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→  maggio 19, 2015


Ben scavato, vecchia talpa!”, dicevano una volta i compagni. Adesso il comunismo è morto, e neanche la talpa si sente più tanto bene. Viene in mente leggendo che Enel, municipalizzate, Terna, alla notizia che Matteo Renzi è disposto a mettere soldi pubblici per dare a tutti gli italiani la banda larghissima, si son fatti avanti per dare una mano al premier per vincere la cocciutaggine di Telecom Italia. Tutti telefonisti? Manco per sogno, tutte talpe, tutti scavatori di cunicoli per i loro cavi dell’energia elettrica. Farci passare anche la fibra non costa molto, e con un po’ di soldi dal governo, un po’ da Telecom che dovrà connetterla alla sua rete, ci si può cavare la giornata: e far contento il governo.

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→  maggio 6, 2015


Al direttore

Chissà se nella riunione straordinaria del 23 aprile del Consiglio d’Europa per la “drammatica situazione nel Mediterraneo” si è parlato anche della sua straordinarietà. Sarebbe bastato guardare i numeri: nel periodo 2010-2014, mentre gli stranieri registrati nelle anagrafi comunali sono aumentati in misura modesta (20 per cento circa) e gli ospitati nei centri di accoglienza sono poco più che raddoppiati, coloro che sono sbarcati sulle coste italiane sono quasi 40 volte tanto. Per il 2015, l’aumento del 40 per cento registrato a tutto febbraio rispetto all’anno precedente, tenuto conto della stagionalità, lascia prevedere cifre inquietanti. La cifra del milione di persone che attendono di partire non è ancora una proiezione, ma non è più un’esagerazione. La drammatica differenza nei tassi di crescita indica che ci sono due tipologie di immigrazione, cioè che ai migranti “economici” si vanno progressivamente sostituendo i fuggitivi da guerre e sconvolgimenti politici. Dei 170 mila sbarcati nel 2014, 42.323 venivano dalla Siria, 34.329 dall’Eritrea, 9.908 dal Mali, 9 mila dalla Nigeria: l’aumento del flusso è tutto composto da persone che provengono da paesi devastati da crisi sanguinose.

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→  dicembre 3, 2014


diFederico Rampini

L’Europarlamentare Andreas Schwab ora sa cosa bisogna aspettarsi per avere attaccato Google. È al centro di uno scandalo, almeno sui media Usa. La classe politica americana lo sta accusando di conflitto d’interessi. L’eurodeputato tedesco Schwab, cristiano- democratico vicino ad Angela Merkel, nonché firmatario della risoluzione parlamentare per smantellare Google, è anche consigliere di uno studio legale che difende gli editori anti-Google. Da che pulpito viene la lezione sul conflitto d’interessi? Gli Stati Uniti hanno abbassato la guardia su quel fronte, dopo la sentenza della Corte suprema che liberalizza i finanziamenti alle campagne elettorali: da allora i big del capitalismo americano non hanno più limiti nelle donazioni ai candidati. Gli stessi parlamentari americani che attaccano Schwab, possono avere ricevuto fondi da Google, mascherati nelle scatole opache dei Super-Pac (political action commette). Ma tant’è: a’ la guerre comme a’ la guerre. Tutti i colpi sono permessi, nel conflitto che oppone l’Unione europea a Google. È dai tempi dell’azione antitrust promossa da Mario Monti contro Microsoft che non si assisteva ad uno scontro così duro su un colosso dell’hi- tech americano. A Washington c’è chi minaccia ritorsioni commerciali, si parla di far saltare il negoziato sulla liberalizzazione degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico, per reagire alla presunta “aggressione” contro Google.

