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→  novembre 24, 2015


articolo collegato di Luca Ricolfi
Ci sono, in natura, tre strategie fondamentali per reagire a un pericolo: l’attacco, la fuga, la simulazione della morte. La tigre attacca, la gazzella fugge, il rospo – come molti altri animali, sia vertebrati sia invertebrati – finge di essere morto.

Forse non sarebbe inutile, per capire quel che ci sta succedendo, guardare a noi stessi con occhio più disincantato, come un etologo fa con gli animali, o un marziano farebbe se sbarcasse su questo nostro dilaniato pianeta. Leggendo il fiume di parole che è seguito alle stragi di Parigi, troveremmo difficile non accorgerci che la nostra reazione dominante, almeno in Italia, è quella del rospo.

C’è chi lo dice in modo sofisticato e indiretto, e c’è chi lo afferma esplicitamente, ma i capisaldi della nostra reazione si condensano in un unico messaggio di fondo.

Non perdiamo la calma, non spaventiamoci, non rinunciamo al nostro modo di vita, non imbarchiamoci in una guerra, non cambiamo i nostri (buoni) rapporti con i musulmani, non chiudiamo le nostre frontiere, non sottraiamoci al dialogo con l’Islam, non crediamo che quella in atto sia una guerra di religione. Una sorta di versione occidentale della imperturbabilità Zen.

È giustificata una simile reazione ai fatti di Parigi? In un certo senso sì, perché essa non fa che registrare uno stato di impotenza. Sappiamo benissimo che i cittadini delle nostre società opulente sono, da parecchi decenni (dalla fine della guerra del Vietnam, più o meno), indisponibili a sostenere i costi umani, economici e filosofici di una vera guerra. E capiamo perfettamente che l’unica reazione alla nostra portata è quella solita: varare qualche sanzione economica, colpire i pozzi di petrolio dei terroristi, rafforzare l’intelligence, mandare sul campo tecnologie e specialisti, formare una coalizione anti-terrorismo sotto l’egida dell’Onu, sperare che altri popoli meno civilizzati di noi ci levino le castagne dal fuoco mandando i loro soldati a morire contro i guerriglieri dello stato islamico.

Da questo punto di vista la strategia del rospo è perfettamente comprensibile. Se non puoi fuggire, se non puoi permetterti una vera guerra, quel che ti resta è la simulazione della morte. Che infatti, al di là dei proclami bellicosi, è la sostanza della nostra reazione.

Non c’è niente di strano, né di sbagliato, in tutto questo. Quello che è meno comprensibile, invece, è il racconto con cui accompagniamo questa reazione. Un racconto fatto di molte oneste verità, prima fra tutte la ricostruzione della catena di errori che le grandi potenze hanno commesso negli ultimi decenni, ma anche costellato di clamorose omissioni e di pericolosi fraintendimenti. Cose che un etologo o un marziano vedrebbero a occhio nudo, ma che sembrano sfuggire alla nostra sofisticata consapevolezza di interpreti di noi stessi.

Che cosa vedrebbe un etologo, o uno storico dell’umanità?

Intanto osserverebbe che, fra le specie animali, quella umana è l’unica i cui membri sono capaci di combattere, fino al sacrificio della vita, per entità astratte, non necessariamente di tipo religioso e non necessariamente negative (Dio, la Nazione, il Comunismo, la Democrazia, la Libertà, i Diritti umani). Da questo punto di vista il fanatismo non è una anomalia, ma una eventualità sempre all’ordine del giorno nella storia della nostra specie (leggere Yuval Harari per credere: Da animali a dei, Bompiani 2014).

Poi, forse, il nostro etologo, storico, o marziano che dir si voglia noterebbe che alcune di queste entità astratte hanno una pretesa universale, o nel senso che vengono (da chi le sposa) ritenute valide per tutta l’umanità, o nel senso che vengono ritenute meritevoli di essere imposte al resto del mondo. È il caso del comunismo prima degli accordi di Yalta (che sancirono la spartizione del mondo in sfere di influenza), di un paio di religioni importanti (cristianesimo e islam) ma, per certi versi, anche di alcune idee politiche generali (democrazia e diritti umani). Il nostro marziano, essendo appunto marziano e non terrestre, non sarebbe particolarmente sensibile al fatto che alcune di tali ideologie siano supportate da buoni e altre da pessimi sentimenti, ma noterebbe la vocazione interventista di tutte le ideologie universali. In un mondo globalizzato e interdipendente, l’adozione di simili ideologie porta inevitabilmente con sé la tendenza a immischiarsi nelle faccende degli altri popoli, poco importa se in nome di un aggressivo ideale di conquista politico-militare, o di un più benevolo istinto di colonizzazione culturale. Da questo punto di vista, marziano e non terrestre, Jihad e guerre umanitarie, propaganda religiosa e ideologia dei diritti umani, sono facce diverse del medesimo processo di disintegrazione del mondo. Un processo che si limitava a covare sotto la cenere finché c’erano le aree di influenza e vigeva la realpolitik, con il suo cinismo e la sua saggezza, ma che è divenuto ingovernabile quando, una trentina di anni fa, il mondo è diventato un unico palcoscenico, disponibile per le rappresentazioni di tutti.

