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Archivio per il Tag »google«

→  giugno 8, 2021


Penso risalga a dopo la seconda guerra la norma fiscale americana che consente alle sue multinazionali di detenere gli utili maturati all’estero in sospensione di imposta in un Paese che accetti di farlo: il parcheggio in un paradiso. A quel tempo il sistema era funzionale ad incentivare l’espansione all’estero delle grandi imprese americane. Non si contano i tentativi di modificare un sistema così fondamentalmente distopico: i governi hanno grumbled, simmered and raged (l’onomatopia è dell’Economist) ma i tentativi di riforma si sono arenati al Congresso. Chi sostiene che i GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon) eludono le tasse, riscuote consensi populisti, ma dice una cosa tecnicamente falsa. “Ante hos sex menses male dixisti mihi”: non erano ancora nati quando vennero scritte le leggi di cui fruiscono. La percentuale dei profitti che le multinazionali tengono parcheggiati all’estero è salita dal 30% vent’anni fa al 60% oggi. Per scoraggiare dallo spostare gli utili fatti all’estero in Paesi a tassazione ridotta , la riforma fiscale di Trump introdusse una nuova tassa, con aliquota del 10,5%, a valere sul redditi di ognuna dello loro filiali estere che eccedesse il reddito “normale” forfettariamente definito come il 10% del valore della proprietà tangibile ammortabile: il Global Intangible Low-Taxed Income (GILTI).

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→  novembre 3, 2020


di Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro

La guerra contro Google-Amazon-Facebook-Apple e i rischi della fine dell’“innovazione senza permessi”

Le autorità di regolazione europee vogliono introdurre un nuovo piano per ridurre il potere delle Big Tech. Ma quanto a spaccarle, hanno opinioni diverse: secondo il Financial times del 29 Ottobre, Margrethe Vestager, vice presidente esecutivo dela Commissione europea con incarico sulla Concorrenza e la politica digitale, ha detto ai parlamentari che la separazione strutturale non le pareva “la cosa giusta da fare”. Ma Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno, le accusa di considerarsi “too big to care”, troppo grandi per curarsi delle loro conseguenze, e suggerisce che debbano essere spezzate. Proprio ieri, intervistato dalla Stampa, ha ribadito le sue critiche e chiesto interventi contro le piattaforme online. Anche negli Stati Uniti, da Donald Trump a Elizabeth Warren, sono in molti a chiederlo. Sarebbe un gravissimo errore.

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→  novembre 9, 2019


La coerenza nelle decisioni, in politica, non è necessariamente un valore per i leader. Ma lo è per le istituzioni, soprattutto quelle che ancora si stanno faticosamente costruendo. E’ bastato che Margrethe Vestager, commissaria alla concorrenza, annunciasse che avrebbe esaminato le operazioni Fincantieri-Stx e quella FCA-PSA, perché si aprisse la polemica già vista quando, a inizio anno, aveva “bocciato” la fusione ”ferroviaria” tra Siemens e Alstom. Tutte le operazioni di fusione, per il semplice fatto di essere di importi superiori a una determinata soglia, devono obbligatoriamente ottenere l’approvazione della Commissione; e i comunicati di FCA-PSA doverosamente lo ricordano.

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→  settembre 13, 2019


Fake news, hate speech, interferenze sulla sicurezza nazionale: quando i Big Tech fanno male. Ma una regolamentazione privata dei contenuti è preferibile a una pubblica

Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che proibiscano di professarla liberamente, o che limitino la libertà di parola o di stampa, o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Il Primo Emendamento della Costituzione americana sancisce l’inviolabilità della libertà di parola; parola è la “materia” di cui sono fatti i social media. Questa intersezione, tra il pilastro su cui si fondano la società e la cultura americana e il nuovo prodotto dell’industria e della tecnologia americana, è stata cruciale per il formarsi dei social media e per le decisioni su come regolamentarli; consente anche di capire il diverso sviluppo che essi hanno avuto in Usa e nell’Unione europea.

Oggi i social media sono al centro di molteplici accuse: di favorire una parte politica rispetto a un’altra, di essere strumento di interferenze straniere nelle elezioni, di non eliminare messaggi che diffondono odio e falsità, di intrappolare i loro utenti in bolle cognitive. Donde le richieste che un intervento governativo ne regolamenti i contenuti. John Samples, in un paper per il Cato Institute (“Why the Government Should Not Regulate Content Moderation of Social media, Policy Analysis”, Cato Institute, 9 aprile 2019, nr. 865) approfondisce le implicazioni giuridiche del testo costituzionale, e ne deriva una conclusione che suona eretica nel nostro discorso politico: che è preferibile il controllo privato della parola, e che i tentativi di un controllo pubblico normalmente falliscono; per cui è bene che a controllare i contenuti siano soggetti privati e non funzionari pubblici.

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→  settembre 11, 2018


Fare ordine: nei dati…
“Ci siamo accorti che le informazioni erano troppe: era necessario fare ordine”. La voce, alla radio austriaca, è quella di Larry Page, intervistato per la ricorrenza. Page Rank, l’algoritmo che assegna un peso numerico ad ogni elemento di un collegamento ipertestuale di un insieme di documenti, “fa ordine” perché consente di ordinare gli elementi di un insieme secondo la loro l’importanza relativa. Questa è la ragione del successo di Google: grazie a Page Rank possiamo orientarci nella sterminata massa di dati con cui il web ci sommergerebbe. Con il web, il mondo è diventato di colpo immensamente più grande; se, come insegna Agostino, il nostro “prossimo” sono quelli che abbiamo vicino, prossimo diventano virtualmente tutti gli abitanti del pianeta. Rischiamo di perderci, se il mondo non diventa anche più trasparente, e qualcuno ci rende possibile trovare, sapere, avere quello che cerchiamo.
L’albero della conoscenza, di cui abbiamo mangiato, è anche l’albero del bene e del male. Acquisito il bene come nuovo diritto universale, è sul male che si esercitano le Cassandre. Non solo il male che è possibile fare deliberatamente, usando le potenzialità di questo (come di ogni altro) nuovo strumento. Ma il male che deriva intrinsecamente dalla sua fruizione: il maggior tempo che dedichiamo, il maggior numero di persone che incontriamo, la maggiore quantità di risorse che spendiamo, perfino il maggior numero di parti cesarei che le donne preferiscono nel garantire la sopravvivenza di questo pianeta.

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→  giugno 14, 2018


La deriva narcisistica dei social e la domanda se sia giusto porre vincoli al desiderio dell’esibizionista

“If it’s free, you are the product”. Quante volte l’abbiamo sentita questa battuta, ultimamente perfino al Festival dell’Economia di Trento. Fattualmente sbagliata (il rasoio Gillette lo regalava, ma il prodotto erano le lamette, non la faccia dei clienti), vecchiotta (lo si diceva già della televisione generalista), è soprattutto ingannevole, svia l’attenzione dalla questione veramente rilevante: chi è “you” e che cosa vuole? Perché ogni “you” pensa se stesso come “Me”, nel senso usato da Tom Wolfe in The Me Decade and the Third Awakening”. La tesi che sviluppa in quel famoso articolo del 1976 sul New York Magazine è che nel diffuso benessere degli anni ’70, a partire dalla come cultura libertaria e psichedelica (anche nel senso dell’acido) di hippy e studenti, si sviluppa “la più grande era di individualismo della storia americana”, paragonabile alle due precedenti, quello contro la religione e in generale l’autorità coloniale inglese, e quella che nelle crisi dell’800 permise il formarsi di comunità nel Mid-West e nel West.

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