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→  giugno 1, 2018


Le accuse contro i big del web devono trovare risposta, ma senza interrompere la marcia verso il futuro

“Apocalittici e integrati”: allora divisi sulla cultura di massa, oggi sulla rivoluzione digitale; per questi, componente essenziale della nostra vita, per quelli, minaccia al funzionamento del sistema capitalistico e delle democrazie. Più che vedere se gli “apocalittici” abbiano ragione o torto, è importante che gli “integrati” abbiano le idee chiare sulle accuse mosse ai GAFA (Google, Apple, Amazon, Facebook). Queste appaiono essere i due tipi: l’una contro la rivoluzione digitale stessa, l’altra contro la struttura produttiva che ne è emersa; l’una luddista, antitecnologica, mossa dal timore per il potere disruptive dell’economia digitale; l’altra strutturale, contro il gigantismo dei protagonisti ed il potere, non solo tecnico, ma economico e politico di cui dispongono.

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→  luglio 7, 2017


Due secoli fa Sismonde de Sismondi parlava del timore che “le roi d’Angleterre, en tournant constamment une manivelle, fasse produire par des automates tout l’ouvrage d’Angleterre”. Meno di cent’anni dopo fu il timore che i telai meccanici rendessero disoccupati i tessitori; poi che i trattori facessero lo stesso con i contadini; cinquant’anni fa, che il bancomat decimasse gli impiegati di banca allo sportello. Se l’aumento della produttività sia un pericolo per l’occupazione è questione ancora dibattuta tra gli economisti. Altre potrebbero esserne le conseguenze, l’aumento del terziario, la divaricazione tra le dotazioni personali di competenze. Altre le cause: ad esempio se Trump applicasse un aumento del 10% delle tariffe doganali, le aziende americane reagirebbero installando più robot; li comprerebbero in Germania e in Giappone, aumenterebbe il deficit commerciale degli USA che i dazi avrebbero dovuto ridurre.

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→  aprile 29, 2016


“Un importante precedente” è stata, secondo Mario Monti, la multa di 497 milioni di euro comminata nel 2005 dall’allora Commissario europeo alla concorrenza, a Microsoft: l’accusa era di installare dentro Windows il software Media player, così restringendo lo spazio di mercato ai concorrenti di prodotti per scaricare brani musicali.

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→  agosto 21, 2015


Le varie fortune di un modello d’impresa, dal web alle raccomandate.

Google si chiamerà Alphabet. Ha cambiato nome perché ha cambiato struttura, è diventata una holding di aziende, ciascuna con propri capiazienda, identità, missioni. Accanto a Google le altre imprese: dalle medicine per combattere le malattie da invecchiamento ai palloni aerostatici per dare il wi-fi in zone non raggiunte da reti, dall’internet delle cose alle applicazioni di intelligenza artificiale, auto senza guidatore e robot. Alphabet sarà un enorme fondo di investimenti in tecnologie avanzate, come la Berkshire Hathaway di Warren Buffett lo è in prodotti maturi con buon cash flow. Saranno sempre Larry Page e Segey Brin a decidere gli investimenti, solo ci sarà maggiore chiarezza. La Borsa ha valutato Alphabet 25 miliardi di $ più di Google del giorno prima. E’ la bolla di internet? È l’idea che Page e Brin, qualunque cosa facciano, i profitti aumenteranno? Ma c’è chi si chiede, non senza preoccupazione: mica torneremo alle conglomerate?

