del credito: evita il fallimento di un istituto e ne predispone il risanamento infliggendo le perdite ai suoi azionisti e creditori, anziché scaricare i costi del salvataggio sui contribuenti, com’è stato finora con i bail-out. Gli economisti che, con ragioni diverse, chiedono un periodo di grazia per l’Italia sono: Luigi Guiso (Einaudi Institute for Economics and Finance, finanziato dalla Banca d’Italia) e Luigi Zingales (Chicago Booth, ex membro dei cda di Eni e Telecom) sul Sole 24 Ore, edito da Confindustria, e Paolo Savona (ex ministro dell’Industria), sulle testate del gruppo Class.

Dopo la risoluzione di quattro banche regionali a metà dicembre con la parziale applicazione delle regole del bail-in, gli obbligazionisti subordinati che sono incorsi in perdite hanno protestato chiedendo di riavere quanto investito diffondendo un vasto moto di sfiducia verso l’industria bancaria che già rischia di risentirne. Zingales e Guiso, con tre articoli in successione sul Sole 24 Ore (l’ultimo venerdì), insistono sull’eccezionalità della situazione italiana. Le nostre banche da tempo si finanziano vendendo obbligazioni subordinate, le prime a subire perdite insieme alle azioni, e ordinarie, emesse dagli stessi istituti e vendute alla clientela anziché collocarle solo presso gli investitori istituzionali, per esempio i fondi, come avviene negli altri paesi europei. In generale almeno il 30 per cento della raccolta bancaria, soprattutto tra le piccole banche, è rappresentato da obbligazioni ordinarie. Tale anomalia, rinfacciata dalla Commissione europea alla Banca d’Italia, andrebbe sanata di certo, dicono gli economisti, ma ciò richiederebbe tempi lunghi. In cambio dell’obbligo per le banche di non vendere più obbligazioni bancarie ai clienti allo sportello – questo è il nocciolo della proposta di Zingales e Guiso – l’Italia dovrebbe proporre a Bruxelles l’esenzione temporanea (12-18 mesi) dall’applicazione del bail-in per risolvere future crisi. “Una sospensione temporanea metterebbe al riparo i risparmiatori dal rischio immediato di subire il costo del bail-in e darebbe loro più tempo per rivedere gli investimenti. Nel frattempo il governo avrebbe anche tempo per rivedere le regole di protezione dei risparmiatori per assicurarsi che quanto accaduto non possa accadere più anche dopo la fine della sospensione temporanea”, mediante la creazione di una autorità per la protezione dei risparmiatori che riunisca alcune competenze oggi distribuite tra Consob, Banca d’Italia e Antitrust. Per quanto adesso risulti destabilizzante, il bail-in non è una novità per governanti e banchieri: nel 2010 la proposta venne illustrata a Bruxelles dalla Association for financial markets in Europe, la lobby delle 200 banche d’investimento più influenti, tra cui Intesa Sanpaolo e Unicredit, come soluzione per prevenire in Europa fallimenti del calibro di Lehman Brothers. Paolo Savona, economista euro-critico, ha sostenuto venerdì su MF/Milano Finanza che “l’Italia non avrebbe alcun danno a chiedere la moratoria temporanea” per motivi eccezionali. Sta già succedendo in alcuni paesi del nord Europa con il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone, a fronte della crisi dei rifugiati siriani.