L’offensiva europea ha diversi aspetti. L’europarlamento ha approvato la mozione Schwab che invoca uno “spezzatino”, lo smembramento di un colosso divenuto troppo potente: ma si tratta di una risoluzione che non ha effetti operativi, né conseguenze immediate. Il voto dell’europarlamento forse incoraggerà altre offensive europee, portate avanti da protagonisti diversi. La Commissione di Bruxelles può rilanciare l’azione antitrust. La Corte di Giustizia ha già obbligato Google a garantire il “diritto all’oblìo” per proteggere la privacy dei cittadini europei che vogliono cancellare notizie diffamatorie dal motore di ricerca. C’è la battaglia sulla webtax. Infine c’è il dibattito sullo spionaggio digitale, scatenato dalle rivelazioni di Edward Snowden, e le contromisure che alcuni governi (Germania in testa) hanno allo studio: anche questo riguarda Google poiché Snowden ha dimostrato il collaborazionismo dell’azienda digitale con la National Security Agency. Che cosa può rischiare Google? Per quanto riguarda eventuali sanzioni antitrust, i precedenti vanno dal miliardo di euro di multa contro Intel ai 3 miliardi di dollari di sanzioni “a rate” su Microsoft. I legali di Eric Schmidt, presidente di Google, temono di poter arrivare fino a 6 miliardi di dollari di sanzioni, oppure il 10% del fatturato globale, se Bruxelles optasse per la linea dura. Dettaglio interessante: tra le “parti lese” che si sono appellate all’antitrust europeo ci sono i concorrenti americani di Google, come Microsoft e Yelp. Convinti evidentemente che sia più facile castigare le prepotenze di Google a Bruxelles anziché a Washington.

Perché l’antitrust europeo può decidere di intervenire contro Google, laddove l’antitrust americano non ne ravvisa la ragione? Le spiegazioni sono tante, la più semplice è questa: il potere monopolistico di Google è effettivamente più accentuato sul mercato euro- peo. Il motore di ricerca creato da Larry Page e Sergey Brin ha quasi il 90% di quota di mercato sul Vecchio continente contro il 68% negli Stati Uniti. Un’altra spiegazione chiama in causa il nazionalismo economico. L’Europa ha una presenza marginale nell’economia digitale. I Padroni della Rete sono tutti americani, nella Silicon Valley californiana o nella sua propaggine settentrionale di Seattle. Les Gafas , come li chiamano i francesi che hanno coniato l’acronimo dalle iniziali di Google Apple Facebook Amazon. L’Europa si sente colonizzata, l’America è la colonizzatrice. Gli approcci sono diametralmente opposti. Il magazine The New Yorker constata la recente alluvione di libri di management scritti da dirigenti di Google: sono idolatrati qui negli Stati Uniti come i nuovi guru del management, i profeti da ascoltare per avere successo. Ho raccontato su queste colonne la mia esperienza ad una presentazione newyorchese del best-seller di Eric Schmidt. La folla di giovani accorsa ad ascoltarlo non era critica, tantomeno ostile: il sogno di un ventenne americano è lavorare per Google (subito dopo Apple). Politicamente questi colossi sono intoccabili. Il Congresso di Washington ha sì promosso un’inchiesta sulla maxielusione fiscale di Google, Apple & C., ma le denunce non hanno avuto un seguito concreto. I repubblicani per definizione stanno coi capitalisti e contro le tasse. I democratici sono destinatari di generosi finanziamenti, la Silicon Valley ha il cuore che batte a sinistra.

Anche in Europa c’è chi prende le distanze dalla “Googlefobia”. Il settimanale The Economist ha dedicato l’ultima inchiesta di copertina ad un’appassionata difesa di Google. Gli argomenti sono quelli classici del neoliberismo: lasciate fare il mercato, ci penserà lui. The Economist ricorda che nessun gigante hi-tech è mai sopravvissuto per più di un ciclo d’innovazioni: gli ex-monopolisti Ibm e Microsoft sono ridotti a campare su nicchie di mercato. Conclusione: gli europei farebbero meglio a creare le condizioni per avere una loro Silicon Valley, un ambiente favorevole all’innovazione e alla crescita di giganti tecnologici, invece di attaccare i successi altrui. Ma l’argomentazione neoliberista ha delle inegnuità. Dimentica il ruolo decisivo dello Stato, proprio qui in America, nel favorire i “campioni nazionali”: è la tesi dimostrata dalla economista Mariana Mazzuccato nella sua celebre ricerca sulle origini pubbliche dell’innovazione (da Internet agli smartphone).