Ma c’è soprattutto una cosa che stupirebbe il nostro osservatore sbarcato da Marte. Ed è il nostro, intendo di noi occidentali, fraintendimento del Corano. Lui, a differenza della maggior parte di noi, il Corano l’ha letto. E di esso si è fatto un’idea molto chiara.

Il Corano è un testo unitario, e molto più coerente di quanto possa apparire a prima vista (“nel Corano c’è tutto e il contrario di tutto”, si sente spesso dire erroneamente). Siamo noi, cittadini imbevuti di valori cristiani, che ci rifiutiamo di capirne l’unità, e preferiamo vederne un solo lato, quello benevolo e accettabile, per poterci confermare nella strategia del rospo. Quel lato esiste, per fortuna, ed è anche importante, ma riguarda i precetti cui i musulmani di buona volontà sono tenuti nei loro rapporti reciproci. Su questo piano hanno perfettamente ragione quanti sottolineano l’affinità fra il Corano e i valori cristiani, compresa la misericordia e il perdono.

Il problema è che esiste anche un altro lato, quello che prescrive il dovere di combattere i non credenti, e di imporre il culto di Allah a tutti, anche con la violenza.

Detto un po’ crudamente: un conto è la politica interna del Corano, un conto è la sua politica estera. I due lati non sono in conflitto, anche se a noi possono apparire contraddittori.

Esemplare, a questo proposito, è il versetto che più sovente viene citato per mostrare la coerenza fra l’insegnamento di Cristo e quello di Maometto, ovvero il comune rifiuto della violenza. Il versetto viene spesso riportato così: «Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo sarà come se avesse ucciso l’umanità intera» (sura V, versetto 32)”.

Sfortunatamente, tuttavia, in questa forma il versetto è incompleto, in quanto amputato di un inciso essenziale. L’originale suona invece così:

«Chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera».

Nella visione cristiana, il divieto di uccidere è assoluto e incondizionato, qui invece prevede una macroscopica eccezione per coloro che hanno ucciso o «sparso la corruzione sulla terra». Il Corano è costellato di passi in cui si invita a combattere, anche con la violenza, contro i non credenti, siano essi adoratori di idoli (i politeisti), ebrei, cristiani, o semplicemente portatori di corruzione e di disordine. Quale debba essere il destino di coloro che portano la corruzione sulla terra è spiegato piuttosto chiaramente, oltreché in vari altri luoghi, nel versetto successivo secondo il quale la loro ricompensa è che «siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra».

Mi sono imbattuto per la prima volta in questi versi, e mi sono preso la briga di leggere il Corano, quando, una quindicina di anni fa, con altri colleghi sociologi mi trovai a occuparmi delle missioni suicide nel mondo (a me toccò la Palestina). E l’idea che ho maturato allora, quando il terrorismo (islamico e non) non era ancora spietato come oggi, è sostanzialmente questa: probabilmente facciamo bene, come cittadini di società largamente influenzate dal cristianesimo, a dare manforte all’interpretazione buonista del Corano, una interpretazione che sottolinea i contatti con il messaggio di Cristo, o si sforza di reinterpretare la Jihad come guerra puramente difensiva, o come combattimento interiore; ma facciamo male, molto male, a sottovalutare le formidabili difficoltà di quest’opera, pur meritoria, di rielaborazione del Corano.

Può piacerci o dispiacerci, ma il Corano sta lì, con i suoi versetti e le sue esortazioni, a disposizione di chiunque voglia leggerlo. E non bastano le libere traduzioni occidentali a cancellare la lettera di quei versi. Versi che, non dobbiamo mai dimenticarlo, si suppongono dettati direttamente da Allah al suo profeta, e come tali non sono facilmente riscrivibili, reinterpretabili, contestualizzabili. Esattamente il contrario di quel che capita con la tradizione cattolica, dove la reinterpretazione è la norma, perché la Chiesa pretende di essere l’unica depositaria della corretta interpretazione delle Scritture.

Ecco perché, a mio parere, il compito dell’Islam moderato è oggi assai difficile. La forza del terrorismo islamico riposa anche su una sorta di inversione fra ortodossia ed eresia: se prendiamo sul serio la lettera del Corano, i fanatici e i terroristi in nome di Allah possono apparire più ortodossi dei moderati, e il tentativo di questi ultimi di edulcorare il Corano può apparire vagamente eretico.

E noi? Non so se possiamo sfuggire alla strategia del rospo. Ma almeno potremmo, nella nostra imperturbabilità Zen, non ingannarci sulla difficoltà del compito che abbiamo di fronte. Perché non si tratta di leggere correttamente il Corano ma, al contrario, di aiutare gli islamici moderati a difendere la loro preziosa eresia.