Quindi “non si vede perché non si decida che anche la direttiva sulla risoluzione delle crisi bancarie debba essere oggetto di sospensione per frenare la crisi di fiducia che ha colpito la clientela bancaria”. Così “si manderebbe alla clientela il messaggio che si sta seriamente studiando come proteggere il risparmio affidato alle banche”. Tuttavia il ministero dell’Economia, secondo fonti interne, non si avventurerà in una richiesta di moratoria eccezionale per l’Italia. Piuttosto vorrebbe fare emergere in sede europea la necessità di utilizzare l’esperienza dei primi casi di bail-in per gestire la transizione al nuovo regime con la consapevolezza dell’impatto reale sul sistema e sui risparmiatori. Per esempio facendo emergere come alcuni strumenti siano diventati più rischiosi in maniera retroattiva, proprio in forza dell’applicazione del bail-in, come ha sostenuto Roberto Gualtieri, eurodeputato del Pd e presidente della commissione Affari economici del Parlamento europeo. I cambiamenti di approccio e le soluzioni particolari trovate in passato in vista dell’introduzione piena del bail-in hanno avuto esiti discutibili, da ultimo il caso del portoghese Novo Banco, destabilizzando il settore del risparmio gestito. Davide Serra, manager del fondo Algebris, sul Financial Times ha attaccato: “Siamo a due o tre anni dall’avvio dell’Unione bancaria, ma ogni volta che succede qualcosa loro la cambiano in corsa. E’ scioccante”, ha detto il manager considerato vicino a Renzi, riferendosi alle regole decise da governi nazionali e Banca centrale europea.

