Libertà di banca aiuta la crescita

febbraio 14, 2004


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Risposta a chi non vuol cambiare

“Ma lo sapete o no, che le banche passano la maggior parte del loro tempo a cercare di mettere mano alle crisi dei grandi gruppi industriali! Lo sapete o no, voi che volete levare a Bankitalia l’antitrust bancario, che cosa capiterebbe del nostro sistema industriale, se le nostre banche se le comprassero gli stranieri?”.

Chi sostiene principi liberisti si chiede già sempre per conto suo se abbia trascurato di prendere in adeguata considerazione alcuni dati del problema, se i suoi propositi non siano astratti, se il nostro non sia irrimediabilmente un paese diverso, a cui non si adattano principi pur mai smentiti nei secoli. E se lo chiede ancor di più se a fare queste obbiezioni é un interlocutore di grande autorevolezza. Che poi rincara la dose: “Quanto a voi della sinistra, vi rendete conto che così il governo riuscirebbe a mettere le mani sulle banche, dopo averci provato senza successo con il decreto sulle Fondazioni bancarie?” Per il nostro liberista, altro e più severo esame di coscienza: sarò mica politicamente distratto oltre che economicamente astratto?
E’ certo possibile: se il Governatore perdesse il potere antitrust, qualche grande banca potrebbe passare in mano straniera. Bankitalia autorizza i passaggi di quote superiori al 5% tenendo conto in primo luogo della stabilità del sistema, senza doverlo motivare, e in modo inappellabile; l’Antitrust ove non ravvisasse il costituirsi di posizioni dominanti, non potrebbe negare l’autorizzazione, alla fine di un processo ad evidenza pubblica e appellabile. E’ probabile? Se ne é molto discusso recentemente: da un lato anche un istituto come Deutsche Bank non ha dimensioni adeguate a reggere la concorrenza, dall’altro fondere culture aziendali diverse (e appagare gli ego dei gruppi dirigenti) é un’operazione a rischio, in modo particolare se i soggetti sono di paesi diversi. Le banche straniere sono presenti da anni nel capitale delle nostre maggiori banche; ma prendere il controllo costa caro. Se lo decidessero, sarebbe in base a calcoli puramente economici, non per entrare nelle intricacies del nostro sistema economico e dei poteri che vi operano. Anzi quelle le considererebbero come un inconveniente da tenere in conto, non certo come un’opportunità da cogliere.
Veniamo ora al pericolo rappresentato dal mio interlocutore. Ci sono due banche italiane, una, che chiameremo N, controllata da capitale italiano, l’altra, che chiameremo S, a controllo straniero, Di fronte ad una crisi industriale, in che cosa differirebbero i loro comportamenti? La banca S, quanto alle conoscenze ed esperienze sulla gestione di crisi industriali, può attingere ad un patrimonio di conoscenze superiori a quella di N. Sostenere che l’intervento di S sarebbe meno efficace, equivale quindi a dire che le decisioni di N saranno guidate da considerazioni non solo economiche, ma anche di altro tipo, diverse: il mantenimento di posti di lavoro, il rischio per l’indotto, il potere politico degli interessi coinvolti. Considerazioni legittime: ma chi paga? Se il nostro interlocutore ha ragione, sono gli azionisti di N a sopportare oneri che invece S chiederebbe che venissero pagati dai contribuenti. Le azioni di N dovrebbero deprezzarsi rispetto a quelle di S, aumenterebbe il costo del capitale per N, ciò che renderebbe più costoso l’intervento nella prossima azienda in crisi. E se la politica rimborsa N del sovra costo per comportamenti non giustificabili economicamente, produce effetti di iniquità distributiva e di distorsione dei mercati evidenti.
Naturalmente può anche darsi che sia la banca straniera S ad essere sensibile ad altre considerazioni politiche. Poniamo, per riferirci a un caso recente, che il capitale di S sia tedesco e che su S si esercitino pressioni per favorire una soluzione che avvantaggia il sistema industriale tedesco, o che va incontro agli interessi dei sindacati tedeschi. Ma in tal caso la conseguenza sarebbe solo che S non parteciperà all’operazione, a vantaggio delle altre banche, N o S che siano.
Il mio interlocutore faceva una seconda obbiezione, vale a dire che il cambiamento di responsabilità di controllo consentirebbe al Governo di mettere le mani sulle banche. Ma questa seconda obbiezione è in contraddizione con la prima. Difendere la proprietà nazionale delle banche per la loro disponibilità a intervenire in caso di crisi aldilà di quanto economicamente conveniente per la banca, equivale a postulare che ci debba essere un rapporto diretto tra potere politico e istituti di credito: in tal caso, volere che questo potere sia non diretto, ma mediato da una istituzione quale la Banca centrale, reso opaco proprio dalla sua indipendenza, sarebbe davvero il peggio del peggio.
Riunire in un’unica autorità il controllo sia della stabilità sia della concorrenza, significa inevitabilmente subordinare la seconda alla prima: separarlo aumenta il grado di concorrenza tra banche. Una riforma in tal senso, non solo, come si è visto, non ha effetti negativi per la gestione delle crisi, ma al contrario è forse quella che avrebbe il maggiore effetto sulla crescita dimensionale e qualitativa delle nostre imprese.
C’è un “costo della regolazione bancaria” – come recita il titolo di un paper di Luigi Guiso, Paola Sapienza e Luigi Zingales: limitazioni della concorrenza comportano maggiore costo del credito, meno accesso al credito, e più crediti in sofferenza. Questi aumentano dopo una liberalizzazione, segno che le banche che operano in un ambiente non competitivo sono meno efficienti nell’allocazione del credito. Per questi studiosi, l’intero ritardo nello sviluppo del nostro Mezzogiorno nel secondo dopoguerra può essere spiegato come effetto delle restrizioni bancarie della legge del 1936. Se c’è poca concorrenza, le relazioni finanziarie tra banche e imprese tendono a essere di tipo relazionale, anziché del tipo at arm’s length, secondo la tipizzazione di Rajan e Zingales (Banks and Markets: the Changing Character of Europan Banks, CEPR). “I sistemi basati sulle relazioni funzionano meglio quando i mercato e le aziende sono più piccole, quando c’è meno trasparenza, e quando l’innovazione è incrementale più che rivoluzionaria. Al contrario, il finanziamento at arm’s lentgh fornisce risultati migliori quando i mercati e le aziende sono più grandi, quando esse sono organizzate in modo più formale, quando c’è maggiore trasparenza, e quando l’innovazione è più rivoluzionaria. Un sistema basato sulle relazioni fornisce una forma di assicurazione, ma al costo di ridurre l’accesso al credito e di castrare opportunità per il futuro; poggia su garanzie governative esplicite o implicite; facilita l’intervento del governo, rendendolo meno costoso e meno trasparente”. Il che legittima almeno il sospetto che valga anche la relazione inversa, e cioè che il tanto lamentato nanismo delle nostre industrie non sia una conseguenza del nostro sistema finanziario.
La relazione tra politica e industria è particolarmente stretta nel nostro Paese. Stretta e con perversi effetti sia per la politica sia per l’industria. E’ una relazione circolare, in cui è arbitrario attribuire la colpa alla politica o all’industria. Soprattutto negli ultimi anni, il sistema del credito si è venuto configurando come un mondo autonomo, compattamente organizzato, saldamente controllato, indipendente dalla politica, ma anche in grado di avere una propria agenda rispetto al mondo delle imprese. L’analisi teorica e l’evidenza empirica suggeriscono che una maggiore concorrenza nel sistema delle banche è essenziale a una maggiore concorrenzialità del nostro sistema produttivo.

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