La risposta ai commenti

giugno 24, 2010


Pubblicato In: Articoli Correlati


di Pietro Ichino

Sul primo punto sollevato da Giorgio Conti e da altri lettori. Ho lavorato per quattro anni come sindacalista della Fiom-Cgil (in una zona della Brianza), poi per altri sei anni alla Camera del Lavoro di Milano, in mezzo agli operai e con una retribuzione pari alla loro. Conosco da vicino la fatica del loro lavoro. In seguito, il mio lavoro è sempre stato di natura intellettuale e non manuale; ma ho sempre lavorato per sette giorni alla settimana e per almeno dieci ore al giorno: ne è prova quello che ho fatto fin qui, e chiunque può controllarlo direttamente sul mio sito (www.pietroichino.it) e nell’Archivio dei miei scritti. Insomma, so che cosa è il lavoro.

Il dovere dello studioso è dire tutto quello che pensa anche quando questo va controcorrente; e dirlo senza asservirsi ad alcun interesse costituito. Nel caso di Pomigliano ho detto e dico ciò di cui sono convinto: il motivo pregiudiziale addotto dalla Fiom per rifiutare l’accordo è indifendibile. E osservo che quel motivo (pretesa contrarietà alla Costituzione della clausola sui tassi anomali di assenza per malattia e della clausola di tregua) non ha alcuna attinenza con la faticosità dell’organizzazione del lavoro proposta dalla Fiat.
D’altra parte, i diritti dei lavoratori si difendono prima di tutto combattendone gli abusi. Una regola di tutela del lavoratore che si ammala non può avere lunga vita, se essa si presta a essere diffusamente utilizzata per assistere alla partita di calcio; una disposizione che, “chirurgicamente”, impedisce questo abuso mi sembra il modo migliore per difendere la tutela generale dei lavoratori che si ammalano. La stessa disposizione, peraltro, prevede che una apposita commissione esamini i casi in cui c’è l’evidenza di una situazione reale di infermità del lavoratore, nonostante la coincidenza con la partita. Mi sembra, questo, un modo molto ragionevole per far fronte alle anomalie gravi che, su questo terreno, nello stabilimento di Pomigliano si registrano da decenni; qualche cosa, comunque, su cui accettare la discussione, non certo da respingere pregiudizialmente.
Sul secondo punto. La Costituzione attribuisce a ciascun cittadino, oltre al diritto di sciopero, un diritto più fondamentale ancora: una amplissima libertà personale; questo non toglie che, quando il cittadino è anche lavoratore, questa libertà sia legittimamente limitata per quaranta ore alla settimana, né che un contratto collettivo possa disciplinare questa limitazione, regolando il tempo e le modalità del lavoro con effetti direttamente vincolanti per i singoli lavoratori rientranti nel suo campo di applicazione. Non basta, dunque, affermare che la Costituzione prevede il diritto di sciopero, per trarne la conseguenza che il contratto collettivo non possa regolarne modalità e limiti di esercizio. E il riferimento alla legge n. 146 del 1990 lo conferma; perché, se così non fosse, sarebbe incostituzionale la previsione, contenuta in quella legge, di contratti collettivi che regolano modalità e limiti del diritto di sciopero con effetti direttamente vincolanti per i singoli lavoratori, sia pure soltanto in alcuni settori (servizi pubblici) e non in altri. Invece, in vent’anni nessuno ha mai sostenuto che quella legge sia incostituzionale.
“Suicida” per un sindacato serio non è accettare una clausola di tregua rigorosa ed effettivamente vincolante per tutti i lavoratori cui il contratto si applica, ma semmai proprio il suo rifiuto, che priva il sindacato stesso della principale moneta di scambio di cui esso dispone al tavolo negoziale e lo espone al rischio di essere ridicolizzato dai concorrenti opportunisti.