→  dicembre 5, 2015


articolo collegato di Giulio Meotti
E’la storia indicibile di una famiglia che ci porge, come pochissime altre, la normalità sofferente di Israele. Una lunga coda di buio carica di dolore e di vitalità. La storia inizia a Zdeneve, un piccolo villaggio sui Carpazi ungheresi, negli anni Trenta. Lipa è un ragazzino ebreo. Famiglia poverissima, si sfama con due mucche che danno ogni giorno tre litri di latte e le patate coltivate nell’orto. Gli abiti vengono rammendati e passati da un bambino all’altro. Nel 1944, durante la Pasqua ebraica, arrivano i nazisti e ordinano a tutti gli ebrei di preparare un bagaglio di venti chili. Salgono sul treno per Auschwitz. All’arrivo, sulla rampa di Birkenau, Lipa si ritrova solo. La madre, il padre, la sorella e il fratello di un anno dopo due ore verranno inghiottiti dalle camere a gas. “Alla mia sinistra vedevo il fumo dei crematori, i corpi presi per i piedi e le mani e gettati nel fuoco”, mi ha raccontato Lipa. Gli fu data una divisa, un cappello e una gavetta di alluminio.
Era tutto ciò che aveva al mondo. “Ad Auschwitz pensavo che se fossi stato forte, i tedeschi avrebbero avuto bisogno di me”. Passano i mesi, si avvicina la fine della guerra e Lipa viene deportato in Austria, nel lager di Mauthausen. Da quel momento si sarebbe chiamato con un numero. “68.864 era il mio nome”. Quel numero era impresso sui pantaloni e la giubba, assieme a un triangolo rosso e alla lettera “J”. L’iniziale di Juden, ebreo. Sopravvive anche a Mauthausen, arriva la Brigata Ebraica, assieme ai soldati inglesi e americani. “Ci aiutarono a credere che gli ebrei potevano difendersi da soli e avere il loro stato. Diventare ‘ebrei in Palestina’”. Lipa entra nella sinistra sionista di HaShomer Hatzair. Ma gli inglesi avevano posto restrizioni all’immigrazione, così Lipa restò nei campi fino al marzo 1948. Il 14 maggio di quell’anno, Lipa si trova a Marsiglia, dove si imbarcherà sulla prima nave diretta in Israele. Era il giorno della proclamazione dello stato ebraico. “Salpammo sapendo di avere uno stato”. Attracca a Haifa, c’era fermento nell’aria e l’esercito ebraico lo arruolò subito. Lo misero di guardia a un kibbutz, Ein Hashofet. Due anni dopo nasce il primo figlio, Avner, che significa “ricordo di mio padre”, per onorare il padre gassato ad Auschwitz. Sei anni dopo arriva il secondo figlio, Yanay.
Passano gli anni e nasce anche Gidi. Servono tutti nell’esercito israeliano, chi nell’artiglieria, chi nell’aviazione. Da una Shoah a un’altra.
Il terrorismo palestinese inizia a portarsi via pezzi di questa famiglia. E’ l’inizio della Seconda Intifada. La prima vittima delle bombe umane è la bellissima Inbal, la figlia di Avner. Lavorava agli archivi del Beit Locamei Haghetaot, il centro che documenta la resistenza ebraica ai nazisti. Prendeva sempre l’autobus per tornare a casa dall’Emek Yisrael College nella fertile valle di Jezreel. Ma quel giovedì, Inbal sceglie una strada diversa per incontrare i genitori al ristorante. La strada passa attraverso numerosi villaggi arabi. Ancora non c’era la barriera antiterrorismo, ingiustamente condannata da tutto il mondo come “il muro”. I genitori la chiamano al cellulare per sapere dove fosse.
Due minuti dopo un terrorista di Jenin si fa saltare in aria. Il bus è quasi vuoto: tre israeliani uccisi, fra cui Inbal. Le conseguenze di quel giorno, come vedremo, si avvertiranno anche a tanti anni di distanza. Come una cometa carica di dolore.
Passano due anni da quell’attentato terribile e il 29 aprile la famiglia rivive lo stesso film. E’ la giornata della memoria della Shoah in Israele. Nelle stesse ore, i jet dell’aviazione con la stella di Davide sorvolano i prati di Auschwitz, dove vennero sparse le ceneri di un milione di ebrei, tra cui quelle dei genitori e dei fratelli di Lipa. La dimostrazione è guidata dal generale israeliano Amir Eshel. “La piattaforma delle selezioni, la linea ferroviaria, i campi verdi, un innocente silenzio”, disse Eshel. “Così appariva l’inferno sulla terra, nel cuore dell’Europa. Abbiamo compreso l’enormità della nostra responsabilità, nel garantire l’eternità del nostro popolo e della nostra terra. E’ stato un grande privilegio essere i delegati del nostro popolo e portare la sua grandezza sulle nostre ali”.
Quella sera, mentre lo stato ebraico sarà chiamato a stringersi nel ricordo dalla stessa sirena che annuncerà alla popolazione il lancio dei missili dei terroristi da Gaza, Yanay si stava esibendo in un pub del lungomare di Tel Aviv. Il kamikaze fu fermato all’ingresso dalla guardia, che volò alcuni metri in aria ma che sarebbe sopravvissuto. Yanay era appena uscito fuori per una boccata d’aria, e venne ucciso sul colpo. L’attentatore, entrato da Gaza, aveva il passaporto inglese. Era arrivato dall’Europa soltanto per uccidere ebrei innocenti. Il terzo tragico capitolo di questa straordinaria famiglia, che aveva sempre creduto nella coesistenza con i palestinesi, che ha sostenuto il rilascio di Gilad Shalit in cambio del mandante dell’uccisione della loro figlia (il terrorista del Jihad islamico Tabeth Mardawi), è stato scritto una settimana fa.
E’ il giorno dell’anniversario dell’uccisione di Inbal, quando suo fratello Ami, terzogenito di Avner, militare con lodi della marina israeliana, estrae la pistola di ordinanza e si uccide. Non lascia neppure un biglietto. Il giorno dopo sua sorella dà alla luce una splendida bambina. La storia di questa famiglia è la storia stessa di Israele, dove ogni vita che finisce si annoda a una che nasce, i sei milioni di ieri con i sei milioni di oggi. E’ il buco nero che l’Europa ha scelto tragicamente di ignorare.

→  dicembre 2, 2015


articolo collegato di Balsam Mustafa

Since capturing swaths of Iraq and Syria, the Islamic State militant group (ISIS) has embarked on a cyberoffensive to spread its message through social media. A great effort has been made to block and remove the content, to understand how this information spreads—and to understand why some find it so convincing.

