Giani bifronte, nemici del mercato

luglio 24, 1998


Pubblicato In: Varie


Giano bifronte, questo il simbolo che si dovrebbe scegliere per il problema delle casse di risparmio: a indicare non solo l’incompiuta separazione tra fondazioni e banche, ma anche la doppiezza e l’ambiguità che sembrano inseguire questo problema come una maledizione. Ora l’ambiguità rischia di diventare definitiva, di diffondersi e contagiare anche il sistema delle società private: se la legge in discussione in questi giorni al Senato non dovesse essere emendata.

La faccia di Giano che si presenta al pubblico é ancora quella della privatizzazione delle banche. Questa, che fu una frontiera già teatro di violenti scontri, oggi è diventata una trincea abbandonata. Vi stanno solo più, alabarde al piede, guerrieri medievali; accade di incontrarvi il presidente di qualche fondazione minore: non abbiamo mai chiesto nulla allo stato, declama a qualche convegno, perché non possiamo continuare a fare il nostro onorato mestiere a vantaggio delle nostre comunità? Quelli che contano, le grandi fondazioni, lo guardano con sorridete condiscendenza: S.Paolo, Cariplo, Roma, Torino, Venezia, per citare solo le maggiori, loro non hanno aspettato la legge per muoversi. Sulla trincea delle privatizzazioni non si combatte più, si passa a incassare i benefici fiscali.
C’é poi una seconda trincea: vi si combatte la nobilisssima battaglia sulle missioni delle fondazioni, su quello che dovranno fare. Diventare delle ONLUS, le organizzazioni senza fine di lucro che il Governo Prodi ha recentemente formato? Finanziarie? Gli obbiettivi minimi di redditività e di percentuali erogate, che questa legge prevedeva, suonano come un’offesa, angusto appare lo spazio offerto al loro operare, la cultura, la sanità, l’istruzione e, caso mai non bastasse, l’assistenza alle categorie sociali deboli.
E’ questione di libertà di iniziativa degli individui, protestano le fondazioni. Nobilissima la causa, ma finta: la si discute solo per distrarre l’attenzione dalla vera posta in gioco. E la posta in gioco è, manco a dirlo, il patrimonio, che cosa le fondazioni possono farne. La riforma Draghi introduce maggiore mobilità nel controllo proprietario, le privatizzazioni offono nuove possibilità di investire, mancano gli investitori istituzionali. La combnazione di questi fatti apre inaspettate prospettive: con 50.000 miliardi molte e interessanti sono le combinazioni in cui si può entrare. La vendita delle banche, da minaccia che sembrava, appare ora come una straordinaria opportunità, sol che si proceda gradualmente: ma per questo si può contare su Bankitalia. E poi, l’ha capito perfino Bertinotti che per comandare non serve avere il 100%!
L’erma di Giano vien fatta ruotare un’altra volta: ed ecco le fondazioni trasformate in investitori istituzionali.
Altro che privatizzazione delle banche, altro che opere di utilità sociale: si può diventare protagonisti nella mappa degli assetti proprietari delle imprese private. Benvenuti nei noccioli duri, nei sindacati di controllo! Sono in molti ad auguraselo: i vertici delle fondazioni che avranno rapporti non più con le direzioni amministrative e finanziarie dei clienti, come negli anni grigi delle banche, ma con i soci nei consigli di amministrazione.
Le aziende , che pensano di aver trovato soci ideali, che non chiedono grandi dividendi e non disturbano. I partiti di destra e di sinistra che cercano di conquistarsi i favori dei notabilati locali prima e di condizionarli poi. Ma i veri sponsor dell’operazione sono quelli che ancora rimpiangono le Partecipazioni Statali “buone”, che perseguono il disegno di dar vita ad un contraltare al “soliti noti”, alla “Galassia del Nord” al “sistema Cuccia” , e sognano cavalieri bianchi vittoriosi sugli gnomi ricurvi e grigi. In questo gioco a chi é più furbo rischiano di rimanere tutti gabbati. I presidenti delle fondazioni che si illudono che non saranno sostituiti quando il potere politico vorrà controllare lui certi snodi; le aziende che invece degli azionisti da accontentare con il profumo del potere, potrebbero trovarsi chi vuole giocare in proprio; i partiti che pensano di giocarsi a vicenda.
Ma chi ci rimetterà é il mercato, cioé noi. A chi vorrebbe – anche a fargli credito della buona fede – allargare il campo dei soggetti proprietari, bisogna ricordare che occupare il terreno con soggetti impropri spiazza e scoraggia dall’entrarvi i soggetti propri. Le fondazioni non sono e non possono essere investitori istituzionali. Questo é il punto che non bisogna cessare di ribadire. Non lo sono perche’ il patrimonio e’ strumentale all’obbiettivo, non oggetto stesso dell’attività. Non lo sono perché nessuno ha diritti sul patrimonio delle fondazioni: per conto di chi dunque investirebbero? Non lo sono perché gli enti no profit non devono rispondere ad azionisti, basta loro garantire il mantenimento del patrimonio, anche se il suo rendimento è inferiore a quello medio di mercato.
Le fondazioni hanno interesse a investire nel mercato azionario perché questo é il modo migliore per incrementare il proprio patrimonio: ma devono farlo obbligatoriamente attraverso il velo di investitori professionali. Sono le fondazioni stesse che dovrebbere pretendere questo vincolo. Perché questo vincolo é insieme una garanzia e un’assicurazione: la garanzia che le fondazioni saranno protette dalle cupidigie del potere politico, e l’assicurazione che le scelte finanziarie dei loro amministratori non saranno contestate. Non esiste nessuna ragione per cui le fondazioni vi si oppongano. Chi si oppone, che sia il Governo, o forze politiche, non ha in mente né la conservazione di patrimoni che appartengono allde collettività, né gli scopi di utilità sociale, ha in mente altro. Noi sappiamo che cosa: bisogna che sappiano che noi sappiamo.

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