→  novembre 6, 2015


di Fiorina Capozzi

Il presidente ha incontrato il nuovo potenziale socio francese Xavier Niel. Mentre il numero uno, che sognava di fare dell’ex monopolista un’azienda ad azionariato diffuso, stando a indiscrezioni non è stato nemmeno avvertito del blitz sulle azioni di risparmio

Ai piani alti di Telecom Italia si respira un’aria pesante. “Né io, né il direttore finanziario – Giorgio Peluso – abbiamo ancora incontrato i nuovi azionisti”, ammette davanti agli analisti l’amministratore delegato Marco Patuano, che sognava di fare di Telecom un’azienda ad azionariato diffuso in stile americano. Solo il presidente Giuseppe Recchi ha fatto in tempo ad atterrare a Parigi per incontrare il nuovo potenziale socio Xavier Niel, al rientro di un viaggio in Patagonia, per poi sbarcare a Roma e discutere del caso Telecom con il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Che si tratti di un caso fortuito? A giudicare da quanto accaduto nel cda che ha deciso la conversione delle azioni di risparmio Telecom, si direbbe proprio di no. Secondo quanto riferito da Repubblica, la proposta è infatti stata un vero e proprio blitz del presidente. Patuano non ne sapeva niente.

Agli occhi della comunità finanziaria, insomma, appare evidente che Recchi agisce ormai da solo e in palese allineamento con il governo di Matteo Renzi. Del resto, come spiega l’ex presidente Telecom Franco Debenedetti sul Foglio, “l’iniziativa di Niel non sembra aver senso” “senza avere o contare di avere una sponda nel governo”. Recchi si sente così forte da promettere persino che “Telecom resterà italiana”. Ostenta sicurezza o si tratta solo di un bluff? Per vedere le carte del presidente, non bisognerà attendere molto: il 15 dicembre si terrà l’assemblea straordinaria che dovrà dare il via libera alla conversione delle azioni di risparmio. In quella sede, Vincent Bolloré potrà dire la sua. Forte del suo 20%, il finanziere bretone potrebbe persino bloccare la conversione in assemblea evitando di diluirsi fino al 14 per cento. Fonti delle agenzie di stampa riferiscono però che Bolloré non avrebbe intenzione di mettersi di traverso. Ma sin d’ora è evidente che il suo eventuale assenso all’operazione testimonierebbe la volontà di seguire un disegno diverso che solo in pochi conoscono. Tanto più che se il finanziere bretone avesse in tasca anche azioni di risparmio e decidesse di convertirle, secondo il Testo unico della finanza, non sarebbe obbligato a un’offerta pubblica di acquisto neanche se superasse la soglia del 25 per cento. Un punto su cui solo la Consob potrebbe intervenire.

Se le cose stanno in questi termini, non sorprenderebbe a breve un ricambio ai vertici di Telecom già sorvegliati speciali dall’ingresso in scena di Bolloré di oltre un anno fa. Certo sul futuro del team di comando inciderà il definitivo assetto azionario dell’ex monopolista pubblico legato a doppio filo con il consolidamento delle telecomunicazioni e dei media in Europa. Niel è infatti entrato nella partita Telecom perché non vuole che la sua società di telecomunicazioni Iliad resti fuori dai giochi europei a tutto vantaggio della diretta rivale Orange. Bolloré ha, invece, intuito nell’investimento in Telecom un’opportunità irripetibile per ampliare il suo impero dei media europeo. Magari anche con il contributo di Silvio Berlusconi e della sua Mediaset i cui titoli, attendendo il riassetto Telecom, hanno guadagnato più del 70% nel giro di un anno. Che, in questo complesso scenario, Patuano abbia ancora una chance per trovare un alleato? Difficile a dirsi. Di certo il suo progetto di fare di Telecom una public company italiana ad azionariato diffuso sembra ormai tramontato.

