Francia, la lezione di una sconfitta

aprile 24, 2002


Pubblicato In: Varie

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Dopo Francia e Germania

Dopo il risultato delle elezioni presidenziali in Francia, e di quelle regionali in Germania, la questione sollevata da Furio Colombo nell’editoriale di domenica (Opposizione: professionisti e volontari) assume un significato diverso. In due sensi: perché la dimensione del problema non è più solo quella italiana; e perché dobbiamo chiederci che cosa l’opposizione in Italia possa imparare dalla sconfitta della sinistra in Francia.

C’è una singolarità storica che distingue la sinistra italiana dalle altre sinistre europee: al potere, vincendo le elezioni, è arrivata molto più tardi che negli altri grandi paesi europei. Una delle grandi emozioni della mia vita è legata al comizio quella sera di aprile del 1996, quando, eletto membro di una maggioranza che per la prima volta portava la sinistra al governo della Repubblica, guardavo le facce di militanti che per mezzo secolo avevano aspettato quel momento.

Questa singolarità ha lasciato un segno. La sinistra italiana è entrata nella stanza dei bottoni quasi sempre sull’onda di situazioni di emergenza: le Brigate Rosse, l’uccisione di Moro, Mani Pulite, il dissesto della finanza pubblica, l’euro, la guerra in Kosovo. Anche per questo, credo, “resistere” e “indignarsi” è un binomio che seduce, a sinistra, non solo in quanto collante per tenere insieme le varie anime, ma come l’eco di un’unica strategia possibile. Quella emergenziale, frontista non per il retaggio cominformista, ma come può esserlo evocare ogni union sacrée della civiltà contro la barbarie, della democrazia contro l’autoritarismo.

Per Furio Colombo c’è “un solo punto essenziale: che opposizione stiamo facendo”. Io credo che proprio la lezione francese ci ponga il problema in termini diversi: che cosa deve fare la sinistra per andare al potere e poi che cosa deve fare per mantenerlo. Furio Colombo ritiene che “il che fare” debba articolarsi su tre argomenti: l’opposizione, il riformismo, le elezioni. Sono d’accordo con lui che questi siano i temi, e vorrei rispondere sia pure in un ordine diverso.

1. Per vincere bisogna volerlo: per questo io metto le elezioni al primo punto. Ho l’impressione che a sinistra non siamo tutti d’accordo. Se infatti io sostengo posizioni “eterodosse” sull’articolo 18 ricevo contestazioni, ma quando dico che nel maggioritario quello che conta è vincere, perché chi vince prende tutta la posta, allora l’accusa è di apostasia. Proprio su questo punto è del resto cominciata la vivace discussione di fine anno con l’Unità.

No, mi si risponde, che cosa conta vincere se si perde la propria identità? Non ci si accorge che da questa precisa domanda nascono le divisioni nella sinistra, perché di identità ce ne sono tante, si può andare alle elezioni per tentare di sottolineare ciascuno la propria, e succede come da noi l’anno scorso e in Francia l’altroieri. Mentre voler vincere unifica, perché vincere vuol dire una sola cosa: avere la maggioranza dei seggi in Parlamento.

2. Per vincere bisogna avere la mentalità della maggioranza e non quella dell’opposizione. Non è solo questione di incanalare “l’energia e la passione” là dove sono attese da una sinistra da sempre abituata all’opposizione, ma al contrario usarle per creare la proposta vincente per una sinistra che non vi è abituata. Per battere una maggioranza sul suo terreno ci vuole una mentalità diversa da quella dello scavare trincee per resistervi. Bisogna imparare a conoscere l’avversario per quello che è.

Anche a questo fine il confronto con la Francia può essere utile. Quanto di più simile a Le Pen da noi non è AN, come AN stessa ha immediatamente tenuto a precisare, ma la Lega che non ha ottenuto il 4% dei voti e la cui parabola è declinante. Sarebbe altresì un grave errore non cogliere la diversità tra Chirac e Berlusconi.

Non parlo della commistione più o meno marcata con gli scandali, né dimentico il conflitto d’interessi. Ma la vera differenza è tra la destra esangue del presidente francese che non arriva al 20 per cento, e le nuove domande (in campo fiscale, amministrativo, scolastico, e anche, abbiamo il coraggio di dirlo, nella giustizia) che sono espresse dagli italiani e che Forza Italia ha cercato con successo di intercettare un anno fa.

3. Infine, il riformismo. Jospin assume come proprio motto il “ni… ni”. Devono entusiasmarsi, gli elettori? Schroeder, all’inizio del suo mandato aveva proposto larghi tagli fiscali e radicali riforme delle pensioni, ma man mano che si avvicinano le elezioni interpreta di fatto la “neue Mitte” come il ritorno al tradizionale conservatorismo delle socialdemocrazie occidentali. Sono stupidi gli elettori, che non ne devono tener conto? Se c’è una cosa sulla quale le elezioni francesi hanno detto una parola inequivocabile, è che nessuna coalizione che cerchi solo di rappresentare le multiformi identità delle varie sinistre fino all’opposizione no-global ha la minima speranza di vincere in Europa, dove è in atto una generalizzata deriva verso posizioni che solo un’interpretazione tradizionale può limitarsi a bollare come “di destra”.

So che altri, tra i Ds, nelle file dell’opposizione congressuale, la pensano diversamente. Discutiamone, civilmente, senza scomuniche. Ma le domande su sicurezza pubblica, meno tasse, servizi efficienti, la problematica convivenza con gli immigrati, sono domande espresse dagli elettorati. Di destra e sinistra sono le risposte per governarle, non i sentimenti degli “passione e l’energia riformista” va applicata su strade nuove.

Bisogna liberarsi da vincoli e condizionamenti del politically correct di sinistra, di un radicalismo auto-compiaciuto. La sinistra vincerà solo quando sarà capace di capire che per tenere il centro deve fare le riforme che convengano all’individuo, rivendicarle, gridarle, urlarle, incalzare una destra che non le sa e non le vuole fare perché prigioniera di interessi e lobby. Quella che perde è la sinistra del “sì ma”, quella che promette riforme e non le fa, come in Germania, o ne fa alcune ed altre insieme, contraddittorie, senza decidersi quale sia il suo profilo, come Jospin.

Ci vuole un pensiero politico nuovo. Non è impossibile. Ci è riuscito nel 1996. E’ durato solo 18 mesi. Sappiamo chi e perché l’ha spento.

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