But it is also important to look at the message itself. ISIS’s claims are not plucked out of the sky. As unpalatable as they may be, they are framed by religious narratives and debates about Islam that have spanned centuries.

A look at ISIS’s online magazine, Dabiq, reveals arguments built on Wahabbism, a fundamentalist branch of the Sunni sect. There are invocations of founder Ibn Taimaya, “Sheik al Islam” and references to Ibn Abbas, Ibn Masood, Ibn al-Qayyim, Ibn Hajar, Muhammad Ibn Abdil-Wahhab, Bukhari and Sahih Muslim—Muslim scholars either collecting, interpreting or narrating Hadith (the words of the prophet). The broader message is blunt: “Kill whoever changes his religion [Sahīh al-Bukhārī].”

To claim that ISIS is not related to Islam is therefore naive, even willfully dismissive. It ignores the interpretations of Islam that ISIS presents in its videos, statements and other communication.

Arguing that ISIS is comprehensively Islamic, on the other hand, is simplistic too. That is, to see the group as representing all Muslims and the different and competing readings and interpretations of Islam around the world. Clearly, it does not.

Grabbing either of these easy, polar explanations for what ISIS represents will not provide a solution to the problem. We need to consider some controversial issues upon which most of the varying sects of Islam agree in order to understand ISIS and subvert its narratives.

Selective Reading

For example, ISIS invoked Sabi—the Arabic term for the enslavement of women—when it kidnapped Yazidi women in northwest Iraq in August 2014. It argued that this was justifiable because the Yazidi are “infidels.”

When reporting on what had happened to the Yazidi women, Arabic media shied away from having an honest discussion about Sabi. Questions were asked about whether it was justifiable to call the Yazidi infidels, but less about whether the practice of Sabi itself was justifiable.

Later, the question of Sabi was raised among Muslim scholars who generally agree that the practice existed before Islam and continued during the religion’s early stages. The debate was about whether Sabi can justifiably be revived as a practice if a caliphate is created, as ISIS would argue.

Some Muslim scholars tried to contest this by undermining the legitimacy of ISIS and its self-proclaimed caliphate. Some went further to stress that Sabi is not legitimate in our age, but they were few and far between. They failed to provide a strong counter-narrative to ISIS.

ISIS’s demand that Christians should either convert to Islam or pay jizya, a tax imposed on non-Muslims in return for protection and services, has also caused problems.

OPINION
We Need a Re-Reading of Islam if We Are to Rid the World of Islamism
By Balsam Mustafa 12/2/15 at 3:05 PM

FILED UNDER: Opinion
11_30_ISIS_Islam
An ISIS billboard reads, “We will win despite the global coalition,” along a street in Raqqa, Syria, on October 29, 2014. To understand ISIS and subvert its narratives, we need to consider some controversial issues which most of the varying sects of Islam agree on, the author writes.Nour Fourat/Reuters
This article first appeared on The Conversation.

The ConversationSince capturing swaths of Iraq and Syria, the Islamic State militant group (ISIS) has embarked on a cyberoffensive to spread its message through social media. A great effort has been made to block and remove the content, to understand how this information spreads—and to understand why some find it so convincing.

But it is also important to look at the message itself. ISIS’s claims are not plucked out of the sky. As unpalatable as they may be, they are framed by religious narratives and debates about Islam that have spanned centuries.

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A look at ISIS’s online magazine, Dabiq, reveals arguments built on Wahabbism, a fundamentalist branch of the Sunni sect. There are invocations of founder Ibn Taimaya, “Sheik al Islam” and references to Ibn Abbas, Ibn Masood, Ibn al-Qayyim, Ibn Hajar, Muhammad Ibn Abdil-Wahhab, Bukhari and Sahih Muslim—Muslim scholars either collecting, interpreting or narrating Hadith (the words of the prophet). The broader message is blunt: “Kill whoever changes his religion [Sahīh al-Bukhārī].”