→  settembre 17, 2015


articolo collegato di Stefano Firpo

Dopo una lunga e incomprensibile damnatio memoriae è stata finalmente riconosciuta da più parti l’esigenza di tornare a parlare di politica industriale nel nostro paese. Questo stesso giornale ha meritoriamente aperto una discussione sul tema animata da un approccio pragmatico e per questo credo sia opportuno mettere a fuoco alcuni punti utili per un dibattito costruttivo. E’ ormai assodato che il motore della crescita, della competitività, della stessa sostenibilità sociale e finanziaria di un paese risieda nello stato di salute della sua industria ed è ormai assodato che senza ragionare con serietà su questo campo un paese non potrà mai crescere come potrebbe. Oggi abbiamo una grande occasione, grazie anche a un contesto internazionale favorevole, e il nostro governo ha la possibilità di mettere insieme alcune idee per sfruttare il vento favorevole. Andiamo con ordine e mettiamo in fila un po’ di dati per capire da dove possiamo partire. Il settore manifatturiero oggi produce poco meno di un quinto del nostro pil e contribuisce all’80 per cento delle nostre esportazioni, determinando la quasi totalità della spesa privata in ricerca e sviluppo. Un quarto dell’occupazione totale del comparto è direttamente ascrivibile al settore industriale, ma se considerassimo anche i servizi all’industria questa percentuale quasi raddoppierebbe. Grazie al surplus della bilancia commerciale manifatturiera il paese paga la bolletta energetica, sostiene la posizione finanziaria netta garantendo solidità alla nostra posizione debitoria nei confronti con l’estero. In questi anni di crisi il manifatturiero ha pagato un prezzo pesante. Ha perso quasi 25 punti percentuali di produzione, il 17 per cento in termini di valore aggiunto e oltre 400 mila occupati diretti. Il suo indebolimento ha anche contribuito al prolungarsi della crisi stessa, alla sua persistenza e oggi frena quel rimbalzo che stenta a trovare slancio e vigore. La crisi ha di fatto congelato gli investimenti industriali: fino al 2007 esprimevamo una capacità di spesa in linea con quella tedesca, ma oggi investiamo almeno 15 miliardi all’anno di meno della Germania. In queste condizioni la nostra posizione di secondo paese manifatturiero in Europa risulta difficile da mantenere. Il rilancio degli investimenti industriali deve per questo essere al centro degli obiettivi di politica economica. Già, ma come? Per molti anni, prima della crisi del 2008, in Italia si è investito tanto. Purtroppo spesso si è investito male. Gli economisti direbbero che l’efficienza allocativa del capitale nel nostro Paese è stata subottimale. Provando a tradurre si potrebbe dire: troppi capannoni oggi vuoti, capacità produttiva in eccesso e oggi largamente inutilizzata, troppo credito facile che conduceva a investire anche in progetti non remunerativi. La produttività del nostro manifatturiero ne ha risentito ed è entrata in un lungo periodo di deprimente stagnazione. Non basta quindi tornare a investire di più, occorre soprattutto investire meglio, puntando al rafforzamento di quei fattori di competitività che si stanno facendo decisivi in un mondo globalizzato e nell’economia della conoscenza: ricerca e innovazione, digitalizzazione, proiezione internazionale, consolidamento dimensionale. Il paese ha un estremo bisogno di un quadro di politica industriale capace di scongelare gli investimenti in questi ambiti.

Sul fronte dell’innovazione qualche primo segnale importante il governo ha iniziato a darlo. Il credito di imposta alla R&S e il patent box, introdotti nella scorsa legge di stabilità, sono strumenti concreti che introducono un fisco più amico dell’impresa. In particolare di quelle imprese che investono (e che rischiano) puntando su percorsi di crescita sostenibili e duraturi. Anche diversi provvedimenti inseriti nei decreti attuativi della delega fiscale si muovono nella medesima direzione: penso ad esempio alle novità introdotte in tema di cooperative compliance. Sono strumenti che vanno ulteriormente rafforzati e, soprattutto, resi di facile accesso e utilizzo per le imprese. La prossima legge di stabilità dovrà continuare a muoversi lungo il solco dello stimolo agli investimenti e all’innovazione: un buon esempio arriva dalla Francia dove la legge Macron ha introdotto un misura fiscale di accelerazione delle quote di ammortamento degli investimenti industriali.

Sugli altri fronti occorre disegnare una strategia complessiva. L’Italia, a oltre due anni dell’integrazione di Sace in Cdp, non si è ancora dotata di un modello di export bank forte, integrato e competitivo capace di sostenere al meglio la proiezione internazionale delle nostre imprese (fortunatamente cresciuta in modo spontaneo in questi anni).

Sulla digitalizzazione, molti territori a forte vocazione industriale rimangono tutt’oggi scoperti da una decorosa copertura di rete a banda ultralarga e i piani del governo stentano a trovare le coperture necessarie all’infrastrutturazione digitale, soprattutto nell’ingaggio con risorse private. Per tornare a investire servono risorse finanziarie. Politica industriale e mercati finanziari sono come non mai legati. Molte imprese sono ricche di liquidità e attendono solo un segnale di fiducia per tornare a investire in maniera importante. Altre invece, per quanto ancora sane dal punto di vista industriale, sono spesso frenate dai livelli di indebitamento accumulati e non trovano adeguati strumenti per il loro “esdebitamento”, turnaround e rilancio (qui vi è il timore che le cose non miglioreranno dopo le recenti modifiche alla legge fallimentare e all’istituto del concordato). Il sistema bancario a sua volta, a causa di regole prudenziali sempre più stringenti (soprattutto in Europa), non è in grado di fare da indifferenziato magazzino di rischio e di intermediare le risorse con un significativo effetto moltiplicatore sugli impieghi.

Da qui l’esigenza – colta anche a livello europeo con il progetto di una Capital Market Union – di attivare un canale di intermediazione diretto fra il grande risparmio di cui ancora il nostro paese dispone (parliamo di centinaia di miliardi di risparmio che si sta accumulando sia sul pilastro previdenziale che su quello assicurativo) e gli investimenti nell’economia reale. Purtroppo oggi meno dell’1 per cento del nostro cospicuo risparmio privato trova una qualche forma di impiego nel settore industriale italiano. Certo, una parte significativa sostiene il nostro debito pubblico, ma un cifra davvero imponente finanzia gli investimenti di imprese non italiane. Insomma esportiamo il nostro risparmio, quando in molti Paesi avanzati la canalizzazione del risparmio di lungo periodo sull’economia nazionale costituisce un preciso strumento di politica industriale.

