Quelle authority sotto tutela

marzo 17, 2010


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Agcom, antitrust e la mano della politica

di Sergio Rizzo

Le intenzioni di partenza erano ottime. Le authority dovevano essere gli anticorpi della società moderna contro i soprusi dei monopoli, l’avidità degli speculatori e le intrusioni improprie della politica. Compiti da far tremare i polsi a chiunque, in un Paese con una lunga tradizione statalista dove il mercato ha sempre faticato ad affermarsi. Il requisito fondamentale per assolverli con efficacia era l’indipendenza. Una indipendenza non soltanto formale: nomine non influenzate dalla politica, autonomia finanziaria e possibilità di mostrare i muscoli.

>Così doveva essere. Ma così non è stato esattamente. Le nostre authority hanno poteri limitati e spesso li esercitano timidamente. Anche perché le loro decisioni sono perennemente sotto il tiro dei ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Per giunta, sono state anche ingolfate di competenze insensate, totalmente prive di alcun potere sanzionatorio, come quelle sul conflitto d’interessi appioppate all’Antitrust e al Garante per le comunicazioni. L’autonomia finanziaria è quella che è, se si pensa che alla fine dello scorso anno era stato proposto un fondo unico (non a tutti gradito) con l’idea di risolvere il problema e alla fine si è resa necessaria una colletta fra le autorità per soccorrere qualcuna di esse in difficoltà economica. Per non parlare poi dell’influenza della politica. I meccanismi di nomina, tutti diversi l’uno dall’altro, offrono ai partiti spazi di penetrazione enorme. Dei 58 commissari che governano le dieci autorità considerate «indipendenti», ben 17 sono di emanazione diretta della politica: ex parlamentari o ex esponenti dei governi di vario colore. Quasi uno su tre. Di questi, ben cinque su otto componenti sono nel solo Garante per le comunicazioni: dove il presidente è indicato dal governo e gli otto componenti sono nominati per metà dalla maggioranza e per metà dall’opposizione.

Alla luce di ciò, ben si comprende perché non sia mai andata in porto la riforma, annunciata dal centrodestra e dal centrosinistra, che avrebbe dovuto rendere omogenei i criteri di nomina sottraendoli alle logiche spartitorie. E anche perché un’authority come quella dell’Energia, i cui componenti sono designati con un sistema bipartisan, cioè a maggioranza qualificata dalle commissioni parlamentari, sia monca di tre commissari su cinque da addirittura un quinquennio. Mentre negli ultimi due anni si sono registrati in Parlamento almeno quattro tentativi di limitarne i margini di manovra su suggerimento del governo.

La verità è che una riforma del genere nessuno la vuole. Meglio avere a che fare con autorità «formalmente» indipendenti ma che nella sostanza sono permeabili dalla politica. O che almeno la politica può trattare come una comoda foglia di fico da mettere o togliere a piacimento. Con risvolti talvolta assurdi. Un caso? L’Autorità delle comunicazioni può sanzionare i programmi Rai che non rispettano in campagna elettorale le parità di condizioni fra i vari partiti, non può mettere bocca sulle regole della par condicio se queste riguardano la tivù di Stato. Di quelle si occupa la commissione parlamentare di vigilanza. Con il risultato che i talk show «privati» sono di competenza dell’authority e quelli «pubblici» del Parlamento. Con tutta la buona volontà, ma che senso ha?

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