Il caso Brancher segna il tramonto del Cavaliere

luglio 6, 2010


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista


Apparentemente misteriosa, la vicenda Brancher è invece rivelatrice di cosa succede in questa fase del berlusconismo.
Misteriosa lo era stata per la subitaneità dell’entrata in scena. Ma come, defatiganti discussioni sulle nomine di authority e aziende pubbliche, mesi di interim prima di sostituire un ministro dimissionario, procedure bizantine per promuovere un viceministro: e qui invece, una mattina ci si sveglia e si apprende che c’é bisogno di un nuovo ministro?

Berlusconi è rapido nel prendere decisioni che dipendono solo da lui (una per tutte il discorso del predellino): ma non è impulsivo al punto da ignorare che c’è anche un’altra firma accanto alla sua.
Misteriosa è stata ancor di più l’uscita di scena: senza resistenze, senza difese, senza spiegazioni. Le ragioni di necessità ed urgenza che avevano richiesto la nomina improvvisa, in pochi giorni si sono dileguate? oppure sono passate in secondo piano di fronte ad altre, più gravi e impellenti?
Le spiegazioni per cui la nomina sarebbe stata fatta per evitargli di comparire davanti ai giudici, sono fumogeni. Le dimissioni dimostrano che il problema è politico. Dato che così Aldo Brancher non può più invocare il legittimo impedimento, per evitare lo smacco delle dimissioni bastava non opporlo; e quanto alle deleghe, che ci vuole a scriverle e pubblicarle in Gazzetta Ufficiale? Questa non è la conseguenza di una legge controversa, é un episodio della guerra di successione che si era stati facili profeti nel prevedere, e che Berlusconi non ha voluto o potuto disinnescare in tempo. Qui non si tratta delle recriminazioni di un socio che si ritiene tradito, o delle durezze di un Ministro che si è costruito una solida base, o delle esigenze vitali di un alleato: Aldo Brancher proviene dall’inner circle berlusconiano, la sua vicenda è la più clamorosa manifestazione di questa che, fisiologicamente in ogni senso, è la fase finale del berlusconismo. Per questo è una storia rivelatrice.

La nomina aveva suscitato amare considerazioni al Direttore del Riformista. “Uno passa buona parte della sua età adulta – aveva scritto – a sostenere che il berlusconismo non è un fenomeno criminale ma politico, che va compreso e non demonizzato, che perfino nelle sue menzogne c’è del vero. Uno ci mette la faccia e ci rimette anche qualche rapporto di amicizia per spiegare che persino l’immunità per il capo del Governo non è una bestemmia. E poi Berlusconi col favore delle tenebre nomina l’amico, sodale e imputato Aldo Brancher che attua immediatamente il legittimo impedimento per evitare il suo processo: e ti domandi dove hai sbagliato”.
Le dimissioni suggeriscono considerazioni, se possibile, ancora più amare. Ci sono ragioni per cui “ci avevamo messo la faccia”: si chiamano riforme. Giustizia e scuola, diritto del lavoro e welfare, riequilibrio tra diritti individuali e necessità investigative, federalismo per l’efficienza, riduzione non bagatellare e non episodica del carico fiscale: non è solo il solito elenco delle cose di cui il Paese ha bisogno se non vuole scivolar giù e diventare economicamente e culturalmente marginale. La maggioranza degli italiani queste riforme le vuole, ma le intende in un modo molto diverso da come le interpreta la sinistra: le vuole come base di un diverso rapporto tra cittadino e Stato. E’ perché è costretta a procedere nel solco di (varie) culture politiche, di (vari) retaggi del passato, che la sinistra appare incapace di attuarle; è perché giudica “antropologicamente di destra” il Paese che le attende, che la sinistra poi trova che le mancano i numeri. Non ignoravamo che la scommessa presentava azzardi non piccoli, ma ritenevamo che, non essendoci alternative, bisognasse giocarla con consapevolezza, usando gli anni super flumina Babylonis per prepararsi a scrivere i capitoli nuovi nella storia del riformismo italiano.

L’enormità dello smacco di dover riconoscere di aver fatto un errore di portata istituzionale, dà la misura della dimensione delle crepe nella coalizione di centrodestra. La capacità di Berlusconi di raccogliere consensi forse esiste ancora: per preservare ciò che ne resta, e mascherare la difficoltà, congenita, ma oggi diventata clamorosa, nell’imporsi a soci, alleati, ministri, sembra non abbia altra strada che accettare un sostanziale, lunghissimo immobilismo: riforme, addio.
Intanto su Repubblica, Eugenio Scalfari ripropone una lettura del berlusconismo come patologia para-criminale del Paese, dalla banca Rasini alla legge Ghidini sulle intercettazioni; le sirene neocentriste intonano di nuovo il loro canto sulle “larghe intese”; il PD prudentemente si affida alla saggezza del Capo dello Stato.

E saremmo noi ad avere sbagliato?

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di Antonio Polito – Il Riformista, 25 giugno 2010

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