L’industria ha poi bisogno di nuovo slancio imprenditoriale. Il nostro capitalismo è anziano e si trova nel guado di delicatissimi passaggi generazionali e manageriali. Sono le nuove imprese ad alto contenuto innovativo quelle che contribuiranno all’occupazione del domani. Il nostro paese si è da qualche tempo dotato di una legislazione di avanguardia per sostenere e diffondere imprenditorialità innovativa: occorre fare di queste prime sperimentazioni positive un modello per una platea ben più ampia di imprese. Si è iniziato a farlo con le pmi innovative ma sarebbe bene proseguire.

Infine occorre attrarre e attivare investimenti e sviluppare nuove iniziative imprenditoriali in quelle filiere – e sono molte – in cui l’Italia gode ancora di significativi vantaggi competitivi. Nella filiera della componentistica automotive, per esempio, ci sono tutti gli spazi per attrarre un secondo produttore auto, lungo il solco tracciato con l’accordo con Audi-Lamborghini che ha portato un significativo investimento in R&S e una nuova linea di produzione.

Nelle tante filiere dell’industria agroalimentare ci sono spazi di crescita ancora inesplorati. Il successo di Expo ce lo sta dimostrando ogni giorno. E’ prioritario lavorare al rafforzamento della capacità distributiva internazionale dei nostri prodotti. Ma soprattutto non si può pensare di tenere il nostro Made in Italy alimentare, riconosciuto e apprezzato dal consumatore per la sua straordinaria qualità, costantemente impegnato in una battaglia di retroguardia con il mondo agricolo sull’origine effettiva della materia prima. Così, altro che sostenere il Made in Italy: non esisterebbe il caffé italiano, non esiterebbe il cioccolato italiano, non esisterebbe la pasta italiana.

Ci sono spazi per consolidare le nostre filiere nell’aerospazio, nella microelettronica, nella meccanica strumentale, nella cantieristica, nella produzione sostenibile e nella distribuzione smart dell’energia, nell’information technology portando avanti progetti di investimento in chiave Industry 4.0, rendendo più strategici ed integrati i rapporti fra i capi filiera, le aziende pivot e la catena di fornitura e sub-fornitura. Si possono cogliere tanto le opportunità di efficientamento incrementale dei processi produttivi, quanto le possibilità rivoluzionarie di ripensamento vero e proprio dei modelli di business che si stanno aprendo grazie all’impetuosa trasformazione digitale del manifatturiero, all’utilizzo estensivo dei dati – un vero e proprio nuovo fattore di produzione – per gestire le fabbriche in tempo reale, per intercettare e persino anticipare i bisogni dei clienti, per integrare sempre più prodotti e servizi post vendita.

Oggi, finalmente, un segno positivo sta di fronte ai dati dell’economia. Non accontentiamoci. Il Paese merita di esprimere più fiducia nelle sue capacità e potenzialità. È possibile tornare a disegnare un’azione di politica industriale senza che questo comporti un maggiore interventismo dello Stato nell’economia. Occorre creare tutte le condizioni affinché si torni ad investire di più e soprattutto meglio, abbandonando la stagione degli incentivi distribuiti un po’ a tutti e premiando i comportanti virtuosi di quei tanti imprenditori che innovano e rischiano, che competono su mercati sempre più lontani e complessi, che modernizzano processi e prodotti, che costruiscono progetti per lo sviluppo competitivo nelle nostre filiere industriali.

