Il Dna dei Democrats

ottobre 4, 2006


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Concorrenza, questa sconosciuta. Che handicap per il nuovo partito

C’entra eccome con il Dna che vogliamo trasmettere al Partito democratico, quello che ha osservato Nicola Rossi al congresso di LibertàEguale di Orvieto, e cioè che il centrosinistra ha fatto accettare al Paese il principio di concorrenza tra beni e tra servizi, ma non la concorrenza delle teste e delle idee. Che dire allora della concorrenza per i diritti di proprietà?

Romano Prodi, parlando giovedì scorso alla Camera, ha detto di voler riformare il capitalismo italiano. La frase, in bocca a Riccardo Lombardi, sarebbe stata minacciosa e chiara. Qui potrebbe anche essere solo la mossa per respingere lontano un pallone che stava carambolando pericolosamente vicino alla porta, ma che io voglio prendere sul serio: che cosa può voler dire «riformare il capitalismo italiano», soprattutto pronunciata in quel contesto? Non può che voler dire incidere sulle catene societarie, sulle scatole cinesi, cioè sulle strutture che impediscono di separare proprietà e controllo, e che sono all’origine dell’illusione ottica per cui il nostro appare essere un capitalismo senza capitali. E che conferiscono, a chi detiene la scatola a monte, la possibilità di appropriarsi dei benefici privati del controllo lungo tutta la catena, proteggendoli anche con rapporti stretti con la politica. È questa una delle contropartite per cui azionisti di minoranza investono anche in società che sanno che non possono essere scalate. Rapporti con la politica non sono solo le tv e i conflitti di interessi di Berlusconi; sono anche, in modo forse ancora più significativo, i grandi giornali: che, non a caso, sono tutti di proprietà di grandi gruppi industriali. Tutto questo costa: costano le scatole cinesi, perché le holding vengono quotate a sconto rispetto al valore delle aziende che hanno in pancia. Costa l’influenza della politica, è l’italian discount, di cui ha parlato Alessandro Perissinotto, ad delle Assicurazioni Generali, la minore valutazione delle imprese italiane nel confronto con le loro concorrenti estere. Il risultato è che alle nostre aziende il capitale costa più caro: e quindi è più difficile che diventino predatori ed più probabile che siano prede.
Speculare all’ossessione per il controllo proprietario, è l’ossessione per il controllo nazionale, per l’italianità delle grandi imprese. Eliminando le società a cascata le imprese diventano più contendibili: c’è dunque una contraddizione evidente tra il proposito di riformare il capitalismo italiano in quella che appare essere la sua caratteristica saliente – e non solo delle grandi imprese, ma anche di tante medi imprenditori, che preferiscono limitare la propria crescita pur di non rischiare di perdere il controllo – e la preoccupazione per l’italianità delle imprese più significative. La preoccupazione per il controllo ha la sue ragioni nei benefici privati che esso consente; la preoccupazione per l’italianità produce benefici al governo, in termini di consenso populista, ma soprattutto in termini di potere. Come la vicenda Telecom dimostra in modo esemplare.
In questa storia ci sono tre “personaggi”. Le banche, azioniste e creditrici di Telecom. Marco Tronchetti Provera, con Olimpia e Pirelli. Benetton, con Schemaventotto e Autostrade. L’italianità è entrata nei rapporti del governo con tutti e tre questi attori.
Proteggere le banche da scalate straniere ha agito da propellente nella grande fusione, che alcuni chiamano, laicamente, OK Paolo, altri, più realisticamente. SanIntesa. Un’operazione che promette significativi vantaggi di efficienza e di efficacia, ma al prezzo di una limitazione della concorrenza possibile, e di una evidente omogeneità culturale. Di cui è spia la rapidità con cui l’operazione è stata benedetta da Palazzo Chigi, appena una manciata di minuti dopo il lancio d’agenzia.