C’è poi la battaglia per la tutela della privacy degli utenti, e delle royalty di chi crea contenuti. Anche questa è più avanzata nell’Unione europea. La spiegazione è semplice: negli Stati Uniti un trentennio di egemonia neoliberista ha cancellato molte conquiste dei consumatori. L’antitrust Usa ha le unghie spuntate da molte Amministrazioni repubblicane. Il consumerismo nacque qui negli anni Sessanta con le battaglie di Ralph Nader, ma da allora i rapporti di forza si sono rovesciati a favore del Big Business. E oggi non c’è nulla di più Big dei Padroni della Rete, Google in testa.

→  dicembre 3, 2014


I grandi fornitori di servizi on line hanno modelli di funzionamento strutturalmente diversi dalle imprese tradizionali, non riconoscerlo porta a commettere errori: ci possono incappare le aziende stesse o i legislatori. Come insegnano due casi recenti. Uber, l’azienda fondata da Travis Kalanik, continua a espandersi, vincendo, città dopo città, la resistenza dei tassisti che temono di perdere il valore della licenza pagata a caro prezzo. Con quella licenza il Comune concede al tassista di operare in un mercato a numero di operatori contingentato e di offrire al cliente la garanzia pubblica che il servizio sarà di buon livello e soprattutto sicuro. Uber disintermedia il servizio taxi: nessun controllo comunale sul numero degli operatori, ma anche nessuna garanzia pubblica per la sicurezza del cliente. Alla fine della corsa si può dare un voto, il cliente sul conducente e il conducente sul cliente. Ma il conducente rischia di più, se finisce nella lista nera, ha finito di lavorare: un’asimmetria informativa di cui un cliente disonesto potrebbe approfittare.

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→  luglio 6, 2014


Correva l’anno 1988, governo De Mita. Paolo Cirino Pomicino, alla Funzione Pubblica, lanciava il concorso pubblico per lo “Sportello del Cittadino”: invece della via crucis tra ministeri e procedure, i cittadini avrebbero avuto un unico strumento da cui interfacciare tutta la P.A. Naturalmente non successe nulla: le burocrazie ministeriali, ammesso che accettassero di lasciarsi così interrogare, di come scambiarsi i dati tra di loro, manco si son poste il problema. Fanno resistenza, si disse, e si disse l’ovvio: se non incontrassero resistenza, le riforme sarebbero già state fatte. Per riformare la Pa il governo Renzi ha introdotto una certa mobilità dei dipendenti e promosso un largo ricambio generazionale dal basso. Ha scelto cioè meccanismi che agiscono dall’interno: buoni per rompere dipendenze e incrostazioni, c’è da dubitare che siano adeguati a far prevalere le ragioni dell’efficienza su quelle della propria convenienza. L’efficienza si può definire solo con un riferimento esterno, alle convenienze degli altri, di quelli che stanno dall’altra parte dello sportello. Non c’è coscienza individuale, non accordo collettivo, non questionari scambiati con gli utenti che serva a fare quello che la concorrenza sul mercato fa automaticamente: scoprire quanto valgono beni e servizi. Per A. Gambardella e G. Tabellini (Il Sole 24 Ore del 22 giugno), sarebbe poco importante se a sviluppare le infrastrutture che aspettiamo dall’epoca dello “sportello del cittadino” (1988) fossero informatici di Google o di Poste Italiane.

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→  aprile 7, 2013


Big Data: A Revolution That Will Transform
How We Live, Work, and Think

by Victor Mayer-Schonberger and Kenneth Cukier
Eamon Dolan/Houghton Mifflin Harcourt
2013, pp. 256


L’uomo lascia tracce. 40.000 anni fa erano incisioni su zanne di mammouth, come quelle attualmente in mostra al British Museum. Oggi sono le stringhe di 0e 1 conservate nelle memorie in un data center in qualche parte del mondo. Qualunque cosa facciamo, se vendiamo o comperiamo, se siamo sani o malati, se viaggiamo o camminiamo, se parliamo al telefono o interroghiamo Internet, lasciamo tracce. Sono digitali, archiviarle costa sempre meno, ritrovarle è sempre più rapido: benvenuti nel mondo del Big Data.

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