→  agosto 24, 2015

Articolo collegato di Daniel Clery

In a suburban industrial park south of Los Angeles, researchers have taken a significant step toward mastering nuclear fusion—a process that could provide abundant, cheap, and clean energy. A privately funded company called Tri Alpha Energy has built a machine that forms a ball of superheated gas—at about 10 million degrees Celsius—and holds it steady for 5 milliseconds without decaying away. That may seem a mere blink of an eye, but it is far longer than other efforts with the technique and shows for the first time that it is possible to hold the gas in a steady state—the researchers stopped only when their machine ran out of juice.
“They’ve succeeded finally in achieving a lifetime limited only by the power available to the system,” says particle physicist Burton Richter of Stanford University in Palo Alto, California, who sits on a board of advisers to Tri Alpha. If the company’s scientists can scale the technique up to longer times and higher temperatures, they will reach a stage at which atomic nuclei in the gas collide forcefully enough to fuse together, releasing energy.
“Until you learn to control and tame [the hot gas], it’s never going to work. In that regard, it’s a big deal. They seem to have found a way to tame it,” says Jaeyong Park, head of the rival fusion startup Energy/Matter Conversion Corporation in San Diego. “The next question is how well can you confine [heat in the gas]. I give them the benefit of the doubt. I want to watch them for the next 2 or 3 years.”
Although other startup companies are also trying to achieve fusion using similar methods, the main efforts in this field are huge government-funded projects such as the $20 billion International Thermonuclear Experimental Reactor (ITER), under construction in France by an international collaboration, and the U.S. Department of Energy’s $4 billion National Ignition Facility (NIF) in Livermore, California. But the burgeoning cost and complexity of such projects are causing many to doubt they will ever produce plants that can generate energy at an affordable cost.
Tri Alpha’s and similar efforts take a different approach, which promises simpler, cheaper machines that can be developed more quickly. Importantly, the Tri Alpha machine may be able to operate with a different fuel than most other fusion reactors. This fuel—a mix of hydrogen and boron—is harder to react, but Tri Alpha researchers say it avoids many of the problems likely to confront conventional fusion power plants. “They are where they are because people are able to believe they can get a [hydrogen-boron] reactor to work,” says plasma physicist David Hammer of Cornell University, also a Tri Alpha adviser.
But burning hydrogen-boron fuel requires truly enormous temperatures, more than 3 billion degrees Celsius, and that will be “very challenging,” says plasma physicist Jon Menard of the Princeton Plasma Physics Laboratory in New Jersey, who is not involved in the project. He says it’s very hard to predict how the gas will behave at higher temperatures. “I’m a little concerned that their [simulations] lag behind their experience,” he says, but the approach “is worth further investigation.”
Like other fusion techniques, Tri Alpha’s device aims to confine a gas so hot that its atoms are stripped of electrons, producing a roiling mixture of electrons and ions known as plasma. If the ions collide with enough force, they fuse, converting some of their mass into energy, but this requires temperatures of at least 100 million degrees Celsius with conventional fuel, hot enough to melt any container. So the first challenge for reactor designers is how to confine the plasma without touching it. Facilities like the NIF rapidly implode the plasma, relying on its inward inertia to hold it long enough for a burst of fusion reactions. The ITER, in contrast, holds the plasma steady with powerful magnetic fields inside a doughnut-shaped chamber known as a tokamak. Some of the field is provided by a complex network of superconducting magnets, the rest by the plasma itself flowing around the ring like an electric current.
Tri Alpha’s machine also produces a doughnut of plasma, but in it the flow of particles in the plasma produces all of the magnetic field holding the plasma together. This approach, known as a field-reversed configuration (FRC), has been known since the 1960s. But despite decades of work, researchers could get the blobs of plasma to last only about 0.3 milliseconds before they broke up or melted away. In 1997, the Canadian-born physicist Norman Rostoker of the University of California, Irvine, and colleagues proposed a new approach. The following year, they set up Tri Alpha, now based in an unremarkable—and unlabeled—industrial unit here. Building up from tabletop devices, by last year the company was employing 150 people and was working with C-2, a 23-meter-long tube ringed by magnets and bristling with control devices, diagnostic instruments, and particle beam generators. The machine forms two smoke rings of plasma, one near each end, by a proprietary process and fires them toward the middle at nearly a million kilometers per hour. At the center they merge into a bigger FRC, transforming their kinetic energy into heat.
Previous attempts to create long-lasting FRCs were plagued by the twin demons that torment all fusion reactor designers. The first is turbulence in the plasma that allows hot particles to reach the edge and so lets heat escape. Second is instability: the fact that hot plasma doesn’t like being confined and so wriggles and bulges in attempts to get free, eventually breaking up altogether. Rostoker, a theorist who had worked in many branches of physics including particle physics, believed the solution lay in firing high-speed particles tangentially into the edge of the plasma. The fast-moving incomers would follow much wider orbits in the plasma’s magnetic field than native particles do; those wide orbits would act as a protective shell, stiffening the plasma against both heat-leaking turbulence and instability.
To make it work, the Tri Alpha team needed to precisely control the magnetic conditions around the edge of the cigar-shaped FRC, which is as many as 3 meters long and 40 centimeters wide. They did it by penning the plasma in with magnetic fields generated by electrodes and magnets at each end of the long tube.
In experiments carried out last year, C-2 showed that Rostoker was on the right track byproducing FRCs that lasted 5 milliseconds, more than 10 times the duration previously achieved. “In 8 years they went from an empty room to an FRC lasting 5 milliseconds. That’s pretty good progress,” Hammer says. The FRCs, however, were still decaying during that time. The researchers needed to show they could replenish heat loss with the beams and create a stable FRC. So last autumn they dismantled C-2. In collaboration with Russia’s Budker Institute of Nuclear Physics in Akademgorodok, they upgraded the particle beam system, increasing its power from 2 megawatts to 10 megawatts and angling the beams to make better use of their power.
The upgraded C-2U was back in operation by March. At a symposium today in memory of Rostoker, who died in December, Tri Alpha’s chief technology officer Michl Binderbauer announced that by June the new machine was producing FRCs lasting 5 milliseconds with no sign of decay; they remained the same size throughout.
Binderbauer says that next year they will tear up C-2U again and build an almost entirely new machine, bigger and with even more powerful beams, dubbed C-2W. The aim is to achieve longer FRCs and, more crucially, higher temperature. A 10-fold increase in temperature would bring them into the realm of sparking reactions in conventional fusion fuel, a mixture of the hydrogen isotopes deuterium and tritium, known as D-T. But that is not their goal; instead, they’re working toward the much higher bar of hydrogen-boron fusion, which will require ion temperatures above 3 billion degrees Celsius.
Researchers have several reasons for wanting to go that extra mile. First, tritium doesn’t occur naturally on Earth, so it has to be made by bombarding lithium with neutrons. Physicists plan to do this in the fusion reactors that will one day consume the tritium, but no one has shown that such a process is practical. Because D-T reactions also produce large quantities of high-energy neutrons, the reactors need thick shielding. But the neutrons still degrade the structure of the reactor and make it radioactive. Researchers don’t yet know if it will be possible to find radiation-hard materials capable of surviving the onslaught. Many think these make D-T fusion impractical for a commercial reactor. “I wouldn’t have spent 10 years on [Tri Alpha’s advisory] committee if it was working on a D-T system,” Richter says.
Hydrogen-boron, at first, doesn’t look much more promising. “It takes 30 times as much energy to cook, and you get half as much energy out per particle,” Binderbauer says. But boron is abundant, and the reaction produces no neutrons, just three alpha particles (helium nuclei)—hence the company’s name. Hydrogen-boron fuel “makes conversion to electricity much easier and simpler,” Richter says.
Says one investor in the company, who asked not to be named, “for the first time since we started investing, with this breakthrough it feels like the stone is starting to roll downhill rather than being pushed up it.”