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→  agosto 14, 2015


articolo colleato di Massimiliano Trovato

La notizia della privatizzazione di Poste Italiane è fortemente esagerata. Molto resta da stabilire – l’entità del collocamento, la forchetta di prezzo, la ripartizione tra risparmiatori e investitori istituzionali – ma, a distanza di quasi due anni dall’iniziale annuncio del governo (allora presieduto da Enrico Letta), la strada per lo sbarco in Borsa del colosso pubblico è ormai tracciata. Con la consegna alla Consob della richiesta di ammissione alle negoziazioni e dei prospetti informativi, comincia l’iter che – salvo intoppi – condurrà al debutto dell’ex monopolista del recapito a Piazza Affari tra fine ottobre e inizio novembre. Confermata l’impalcatura dell’operazione: la cessione riguarderà fino al 40 per cento del capitale, con una quota di consistenza ancora incerta da destinarsi ai dipendenti, e un tetto al possesso azionario del 5 per cento. Dall’iniziativa l’esecutivo si attende ricavi compresi tra i 2,4 e i 4,4 miliardi di euro. A queste cifre, è comprensibile che il dossier catalizzi l’entusiasmo di un mercato disabituato alle dismissioni pubbliche e, più in generale, poco avvezzo a partite di simile portata: ma, muovendo dalle implicazioni finanziarie a quelle industriali e concorrenziali, è possibile sostenere – come fanno, con una voce sola, i commentatori – che l’Ipo dell’anno sarà anche la privatizzazione dell’anno?
In senso proprio, una privatizzazione persegue tre obiettivi convergenti: il primo è il recupero di risorse per l’erario, cui il progetto di collocamento di Poste sembra poter assistere efficacemente – mentre nessuna garanzia si può rinvenire ai fini dell’alienazione del controllo e dell’apertura del mercato, le altre due finalità di una privatizzazione rettamente intesa. Sotto il primo profilo, anzi, ogni indicazione punta nella direzione opposta: il Tesoro manterrà una salda maggioranza; il limite del 5 per cento scoraggerà l’ingresso di partner industriali; l’attribuzione ai dipendenti (cioè ai sindacati) cementerà gli equilibri esistenti e rischierà d’ipotecare l’evoluzione dell’azienda. Quanto all’impatto sul mercato, sui concorrenti, sui consumatori, l’inerzia del legislatore (sordo alle sollecitazioni dell’Antitrust) è significativa. Basti ricordare la vicenda della riserva sulla consegna degli atti giudiziari, tuttora garantita a Poste a un lustro dalla formale liberalizzazione del settore; privilegio limitato – s’intende – ma rivelatore, e difeso anche in queste settimane proprio con l’intento di non deprimere le prospettive d’incasso della quotazione. Si tratta di un argomento pericoloso, perché procedere a legislazione invariata rischia di scolpire nel prezzo di collocamento un’aspettativa d’intangibilità delle regole, allontanando ulteriormente il completamento della liberalizzazione. Naturalmente ci sono questioni assai più scottanti della riserva sul recapito delle multe.

La principale è quella della natura ibrida di Poste e del suo reticolo di 14.000 uffici. Già oggi è estremamente complesso dipanare le commistioni e i sussidi incrociati esistenti tra il core business postale, strutturalmente in sofferenza, e i comparti bancario e assicurativo, da cui provengono la larga maggioranza dei ricavi e pressoché la totalità degli utili del gruppo. La storia delle liberalizzazioni insegna che l’integrazione (verticale o orizzontale) tra attività diverse può portare efficienza, se emerge in un contesto di mercato, ma può ostacolare lo sviluppo concorrenziale di un settore se viene trasferita da un monopolista pubblico al suo erede (integralmente o parzialmente) privato. Allo stato attuale, sarebbe persino banale pensare alla separazione del Bancoposta dalle altre attività di Poste, che si esaurirebbe in una decisione unilaterale dell’azionista pubblico; a collocamento avvenuto, un’analoga risoluzione incontrerebbe le giustificate resistenze degli azionisti privati. Completare la dismissione senza sciogliere questi nodi competitivi, mettendo in vendita quella che a tutti gli effetti si configura come una rendita monopolistica, è l’opzione più redditizia. Ma rimane una maldestra operazione di cassa.