L’idea di risolvere i problemi di Marco Tronchetti Provera vendendo la rete, più precisamente il local loop, non è un’illuminazione improvvisa di Angelo Rovati e dei suoi consulenti. Il Sole 24 Ore qualche settimana prima aveva pubblicato la valutazione fatta da due banche d’affari, su Repubblica era uscita una riflessione di Giuseppe Turani, su Europa un pezzo intitolato «Che fine farà Telecom Italia?» L’operazione è coerente con la logica che anima il progetto di riformare le Autorità, uniformandone le procedure e accorpandone le funzioni, pubblicato a Romano Prodi sul Sole 24 Ore nell’agosto del 2005. Ma soprattutto è implicita nella preoccupazione governativa per la sorte di quelle che viene definita come un’infrastruttura essenziale per il Paese. Il modo più sicuro per metterla al sicuro è, anche simbolicamente, metterla in una Cassa, nella fattispecie quella Depositi e Prestiti. Nella fretta di allontanare il pericoloso pallone dalla zona porta, Prodi non solo disconosce l’ingerenza del suo collaboratore, ma si accontenta delle precisazioni del nuovo presidente per accogliere senza batter ciglio il progetto Telecom di societarizzazione, Anche se non si parla più di vendere la rete, è evidente che la societarizzazione è un passaggio che, all’occorrenza, la rende più facile. Neppure un dubbio suscita il fatto che nessun Paese, tanto meno l’Inghilterra, abbia optato per la separazione societaria del local loop: eppure ciò è dovuto a ragioni tecniche ed economiche, che avranno influenza sullo sviluppo del sistema delle Tlc e dei relativi servizi, e su cui quindi l’Autorità dovrà poter intervenire.
Quella che riguarda il terzo “personaggio”, i Benetton, essi pure soci di Telecom tramite Olimpia, è una storia che ha dell’incredibile e di cui vale la pena ricordare i vari passaggi. Primo. Appena viene annunciata la fusione Autostrade Abertis, si alza lo sbarramento: la proprietà di una delle “infrastrutture essenziali per il Paese” deve restare italiana. Secondo: e poi, c’è un Dpcm che vieta la presenza di costruttori nella compagine azionaria della società risultante dalla fusione. Lo sostengono Palazzo Chigi e Via Nazionale. Ma il Dpcm non si trova. E non si trova perché non c’è: c’è invece, come scrive il Consiglio di Stato, una delibera del Consiglio dei Ministri del 16 Maggio 1997. Che non è esattamente la stessa cosa. Terzo. Bruxelles avanza dei dubbi, e la pregiudiziale costruttori finisce nel cono d’ombra. Alle luci della ribalta vengono le concessioni, che sarebbero da rivedere. Quarto: Rivedere come? Consensualmente come si fa per i contratti? Manco per sogno, Di Pietro indossa di nuovo la toga del pm e minaccia i renitenti con la prospettiva di una nuova Tangentopoli. Se fosse un privato, ci sarebbe certo un pm che presume l’estorsione.
Tre protagonisti, tre storie rette dal pregiudizio dell’italianità, tutte e tre che si muovono lungo linee di forza che conducono a Palazzo Chigi, e che finiscono per formare un’inusitata concentrazione di potere: l’uniformità culturale e la “presa” sulle banche; la rete da tenere sotto tutela, e la “presa” su Tronchetti/Telecom; le minacce di una nuova Tangentopoli e la “presa” su Benetton/Autostrade. Ma non volevamo che la politica facesse un passo indietro?
Il Financial Times di venerdì riferiva del congresso laburista di Manchester. Tony Blair, scrive Philip Srevens, «ha la facile abilità di intessere i fili della miriade di complessità della vita moderna in una convincente narrativa per il cambiamento». Lui e Clinton «restano i due leader che meglio comprendono la cruciale differenza tra mezzi e fini. Il loro successo è costruito sulla separazione dei valori progressisti dei loro partiti dalle politiche sorpassate e impopolari in cui si erano fatalmente impigliati». Per Blair e Clinton il cambiamento deve diventare un dato permanente della politica del centrosinistra, opposto al protezionismo di Washington, alla resistenza dell’Europa ad allargare i propri confini, alla difesa del modello sociale di Parigi, tutti basati sulla illusione che i Governi possano erigere barricate contro il mondo.
Rifiuto della concorrenza tra le teste e tra le idee, blocchi alla concorrenza per il controllo: non è certo solo per questo, ma è anche per questo che «facili abilità di intessere» non se ne vedono molte, «narrative convincenti per il cambiamento» non se ne sentono molte. E poi ci stupiamo delle difficoltà che incontra sulla sua strada il Partito democratico.

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