Perché oggi quel che va bene a Marchionne va bene all’Italia

settembre 20, 2012


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


“Per anni ho pensato che ciò che era buono per la nazione fosse buono per la General Motors e viceversa”. Era il 1953 quando Charles Erwin Wilson pronunciò la famosa frase. Oggi, riflettendo sulle accuse mosse a Marchionne, vien da porsi una domanda più radicale: ci sono strategie “che siano buone per la nazione” e non “buone” per la Fiat? E’ possibile che ci siano?

Questo non a seguito di quanto abbiamo imparato in sessant’anni, l’inflazione a due cifre prodotta dalle politiche keynesiane, la sclerosi delle verticalizzazioni e del gigantismo industriale, per cui oggi “politica industriale” si scrive tra virgolette: ma per ragioni logiche. Supponiamo per absurdum, che esista una strategia che dà un delta negativo per il Gruppo Fiat ma vantaggi per il Paese. Fiat ha importanti insediamenti industriali nel nostro Paese, il delta negativo suo è paro paro al delta negativo per l’Italia. Dell’Alfa Romeo adesso tutti sanno tutto: si scrive dell’interesse della VW all’acquisto del marchio, le si attribuisce la disponibilità ad accollarsi uno stabilimento. C’è da supporre che i progetti a cui lavorano le banche di investimento li avranno fatti leggere anche a Marchionne: il quale ha detto che, se quello è il progetto, non se ne parla, e che commercializzerà vetture Alfa Romeo prodotte in USA. Evidentemente ha fatto il conto: il maggiore margine industriale realizzato in Usa è superiore al margine finanziario positivo per il ricavato della vendita del marchio sommato alla riduzione del margine negativo delle operazioni industriali in Italia. Chi dispone di informazioni per dire che non è così? I margini dei costruttori di auto sono modesti, minimi per chi fa veicoli di fascia medio-bassa: chi ha le conoscenze per sapere che è più vantaggioso rinunciare ai margini delle vendite in America per evitare (forse) i costi di un problema occupazionale in Italia? Ma c’è una domanda ancora più radicale: che cosa stiamo confrontando? L’interesse della Fiat è chiaro, e il risultato misurabile: fare più margini vendendo auto. Ma l’interesse del Paese quale è? Pagare l’ossigeno al Sulcis o all’Alcoa? E si resiste alla tentazione di parlare del resto: sta sui giornali, poche pagine più in là.

Retrospettivamente è facile individuare i bivi, quando si è presa una strada invece di un’altra, Quando i mercati si sono aperti e sono sparite le riserve di caccia, la FIAT ha puntato più sull’allargamento che sull’approfondimento, più sulle opportunità adiacenti che sul core business. Chi diversifica è perché vede un rischio, e vuole ridurlo. E’ vero, ci sono anche il Brasile e la Russia, la Citroen e la Ford. Ma l’impressione globale è che in Fiat non ci fosse la dedizione finanziaria e la maniacale attenzione dei Piech, dei Toyota, dei Quandt, dei Ford. Il più internazionale dei nostri industriali, che andava in barca a vela coi Kennedy, pranzava con Kissinger e posava per Warhol, nei suoi rapporti con i poteri politici, sindacali, finanziari, era italocentrico osservante, di rito mediobanchesco. Va detto che se torto era, torto condiviso fu: andava bene a tutti, ai politici, alle grandi famiglie del capitalismo. Andava benissimo al sindacato, ma neppure retrospettivamente lo si vuol vedere; si scrive di Alfa Romeo ma neppure si ricordano gli irriducibili di Arese, emblema di una politica. Si denuncia l’eccessivo peso delle attività italiane, e ci si scatena contro la straordinaria operazione di internazionalizzazione, che ha salvato Chrysler e Fiat; si rinfacciano i do ut des della politica, e si inveisce contro chi rifiuta gli aiuti della politica. Ma quello che francamente sconcerta è che chi ha parole mordaci per questi vertici aziendali, dimentichi il “bene per il Paese” che ha fatto la Fiat scrollando l’albero di norme sindacali sclerotizzate. Allora non tutti applaudirono convinti, oggi nessuno di quelli che criticano e reclamano “politiche industriali”, ricordano questa supplenza fatta da un’industria alla politica.
Il paese della VW otto anni fa ha adottato le leggi Hartz, la riforma Monti del mercato del lavoro è sostanzialmente fallita. Il nostro problema è la competitività del paese, e il modo in cui recuperarla: è un errore incalzare Monti perché si occupi di un’unica azienda.

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