Il male sottile della deflazione

aprile 17, 2014


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di Gianni Toniolo

A un giornalista che gli chiedeva che cosa si provasse a essere l’uomo più potente del mondo Bill Clinton rispose indicando Greenspan (presidente della Fed): «Chiedetelo a lui». Erano gli anni della “grande moderazione”, caratterizzati da robusta crescita e bassa inflazione: un grande successo (non si vedeva qualcosa di simile dal primo Novecento), attribuito in buona misura alle banche centrali, pericolosamente accreditate di una quasi onnipotenza.

Nelle cose umane l’onnipotenza è sempre illusoria, lo è tanto più nella politica economica che non possiede l’arma totale. In quasi due secoli, le banche centrali hanno imparato a fare bene due cose: tenere l’inflazione sotto controllo e mitigare le crisi con il cosiddetto credito di ultima istanza, oggi geneticamente modificato rispetto ai canoni ortodossi di Hamilton, Thornton e Bagheot. Non hanno appreso altrettanto bene a combattere la deflazione.
Quella “buona” dell’ultimo quarto dell’Ottocento, fatta di concorrenza e crescita della produttività, non aveva bisogno di essere contrastata. Quella “cattiva” degli anni Trenta, dovuta alla caduta della domanda aggregata, fu sottovalutata dalle banche centrali, ossessionate dall’inflazione. Né il secondo dopoguerra, caratterizzato da tensioni inflazionistiche, offrì occasioni di perfezionare tecniche di contrasto alla deflazione. Il caso del Giappone, sino alla svolta ancora sub judice imposta da Abe, ha evidenziato la complessità culturale, tecnica, sociale e politica di un’efficace azione volta a stimolare per l’aumento dei prezzi.
Sia negli anni Trenta sia nel Giappone attuale furono i governi, più che le banche centrali, a provare a spingere i prezzi verso l’alto. Nel 1933, Roosevelt fece naufragare la conferenza di Londra, che cercava una tardiva soluzione cooperativa alla crisi, lasciando svalutare il dollaro per fare risalire i prezzi. Riuscì nell’intento ma soffiò sul fuoco di una guerra monetaria che contribuì a destabilizzare l’economia e le relazioni internazionali.

Ha ragione il ministro Padoan a smorzare gli allarmi eccessivi osservando che per ora la deflazione in Europa non c’è. La storia però non lascia dubbi: la deflazione è un male sottile ma grave che va bloccato all’inizio a pena di una cronicizzazione difficilmente curabile, come insegnano sia gli anni Trenta sia la recente vicenda giapponese. L’area euro trarrebbe oggi beneficio da un’inflazione che riprendesse moderatamente fiato. La Banca centrale europea, contrariamente alle sue progenitrici degli anni Trenta, ne è consapevole. Il suo compito però potrebbe non essere facile. I pochi precedenti storici mostrano che la deflazione è temibile anche perché l’area di incertezza che circonda le decisioni da prendere è vasta. Gli strumenti non ortodossi promessi da Draghi non sono ancora stati sperimentati in Europa.
La loro efficacia non è del tutto prevedibile, considerata la frammentazione dei mercati europei del credito e la diversa fase del ciclo economico in cui essi si trovano. L’opzione favorita è il massiccio acquisto di titoli di Stato da parte della Bce. In dosi adeguate dovrebbe funzionare se saranno superate le obiezioni giuridiche all’intervento della Bce sui mercati del debito sovrano. Se questo intervento incontrasse insormontabili difficoltà si potrebbe procedere all’acquisto su larga scala di debito privato? Con quali effetti non solo sul bilancio della Bce ma sulla sua reputazione di neutralità rispetto alle scelte allocative?
Esiste in Europa un mercato sufficientemente ampio di titoli privati con rating adeguati? Se poi tutto funzionerà come previsto, bisognerà porsi – in Europa come negli Usa – il problema, non banale sul piano tecnico, politico e delle relazioni economiche internazionali, della transizione dall’emergenza alla normalità. Già compaiono sui mercati segnali di nuovi eccessi di indebitamento. Sulla gestione della transizione non esistono esperienze storiche paragonabili, almeno per dimensione, a quella attuale.
È bene essere consapevoli che, nell’affrontare il pericolo di deflazione, i banchieri centrali operano in un quadro più incerto di quello, storicamente a loro congeniale, della lotta all’inflazione e assumono, dunque, rischi maggiori. Aiuterebbe molto una politica di finanza pubblica espansiva adottata dal governo tedesco, come negli anni Trenta avrebbe aiutato (soprattutto la Germania) un’analoga politica da parte della Francia.
La caduta dei prezzi sarà, comunque, evitata ma non è realistico, e forse non opportuno, che chiediamo molto di più. Sarà un bene per tutti se governi, imprese e consumatori adatteranno i propri comportamenti per vivere bene in un ambiente nel quale, per un po’ di tempo, i prezzi cresceranno meno che negli anni precedenti il 2007. Potrebbe, dopotutto, non essere un male.

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