→  agosto 14, 2015


articolo colleato di Massimiliano Trovato

La notizia della privatizzazione di Poste Italiane è fortemente esagerata. Molto resta da stabilire – l’entità del collocamento, la forchetta di prezzo, la ripartizione tra risparmiatori e investitori istituzionali – ma, a distanza di quasi due anni dall’iniziale annuncio del governo (allora presieduto da Enrico Letta), la strada per lo sbarco in Borsa del colosso pubblico è ormai tracciata. Con la consegna alla Consob della richiesta di ammissione alle negoziazioni e dei prospetti informativi, comincia l’iter che – salvo intoppi – condurrà al debutto dell’ex monopolista del recapito a Piazza Affari tra fine ottobre e inizio novembre. Confermata l’impalcatura dell’operazione: la cessione riguarderà fino al 40 per cento del capitale, con una quota di consistenza ancora incerta da destinarsi ai dipendenti, e un tetto al possesso azionario del 5 per cento. Dall’iniziativa l’esecutivo si attende ricavi compresi tra i 2,4 e i 4,4 miliardi di euro. A queste cifre, è comprensibile che il dossier catalizzi l’entusiasmo di un mercato disabituato alle dismissioni pubbliche e, più in generale, poco avvezzo a partite di simile portata: ma, muovendo dalle implicazioni finanziarie a quelle industriali e concorrenziali, è possibile sostenere – come fanno, con una voce sola, i commentatori – che l’Ipo dell’anno sarà anche la privatizzazione dell’anno?
In senso proprio, una privatizzazione persegue tre obiettivi convergenti: il primo è il recupero di risorse per l’erario, cui il progetto di collocamento di Poste sembra poter assistere efficacemente – mentre nessuna garanzia si può rinvenire ai fini dell’alienazione del controllo e dell’apertura del mercato, le altre due finalità di una privatizzazione rettamente intesa. Sotto il primo profilo, anzi, ogni indicazione punta nella direzione opposta: il Tesoro manterrà una salda maggioranza; il limite del 5 per cento scoraggerà l’ingresso di partner industriali; l’attribuzione ai dipendenti (cioè ai sindacati) cementerà gli equilibri esistenti e rischierà d’ipotecare l’evoluzione dell’azienda. Quanto all’impatto sul mercato, sui concorrenti, sui consumatori, l’inerzia del legislatore (sordo alle sollecitazioni dell’Antitrust) è significativa. Basti ricordare la vicenda della riserva sulla consegna degli atti giudiziari, tuttora garantita a Poste a un lustro dalla formale liberalizzazione del settore; privilegio limitato – s’intende – ma rivelatore, e difeso anche in queste settimane proprio con l’intento di non deprimere le prospettive d’incasso della quotazione. Si tratta di un argomento pericoloso, perché procedere a legislazione invariata rischia di scolpire nel prezzo di collocamento un’aspettativa d’intangibilità delle regole, allontanando ulteriormente il completamento della liberalizzazione. Naturalmente ci sono questioni assai più scottanti della riserva sul recapito delle multe.

La principale è quella della natura ibrida di Poste e del suo reticolo di 14.000 uffici. Già oggi è estremamente complesso dipanare le commistioni e i sussidi incrociati esistenti tra il core business postale, strutturalmente in sofferenza, e i comparti bancario e assicurativo, da cui provengono la larga maggioranza dei ricavi e pressoché la totalità degli utili del gruppo. La storia delle liberalizzazioni insegna che l’integrazione (verticale o orizzontale) tra attività diverse può portare efficienza, se emerge in un contesto di mercato, ma può ostacolare lo sviluppo concorrenziale di un settore se viene trasferita da un monopolista pubblico al suo erede (integralmente o parzialmente) privato. Allo stato attuale, sarebbe persino banale pensare alla separazione del Bancoposta dalle altre attività di Poste, che si esaurirebbe in una decisione unilaterale dell’azionista pubblico; a collocamento avvenuto, un’analoga risoluzione incontrerebbe le giustificate resistenze degli azionisti privati. Completare la dismissione senza sciogliere questi nodi competitivi, mettendo in vendita quella che a tutti gli effetti si configura come una rendita monopolistica, è l’opzione più redditizia. Ma rimane una maldestra operazione di cassa.