→  agosto 12, 2015


articolo collegato di John Gapper

After software engineering and financial engineering comes linguistic engineering. Google this week raised its market capitalisation by $25bn by shuffling around some executive jobs and changing its name to Alphabet. Who knew that swapping your tiles in a game of corporate Scrabble was worth so much?
Everyone reads what they want into the new letters. For Larry Page, Google’s restless co-founder, Alphabet means jettisoning the cares of running a corporation and becoming a full-time inventor and venture capitalist, while Sundar Pichai takes the leadership of Google. For employees, it brings the hope of more valuable share options. For Wall Street, it spells clarity.
Only governance renegades would invent a structure with one board for Google and Alphabet, the founding triumvirate — Eric Schmidt, Sergey Brin and Mr Page — stacked above Mr Pichai, and Ruth Porat as chief financial officer of both. “Google is not a conventional company,” wrote Mr Brin and Mr Page in their 2004 founders’ letter, and by heavens they meant it.
Still, being conventional is not the best way to build an innovative business or to make profits. Warren Buffett runs a unique combination of industrial conglomerate and investment fund at Berkshire Hathaway, and it has worked well for him. He made his largest ever acquisition this week, buying Precision Castparts for $32bn.
Berkshire and Alphabet are different kinds of businesses. Mr Buffett values cash flow and mature brands; Mr Page prefers to create things. One of the purposes of this week’s reshuffle is to prove to investors that not as much as they fear is being spent on experimental start-up projects, such as Project Loon’s high-altitude balloons providing internet access to remote areas.
Mr Page’s naming of Mr Buffett as a role model in providing “long-term, patient capital” to an array of businesses is not idle. He thinks that a multi-business group with a guiding intelligence at the centre can beat the single-sector company favoured by investors. The “conglomerate discount” applied by Wall Street can be defeated.
In principle, that is an odd thing for Mr Page to believe. Google’s technology, after all, uses online auctions and markets — the wisdom of the crowd, not human curation. Why should conglomerates such as Alphabet, with their entrenched interests and fiefdoms, be better than capital markets at allocating capital efficiently? Does he trust in inside knowledge only when the insider is himself?
But he is right. Conglomerates can outperform when they exploit their advantages and remain disciplined rather than falling prey to empire-building. Their ability to build a cadre of skilled managers and to pick the right investment projects is strongest in research-intensive industries that invest in intellectual property, which is Alphabet’s territory.
Neil Bhattacharya, a professor at Southern Methodist University in Texas, found in a study that multi-business companies ran operations more efficiently than single-sector ones. They had particular advantages in areas such as software and life sciences because managers could judge more accurately than stock markets which projects were likely to succeed.
This is counterintuitive, given US investors’ liking for simplicity, and view of conglomerates as inefficient. Public conglomerates in the US are valued at discounts of 10 to 15 per cent to single-sector companies, according to Boston Consulting Group — though the discount is lower in Europe, and Asian conglomerates often trade at a premium.
The suspicion originates in the 1970s and 1980s, the era of companies such as ITT and RJR Nabisco. Michael Jensen, a Harvard professor, later criticised the “billions in unproductive capital expenditures and organisational inefficiencies” at conglomerates, praising the trend toward “smaller, more focused, more efficient” enterprises.
Big corporations remain prey to temptation. Boston Consulting Group found that the conglomerate discount is partly due to conservatism. They tend to invest heavily in their original businesses, which may be stagnant or in decline, while undervaluing newer divisions with more potential. Microsoft, for example, suffered from trying to reinforce its Windows franchise.
Yet even investors who are suspicious of quoted conglomerates delegate capital allocation and management oversight in private markets to informed insiders. Venture capital and private equity funds are both forms of conglomerate — they invest capital in a broad portfolio of businesses on behalf of outsiders who believe that such funds possess superior expertise.
Why, though, should investors seeking exposure to new companies buy shares in Alphabet, which then channels Google’s surplus cash into its own venture and growth funds, Project Loon, self-driving cars and life sciences? They could instead invest money directly in a venture capital fund. Why take the longer and less-direct road?
It depends on trust. Investors could also have bought shares in Precision Castparts last week for less than Berkshire Hathaway paid this week, but they do not complain because they trust Mr Buffett. Alphabet’s shareholders must believe in Mr Page and Mr Brin’s ability to use their intelligence and avoid the traditional pitfalls.
To judge by the shares this week, they prefer a conglomerate called Alphabet to a company that had not made plain what it was. Strange as it seems, it is a rational choice.