Archivio per il Tag »riforme«
→ luglio 18, 2020
Dai rapporti con l’Europa allo smartworking, qualsiasi tema viene affrontato per diffondere il verbo populista e strappare l’applauso
È del 2003, per la precisione del 23 Ottobre, il primo articolo che scrissi sul Riformista. Al Governo c’era Berlusconi e noi eravamo all’opposizione. Ma se qualcuno mi avesse chiesto quali riforme avremmo voluto fare, avrei parlato per mezz’ora. Oggi non saprei che dire perché oggi pregiudiziale al parlare di riforme è avere in Parlamento una maggioranza e un’opposizione diverse. Di che cosa parlare con chi ha contagiato Paese e il Parlamento con il reddito di cittadinanza navigatori inclusi, con l’abolizione della prescrizione, con il rifiuto del Mes, con il no-Vax, il no-Tap, il no-Tav, il no-Olimpiadi, con la loro scuola e la loro Roma. E dall’altra parte, con quota 100 per i pensionandi e con quota O per i migranti. E taccio della sinistra, con qualche generosità attribuisco al contagio i suoi scivoloni.
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→ novembre 19, 2018
Italy is, according to David Folkerts-Laundau (“Europe must cut a grand bargain with Italy”, FT November 13, 2018), a “frugal country”: and not because of its private savings, but because of its legacy debt predating the euro, and of its long history of primary budget surplus. Is it really?
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→ febbraio 1, 2017
Ci sono molte cose che il Governo potrebbe fare, ma non c’è modo di farle. È il momento di contendere al populismo lo spazio in cui cresce.
Che si vada a votare quest’anno o l’anno prossimo, non c’è modo per il governo di intestarsi un progetto riformista. Non c’è lo spazio operativo, perché tra retaggi del passato – legge elettorale, interventi su voucher e appalti – , l’eterna incompiuta – pensioni di cui completare i decreti attuativi -, newcomer – le Ape volontaria e sociale, il programma contro la povertà – e (a sognare) la legge sulla concorrenza, l’agenda è già fin troppo fitta. E non c’è lo spazio politico, perché articolare un progetto riformista richiede non la ragion pratica di uno scorcio di legislatura, ma la ragion pura di un programma di governo.
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→ gennaio 6, 2017
«La bella storia di Orlando innamorato e poi furioso»: il titolo del saggio di Panzini riaffiora dalle memorie adolescenziali con la suggestione di una parafrasi: “la storia di noi, di Renzi innamorati e poi furiosi”.
Perché “innamorati” lo fummo. Quando liberò il partito da retaggi culturali abiurati ma non abbandonati, da presenze marginalizzate ma ancora ingombranti. Quando eliminò l’antiberlusconismo come strumento della politica. Quando per la legge elettorale, suo primario compito, trasformò la pallida “vocazione” veltroniana in vibrante missione maggioritaria. Quando palesò l’ambizioso elenco delle riforme costituzionali – titolo V, Senato – e ordinarie – Pubblica Amministrazione, scuola, lavoro. Per un momento credemmo di essere tornati all’imponente programma riformatore del Prodi I (si licet parva) e della Bicamerale (absit injuria).
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→ agosto 21, 2014
Caro direttore, Renzi, se vuole, è capace di parlar chiaro. Lo ha dimostrato con le riforme istituzionali (Senato e legge elettorale): erano chiari gli obbiettivi, i tempi, le alleanze politiche, e il metodo, almeno per ora, sembra averlo premiato. Invece quando dice che «in nessun caso noi sforeremo il 3%» nel rapporto tra deficit e prodotto interno lordo (Pil), non riusciamo a capire se questa è una buona o una cattiva notizia. Cioè se significa che ha scelto la strategia di «tagli marginali e qualche aumento nascosto della pressione fiscale» che, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 17 agosto), «ci regalerebbe un altro anno di crescita negativa», oppure se vuol dire che questo per lui è solo un traguardo di tappa, e che non ha rinunciato alla «strategia coraggiosa» che gli consigliano.
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→ luglio 25, 2014
di Guido Tabellini
Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell’area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l’inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell’offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell’area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito.
Alla fine del 2013, i consumi privati dell’intera area euro erano del 2% sotto i livelli raggiunti a fine 2007; gli investimenti privati erano sotto del 20%; solo le esportazioni sono salite di quasi il 10% negli ultimi sei anni. Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell’area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l’emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell’arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull’espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell’operazione: l’espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l’aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso.
E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie. Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un’ipotesi del genere nell’area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l’azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l’intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l’aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana? Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt’altro che scontata, perché l’assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l’anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c’è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.
Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata. In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile. E le politiche dell’offerta per ridare competitività all’economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell’economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive. In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l’area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.