Le fondazioni sulla plancia del Titanic

luglio 28, 2012


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di Tito Boeri e Luigi Guiso

E’ come se avessimo infranto un tabù. Nel momento più acuto della crisi del debito il ministro dell’Economia, incurante del potenziale conflitto di interessi, si è affrettato a scrivere un’accorata difese delle fondazioni bancarie in risposta alla nostra lettera aperta.

Queste ultime erano presenti, ai massimi livelli, assieme ai vertici dei maggiori istituti di credito, al seminario convocato lunedì scorso da Mediobanca proprio per discutere dello studio di cui avevamo dato notizia. Purtroppo il seminario è stato un monologo delle fondazioni, difese a priori dal moderatore, che ha candidamente confessato di non aver letto il rapporto Mediobanca e non ha concesso alcun dubbio o interlocuzione col pubblico per evitare un “dibattito disordinato”. Non è stato presentato un dato che sia uno, ma solo informazioni (meglio rassicurazioni) “qualitative”. Per questo, forzando la scaletta dell’incontro, abbiamo chiesto a Guzzetti di rendere pubblici i dati sul patrimonio delle fondazioni, valutato alle attuali quotazioni di mercato delle banche conferitarie. Sono dati essenziali per capire se effettivamente le fondazioni stanno bruciando patrimonio, condannandosi all’estinzione, come paventato dallo studio Mediobanca. Il Presidente Guzzetti ci ha risposto sostenendo che al convegno di Palermo dell’Acri ha proposto di pubblicare questi dati, ma ha omesso di rimarcare come questa sua richiesta sia stata bocciata dalle fondazioni. Ancora oggi sul sito dell’Acri non sono disponibili i bilanci dei primi 10 anni delle fondazioni, quelli successivi non sono organizzati secondo principi contabili comunemente accettati e non sono tra di loro comparabili. Questa scarsa trasparenza fa molto male alle nostre fondazioni. Neppure il ministero del Tesoro sembra si senta in dovere, come autorità di regolazione, di raccogliere questi dati. La direttrice dell’ufficio del dipartimento del Tesoro, responsabile per legge di questa raccolta, non sapeva neanche che era suo compito supervisionare la pubblicazione dei bilanci.A noi sta a cuore il futuro delle fondazioni. Temiamo che rimangano senza patrimonio per assistere non le banche, ma le persone bisognose di aiuto, in un momento in cui le risorse pubbliche per l’assistenza, la ricerca, la cultura sono più che mai limitate. Non è vero, peraltro, che le fondazioni perseguono questi fini attraverso le banche: lo studio Mediobanca dimostra che le banche partecipate hanno licenziato di più e hanno erogato meno credito a famiglie e imprese delle altre banche. Il ministro Grilli, nella sua risposta, ha voluto ignorare queste preoccupazioni sul futuro delle fondazioni, ponendo invece l’accento sul loro contributo all’aggregazione delle banche prima della crisi e, successivamente, alla loro ricapitalizzazione. Anche questaricostruzione storica ci appare lacunosa.Secondo il ministro dell’Economia, le fondazioni avrebbero «portato avanti» il processo di aggregazione delle nostre banche. A noi non risulta, tanto per fare un esempio, che la Compagnia San Paolo di Torino abbia giocato un molo trainante nella fusione tra Banca Intesa e San Paolo. Anche le aggregazioni di realtà più piccole (ad esempio, il matrimonio fra Rolo e Banca dell’Umbria) sono state subite, più che sostenute, dalle fondazioni, e la riprova è che hanno anche chiesto contropartite in termini di propri rappresentanti nei Cda delle nuove realtà, contribuendo a gonfiare i Cda di molte banche italiane, grandi e piccole. Il processo di aggregazione è stato sospinto dalle forze di mercato (avveniva al contempo quasi ovunque nel mondo), motivato dalla frammentazione del sistema bancario italiano al momento della creazione del mercato unico bancario, promosso dalla Banca d’Italia per risolvere la crisi delle banche meridionali, incentivato dal timore di scalate, in alcuni casi dalla politica. Le aggregazioni bancarie hanno offerto, questo sì, alle fondazioni bancarie l’opportunità di portare la p artecip azione sotto i150% del capitale della banca, come imposto dalla legge, senza dover cedere il pacchetto. Ma una volta scesi sotto questo livello, non si è andati oltre, come riconosciuto dallo stesso ministro nella sua risposta. Il fatto è che molte fondazioni non hanno voluto e non vogliono scendere al di sotto di queste