Il paradosso europeo tra successo e vincoli

luglio 7, 2017


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Due secoli fa Sismonde de Sismondi parlava del timore che “le roi d’Angleterre, en tournant constamment une manivelle, fasse produire par des automates tout l’ouvrage d’Angleterre”. Meno di cent’anni dopo fu il timore che i telai meccanici rendessero disoccupati i tessitori; poi che i trattori facessero lo stesso con i contadini; cinquant’anni fa, che il bancomat decimasse gli impiegati di banca allo sportello. Se l’aumento della produttività sia un pericolo per l’occupazione è questione ancora dibattuta tra gli economisti. Altre potrebbero esserne le conseguenze, l’aumento del terziario, la divaricazione tra le dotazioni personali di competenze. Altre le cause: ad esempio se Trump applicasse un aumento del 10% delle tariffe doganali, le aziende americane reagirebbero installando più robot; li comprerebbero in Germania e in Giappone, aumenterebbe il deficit commerciale degli USA che i dazi avrebbero dovuto ridurre.

In Europa, più dei robot, sono gli algoritmi a preoccupare – per la loro capacità disrupting delle attività che disintermediano -, e i grandi del Big Data – per la loro capacità di immagazzinare e trattare informazioni e per il potere che in tal modo acquisiscono. Secondo alcuni (S.Mannoni e G.Stazi, il Sole24 Ore, 15 Giugno), il potere di profilare miliardi di utenti e di condizionare le loro scelte attaccherebbe il principio hayeckiano per cui “è il processo concorrenziale che governa impersonalmente i sistemi di mercato”. Ne sono invece clamorosa conferma.

Infatti è attraverso un processo selettivo di concorrenza che Google, Microsoft, Amazon, Facebook hanno raggiunto le loro attuali dimensioni. Il primo motore di ricerca è del 1983, 15 anni prima che nascesse Google; l’ultimo di quest’anno, c’è ancora spazio per nuovi motori. Rendere i dati disponibili rafforza chi li possiede, e sono il nuovo oro per chi sa estrarne il significato. L’analisi delle parole su Google ha consentito di prevedere il diffondersi delle epidemie, e oggi di monitorare il formarsi dei flussi migratori. A volte i Big Data servono a demolire posizioni oligopolistiche: nel mercato dei cereali a saper prevedere le quantità offerte e i prezzi futuri finora erano solo quattro broker, capaci di raccogliere e analizzare i dati, mentre i grandi coltivatori del corn belt potevano solo osservare il tempo e l’attività dei vicini. Oggi invece, gli stessi coltivatori, dalle cabine dei loro trattori a guida automatica, con schermi da fare invidia a un trader di Wall Street, seguono mappe satellitari, analizzano i dati governativi sulle aree coltivate, decidono quando vendere grano fisico e trattano futures.

Big Data sono al centro di un ecosistema ipercompetitivo: sotto le quattro grandi ci sono più di 120 “unicorn”, società venute dal nulla che valgono più di un miliardo di $ ciascuna; il mercato delle app , nato nel 2008 con l’apertura di Apple Store, nel 2013 valeva 20 miliardi di dollari, e cresce a doppia cifra. Perché Google, Microsoft, Amazon, Facebook sono tutte nate e cresciute nella Bay Area? perché quello è l’epicentro di una rivoluzione che da lì si è diffusa negli USA e oltre? Non certo, come vorrebbero farci credere le Mariana Mazzucato e i cantori dello Stato imprenditore, perché un centro della Difesa americana aveva creato un protocollo di comunicazione tra le basi USA nel mondo; né perché il titolare di una borsa di studio governativa aveva fatto la tesi sul touchscreen: ma perché lì si erano affermate culture basate sulla concorrenza nel mercato e sulla trasparenza nella tecnologia. Perché lì gli incentivi offerti dal mercato hanno agito come un potentissimo magnete per agenzie governative e università, professori e studenti, imprenditori e finanziatori. Forse in nessun posto il mercato concorrenziale è stato a tal punto, come scriveva Hayek, “una procedura per la scoperta”.

Certo non lo è stato in Europa. E non lo è: invece di cercarne le cause – la segmentazione dei mercati, la protezione delle rendite, i pregiudizi anticoncorrenziali – si oppongono barriere in nome dei principii da salvare (uguaglianza di opportunità, campi di gioco livellati), e dei pericoli da cui proteggerci (addirittura per la democrazia). Così nel 2003 abbiamo multato Microsoft perché installava un proprio prodotto nel proprio SW; nel 2016 abbiamo tassato Apple sui prodotti in transito in un Paese anziché sul valore ivi prodotto; e adesso multiamo Google sul modo in cui ordina i dati della ricerca; con sanzioni la cui entità dovrebbe supplire alla debolezza degli argomenti. E domani potremmo impedire il funzionamento degli algoritmi che consentono l’incontro libero tra chi vuole valorizzare qualcosa che non usa e chi la vuole comperare, e costringere Uber nelle maglie dei contratti di lavoro e Airbnb in quelle dei contrati di affitto.

Dando luogo così a un singolare paradosso: cercare di penalizzare chi ha avuto successo imponendo proprio quei vincoli che hanno precluso a chi li impone la strada per il successo.

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