Lo stesso discorso vale anche per rispondere a Stefano Liebman, secondo il quale è “pura mistificazione” far passare per normale la clausola n. 15 dell’accordo (quella che qualifica come illecito disciplinare la partecipazione individuale a scioperi vietati dalla clausola di tregua). L’articolo 40 della Costituzione stabilisce soltanto che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”; non stabilisce né che la titolarità di questo diritto appartenga al singolo lavoratore piuttosto che al sindacato (questione, peraltro, un po’ “di lana caprina”), né che questa materia non possa essere oggetto della disciplina contenuta nel contratto collettivo, applicabile anche ai singoli lavoratori, come lo sono le materie della retribuzione o dell’orario di lavoro (queste pure oggetto di previsione costituzionale, nell’articolo 36). Che la titolarità del diritto di sciopero appartenga al singolo lavoratore, e che questa materia non possa essere oggetto della disciplina contenuta nel contratto collettivo applicabile anche ai singoli lavoratori, sono due affermazioni nate da una elaborazione dottrinale risalente agli anni ’50 e ’60; elaborazione che è stata messa in crisi dalla legge n. 146/1990, la quale prevede esplicitamente la negoziazione collettiva di limitazioni anche molto drastiche dell’esercizio del diritto di sciopero nel settore dei servizi pubblici, con efficacia diretta anche nei confronti dei singoli lavoratori. E’ vero che a Pomigliano d’Arco si producono automobili e non servizi pubblici; ma diversi giuslavoristi hanno sottolineato come, sul piano logico-sistematico, quella legge del 1990 contraddica la tesi dottrinale secondo cui lo sciopero è un diritto individuale di cui il contratto collettivo non può disporre. A meno che si voglia sostenere che lo sciopero nei servizi pubblici è una fattispecie ontologicamente diversa rispetto allo sciopero nell’industria manifatturiera (ma questo non mi sembra realisticamente sostenibile).
Questo per rispondere all’obiezione strettamente giuridica di Stefano Liebman (al quale consiglierei di usare con maggiore prudenza il termine “mistificazione”). Resta poi il problema di capire se e come un sistema di relazioni industriali degno di questo nome possa reggersi senza la chiave di volta costituita da una clausola di tregua sindacale affidabile: non è un caso che in quasi tutti gli altri Paesi europei quella chiave di volta sia pacificamente riconosciuta e rispettata, anzi rivendicata dai sindacati come propria prerogativa essenziale e garanzia del proprio potere contrattuale. Che in Italia questo sia vietato dall’articolo 40 della Costituzione non mi sembra davvero sostenibile.
A tutti gli altri lettori, che ringrazio dei loro commenti, propongo infine questa considerazione: nel libro “Gomorra” di Roberto Saviano sono descritte le condizioni impressionanti in cui centinaia di migliaia di operai al nero lavorano nei sottoscala e scantinati delle periferie delle città campane, senza vedere il sindacato neanche di lontano, senza malattia pagata, senza diritto di sciopero, senza contributi previdenziali, per nove o dieci ore al giorno, per un salario di 700 o 800 euro al mese. Sono tutte “aziende” che potrebbero essere individuate immediatamente, anche soltanto confrontando i tabulati dei consumi dell’energia elettrica con quelli dell’Inps o dell’Erario: se non lo facciamo, se il sindacato stesso non lo chiede con convinzione, è perché temiamo l’impatto economico-sociale pesante della chiusura di tutti quei posti di lavoro. Ma, così facendo, accettiamo ormai da decenni delle violazioni gravissime alla legge dello Stato, che consegnano alla gestione della Camorra interi pezzi di società civile; e accettiamo delle “deroghe” al contratto collettivo nazionale infinitamente più rilevanti di quelle proposte a Pomigliano da un imprenditore come la Fiat, cui si potranno imputare durezze e spigolosità, ma che opera pur sempre alla luce del sole e nel rispetto della legge. Ha un senso tutto questo? A me non sembra.

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Il PD incartato a Pomigliano
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2010

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