Sto scrivendo come al solito con la radio accesa sul programma di musica classica del quinto canale. È un programma di qualità? Impossibile dirlo. Dato che lo ascolto, la sua qualità per me supera un livello minimo. Dato che non posso scegliere tra programmi analoghi, non posso fare una scala di qualità relative. Dato che l’ascolto è sostanzialmente gratuito, non ho nessun mezzo per dare un valore alla mia preferenza: quindi è impossibile quindi dire se questo è un programma di qualità nel senso che non ho nessun mezzo per comunicarlo. Sarei disposto a pagare una somma ragionevole per scegliere tra due o tre programmi diversi di musica classica, i fornitori di programmi avrebbero modo di misurare il gradimento, avrebbero interesse a selezionare profili di clienti diversi, con offerte differenziate per prezzo o per contenuti.
Non si tratta solo della banale affermazione che la concorrenza migliora la qualità dell’offerta. Quello che qui si sostiene è che senza questi due elementi, possibilità di scelta e misura del valore attribuito al prodotto, parlare di “qualità” di un prodotto radiotelevisivo è impossibile; la “qualità” si riduce alla valutazione autoreferenziale che il produttore dà del proprio prodotto. È quello che si verifica nella tv generalista: dove minima e la possibilità di scelta, dato che la programmazione può segmentare l’audience solo in base all’ora di ascolto, al pomeriggio i cartoons, a sera inoltrata gli approfondimenti culturali e politici; e dove minimo è il valore della preferenza espressa, il costo essendo quello di premere il tasto di un telecomando.
Il prezzo che l’ascoltatore paga per vedere un programma è il suo tempo. La tv generalista compera il tempo di ascolto al dettaglio e lo vende all’ingrosso alle imprese tramite le agenzie di pubblicità. Ma il valore del tempo varia da persona a persona e per la stessa persona in funzione del variare delle proprie preferenze. Il tempo passato davanti alla tv offre una scelta poco personalizzata (per l’impossibilità di segmentare l’audience). Essendo il tempo più generico, che meno corrisponde a scelte precise e personali, è il tempo di più basso valore. Nel comperare il tempo di ascolto la tv generalista non è in grado di pagare prezzi diversi per tempi diversi di persone diverse, paga tutto al prezzo del tempo di minor valore. A riempire questo tempo generico offre programmi generici; a un tempo poco differenziato offre programmi poco differenziati. Un programma che si rivolge a un pubblico generico, poco segmentato, deve essere anch’esso generico, quindi con basso contenuto informativo, stante la relazione che intercorre tra differenziazione del messaggio e suo contenuto di informazione. Poco differenziati i programmi, poco diversi i prodotti che i programmi servono a pubblicizzare: tra due programmi di varietà c’è la stessa differenza di contenuto informativo che esiste tra due detersivi o tra due acque minerali.
Il fatto è che la parola qualità viene usata in modo improprio, come qualità per l’ascoltatore. La tv generalista misura in modo esattissimo un’altra qualità, quella per i suoi veri clienti: la sua qualità è il giudizio degli uomini di marketing delle aziende acquirenti, e il metro di misura è l’effetto che un programma ha sull’immagine dell’azienda e dei suoi prodotti. Nella tv generali-sta i programmi sono dei testimoniala.
Il tema della qualità occupa un posto centrale nelle due questioni che riguardano l’assetto del nostro sistema televisivo: quello della tv pubblica e del canone; e quello del futuro della tv a pagamento.
Quanto al primo, la qualità viene indicata come elemento costituente del “servizio pubblico”, e come tale viene invocata per giustificare il canone. Ma è una pretesa vana: la tv generalista, col canone o senza, non può far altro che “comperare” il tempo di più basso valore; senza segmentare le preferenze e senza ordinarle con il sistema dei prezzi, la qualità è non misurabile. In realtà, il canone compra anch’esso tempo: la tv di Stato compera il tempo degli ascoltatori dei telegiornali e lo vende ai partiti politici. Come le aziende pagano con una parte dei propri ricavi, così i partiti pagano con i ricavi di quella speciale tassa di scopo, che è il canone.
Quanto al secondo, si sostiene che in Italia la tv a pagamento avrebbe minori possibilità di diffondersi data la qualità e la varietà dei programmi offerti dalla tv generalista e gratuita. Ma così dicendo non si considera che l’introduzione della tv a pagamento modifica non solo il mercato degli ascoltatori, ma anche quello dei programmi. Modifica il mondo degli ascoltatori, dato che lo segmenta, attribuisce valori diversi ai diversi tempi di ascolto, anziché appiattirli verso il basso su un valore unico. Modifica il mercato dei programmi, che parallelamente differenzia e valorizza. Come gli ascoltatori potranno scegliere e ottimizzare l’uso del proprio tempo, per lo stesso meccanismo anche i programmi “sceglieranno” i canali sui quali massimizzare il proprio valore. La doppia segmentazione, degli utenti secondo i loro gusti e dei programmi a seconda del loro pregio, massimizza i ricavi del settore. A suo tempo la tv generalista ha moltiplicato la spesa pubblicitaria in Italia, ed è stata uno strumento potente che ha fatto aumentare consumi dei prodotti di massa, quindi produzione e occupazione. Analogamente la tv a pagamento farà aumentare la spesa pubblicitaria e i consumi per prodotti più differenziati, rivolti a un mercato più segmentato. Sarebbe questo l’esito virtuoso della “parabola della qualità”.
Ciò che potrebbe rallentare la diffusione della tv a pagamento non è la presunta qualità dell’offerta generalista, ma la forma oligopolistica che ha assunto il mercato da noi. Se la tv a pagamento, anziché essere uno spazio in cui fare entrare nuovi soggetti, finisse anch’essa per essere divisa tra Rai e Mediaset, modi e tempi della competizione tra tv generalista e tv a pagamento sarebbero dettati dagli attuali oligopolisti. Peggio ancora sarebbe se, per evitare ogni rischio di concorrenza, questo nuovo spazio le due aziende dominanti lo occupassero insieme, unite nella piattaforma digitale unica. Non sarebbe questo un bel finale per la “parabola della qualità”.
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marzo 15, 1999