To claim that ISIS is not related to Islam is therefore naive, even willfully dismissive. It ignores the interpretations of Islam that ISIS presents in its videos, statements and other communication.

Arguing that ISIS is comprehensively Islamic, on the other hand, is simplistic too. That is, to see the group as representing all Muslims and the different and competing readings and interpretations of Islam around the world. Clearly, it does not.

Grabbing either of these easy, polar explanations for what ISIS represents will not provide a solution to the problem. We need to consider some controversial issues upon which most of the varying sects of Islam agree in order to understand ISIS and subvert its narratives.

Selective Reading

For example, ISIS invoked Sabi—the Arabic term for the enslavement of women—when it kidnapped Yazidi women in northwest Iraq in August 2014. It argued that this was justifiable because the Yazidi are “infidels.”

When reporting on what had happened to the Yazidi women, Arabic media shied away from having an honest discussion about Sabi. Questions were asked about whether it was justifiable to call the Yazidi infidels, but less about whether the practice of Sabi itself was justifiable.

Later, the question of Sabi was raised among Muslim scholars who generally agree that the practice existed before Islam and continued during the religion’s early stages. The debate was about whether Sabi can justifiably be revived as a practice if a caliphate is created, as ISIS would argue.

Some Muslim scholars tried to contest this by undermining the legitimacy of ISIS and its self-proclaimed caliphate. Some went further to stress that Sabi is not legitimate in our age, but they were few and far between. They failed to provide a strong counter-narrative to ISIS.

ISIS’s demand that Christians should either convert to Islam or pay jizya, a tax imposed on non-Muslims in return for protection and services, has also caused problems.

In an open letter to leader Abu Bakr al-Baghdadi, 120 Sunni scholars criticized how ISIS was interpreting Islam but failed effectively to respond to its claims. Instead, their comments about whether jizya is still applicable in the modern world were vague and contradictory.

They first described Christians as “Arabs” and “friends” who should not be subject to jizya, but then the tax was put into two categories: one against groups who waged war against Muslims and the other—described as similar to zakat (a tax paid by Muslims)—imposed on Christians who did not wage war. Having tried to establish that jizya was illegitimate, the scholars had failed to offer a coherent religious argument against it.

There are plenty of other problematic cases that arise from ISIS activities. Can atheists or apostates be killed, for example, as some extreme interpretations of Islam suggest?

An Honest Debate

There is no immediate, magical solution to this problem. A comprehensive, constructive and critical reading of Islamic fiqh (the human understanding of Sharia law) and history in all its stages requires a huge collective effort. That effort needs to include governments, religious authorities and other institutions, such as academia and the media.

Such effort needs to start with challenging religious messages that incite hatred or violence. That should include TV channels that support sectarian and ethnic division. These are broadcast not only from Arabic countries but also from Western countries, including the U.S. and Britain.

Given the political conflict that feeds religious and sectarian conflict—often supporting and funding extremist voices delivering the message of hatred among and beyond Muslims—this might be difficult to achieve in the foreseeable future. Still, steps need to be taken to pave the way for this ultimate goal.

People are already creatively trying to shift the extremist language and narratives through comedy and factual programs. These efforts often emphasize the human over religion or ethnicity.

And messages of this kind can be found in religious texts too, even if they are largely overlooked by extremists. Take the Quranic verse: “There is no obligation in religion”; the Hadith by the Prophet Muhammad: “Religion is how you treat others”; and the saying by Ali Ibn Abi Talib, cousin of the Prophet Muhammad, “People are two types: your brothers in religion or your human counterparts, otherwise.”

We need to listen to these messages and use them to confront violence. It will be a long journey, but it is worth all our efforts. If we defeat ISIS but do not have an honest, critical re-reading of Islam, another group will only come along to replace it.

As the debate among Islamic scholars has shown, it has been difficult to establish the consensus that, even if sabi and jizya were once considered valid, they are no longer legitimate. But that very difficulty reinforces the need to undertake the task.