quote. Lunedì diversi presidenti delle fondazioni hanno rivendicato la necessità di sostenere le «banche che promuovono lo sviluppo del territorio» e i banchieri hanno rimarcato l’importanza di «assicurare investitori stabili alle banche». Vittorio Grilli riconosce che le fondazioni dovrebbero diversificare di più, ma ritiene che passare dal 100% di una banca a un portafoglio diversificato sia un «processo ineluttabile» che richiede tempo. In realtà questo “processo” si è arrestato ben prima della crisi e in non pochi casi è tornato indietro. Perché allora l’autorità regolatoria non intervenne per spingere le fondazioni a diversificare il loro portafoglio, in coerenza con le leggi dello Stato? Il momento era propizio date le quota-zioni dei titoli delle banche. Facendolo allora non solo avrebbero realizzato incrementi di valore ma avrebbero anche contenuto le ingenti riduzioni del loro patrimonio poi registrate a causa della svalutazione delle loro partecipazioni.È vero che le fondazioni hanno in molti casi (non tutti!) contribuito agli aumenti di capitale delle banche conferitarie. Avendo deciso di fare gli azionisti, si sono comportate in modo conseguente. Ma questo non dimostra affatto che questo intervento «ha evitato allo Stato, dunque al contribuente, di intervenire». La presenza delle fondazioni potrebbe avere in molti casi scoraggiato l’intervento di investitori privati che avevano espresso interesse a rafforzare la loro presenza nelno stro sistemabancario . Non è un caso che l’annuncio da parte di Fondazione Mps della scelta di vendere il 15% del capitale della banca, sia stata accompagnata da una forte valorizzazione del titolo in Borsa. Inoltre, la sottoscrizione da parte delle fondazioni degli aumenti di capitale non è affatto a costo zero per il contribuente. Ricapitalizzare le banche con la propria dotazione significa limitare le erogazioni future a vantaggio delle popolazioni di riferimento. Queste forse non dovranno pagare più tasse ma otterranno meno trasferimenti, il che è la stessa cosa. Mentre celebra il contributo delle fondazioni alla ricapitalizzazione delle nostre banche, l’autorità di regolazione non si sente in dovere di censurare quelle fondazioni (come Compagnia San Paolo, Cari-paro e fondazione Mps) che hanno finanziato gli aumenti1 di capitale a debito. Noi pensiamo sia una scelta contraria alla missione assegnata per legge alle fondazioni: conseguire scopi di utilità sociale. Svenarsi per partecipare agli aumenti di capitale della banca conferitaria aiuta certamente a risolvere un problema di quest’ultima, ma rischia di portare alla distruzione della missione delle fondazioni.Guardando al futuro, un confronto vero sul futuro delle fondazioni bancarie in Italia dovrebbe porsi una serie di interrogativi che rimangono senza risposta. Eccone alcuni. La missione che la legge assegna alle fondazioni è davvero compiuta al meglio con l’attuale assetto ibrido in cui esse fungono da «azionisti di lungo periodo» delle banche? Rappresentano davvero le fondazioni gli unici azionisti con questa funzione o esistono migliori alternative per la proprietà delle banche italiane? Cercare di separare banche e fondazioni — come tentò di fare Ciampi che sicuramente aveva a cuore la stabilità del sistema bancario italiano — a una velocità maggiore di quella “naturale” scelta da loro deve o non deve rientrare tra le politiche del governo?Se invece si preferisce continuare a brindare sulla plancia del Titanic, forse è meglio rimettere mano alla legge e permettere che il patrimonio delle fondazioni (di cui è bene tenere sempre a mente l’origine pubblica), prima di sparire del tutto, venga utilizzato per ridurre il debito dello Stato. A proposito, il ministro Grilli commenta questa nostra affermazione sostenendo che si tratterebbe di una «confisca». Crediamo si tratti di lapsus freudiano. Nell’ordinamento italiano, la confisca è una “misura di sicurezza patrimoniale che tende a prevenire la commissione di nuovi reati mediante l’espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo da fatti illeciti penali, manterrebbero viva l’idea e l’attrattiva del reato”. Se il ministro ritiene che ci siano gli estremi per applicare questo istituto costituzionale alle fondazioni bancarie, vuol dire che in cuor suo è molto più preoccupato di noi su come vengono oggi gestite le fondazioni bancarie.

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