→  agosto 12, 2015


articolo collegato di John Gapper

After software engineering and financial engineering comes linguistic engineering. Google this week raised its market capitalisation by $25bn by shuffling around some executive jobs and changing its name to Alphabet. Who knew that swapping your tiles in a game of corporate Scrabble was worth so much?
Everyone reads what they want into the new letters. For Larry Page, Google’s restless co-founder, Alphabet means jettisoning the cares of running a corporation and becoming a full-time inventor and venture capitalist, while Sundar Pichai takes the leadership of Google. For employees, it brings the hope of more valuable share options. For Wall Street, it spells clarity.
Only governance renegades would invent a structure with one board for Google and Alphabet, the founding triumvirate — Eric Schmidt, Sergey Brin and Mr Page — stacked above Mr Pichai, and Ruth Porat as chief financial officer of both. “Google is not a conventional company,” wrote Mr Brin and Mr Page in their 2004 founders’ letter, and by heavens they meant it.
Still, being conventional is not the best way to build an innovative business or to make profits. Warren Buffett runs a unique combination of industrial conglomerate and investment fund at Berkshire Hathaway, and it has worked well for him. He made his largest ever acquisition this week, buying Precision Castparts for $32bn.
Berkshire and Alphabet are different kinds of businesses. Mr Buffett values cash flow and mature brands; Mr Page prefers to create things. One of the purposes of this week’s reshuffle is to prove to investors that not as much as they fear is being spent on experimental start-up projects, such as Project Loon’s high-altitude balloons providing internet access to remote areas.
Mr Page’s naming of Mr Buffett as a role model in providing “long-term, patient capital” to an array of businesses is not idle. He thinks that a multi-business group with a guiding intelligence at the centre can beat the single-sector company favoured by investors. The “conglomerate discount” applied by Wall Street can be defeated.
In principle, that is an odd thing for Mr Page to believe. Google’s technology, after all, uses online auctions and markets — the wisdom of the crowd, not human curation. Why should conglomerates such as Alphabet, with their entrenched interests and fiefdoms, be better than capital markets at allocating capital efficiently? Does he trust in inside knowledge only when the insider is himself?
But he is right. Conglomerates can outperform when they exploit their advantages and remain disciplined rather than falling prey to empire-building. Their ability to build a cadre of skilled managers and to pick the right investment projects is strongest in research-intensive industries that invest in intellectual property, which is Alphabet’s territory.
Neil Bhattacharya, a professor at Southern Methodist University in Texas, found in a study that multi-business companies ran operations more efficiently than single-sector ones. They had particular advantages in areas such as software and life sciences because managers could judge more accurately than stock markets which projects were likely to succeed.
This is counterintuitive, given US investors’ liking for simplicity, and view of conglomerates as inefficient. Public conglomerates in the US are valued at discounts of 10 to 15 per cent to single-sector companies, according to Boston Consulting Group — though the discount is lower in Europe, and Asian conglomerates often trade at a premium.
The suspicion originates in the 1970s and 1980s, the era of companies such as ITT and RJR Nabisco. Michael Jensen, a Harvard professor, later criticised the “billions in unproductive capital expenditures and organisational inefficiencies” at conglomerates, praising the trend toward “smaller, more focused, more efficient” enterprises.
Big corporations remain prey to temptation. Boston Consulting Group found that the conglomerate discount is partly due to conservatism. They tend to invest heavily in their original businesses, which may be stagnant or in decline, while undervaluing newer divisions with more potential. Microsoft, for example, suffered from trying to reinforce its Windows franchise.
Yet even investors who are suspicious of quoted conglomerates delegate capital allocation and management oversight in private markets to informed insiders. Venture capital and private equity funds are both forms of conglomerate — they invest capital in a broad portfolio of businesses on behalf of outsiders who believe that such funds possess superior expertise.
Why, though, should investors seeking exposure to new companies buy shares in Alphabet, which then channels Google’s surplus cash into its own venture and growth funds, Project Loon, self-driving cars and life sciences? They could instead invest money directly in a venture capital fund. Why take the longer and less-direct road?
It depends on trust. Investors could also have bought shares in Precision Castparts last week for less than Berkshire Hathaway paid this week, but they do not complain because they trust Mr Buffett. Alphabet’s shareholders must believe in Mr Page and Mr Brin’s ability to use their intelligence and avoid the traditional pitfalls.
To judge by the shares this week, they prefer a conglomerate called Alphabet to a company that had not made plain what it was. Strange as it seems, it is a rational choice.