Far politica è capire cosa può fare questo nostro Paese

gennaio 2, 2002


Pubblicato In: Varie


Sono debitore di una risposta alla replica che su queste colonne mi ha riservato Gianni Vattimo. Ma prima di parlare dei due punti di dissenso che egli individua, c’è una questione da affrontare, e cioè il giudizio che si dà sulla situazione politica dopo le elezioni del maggio 2001.
“Questo non è un regime” scrivo io. L’articolo di Vattimo invece è punteggiato di espressioni e riferimenti che rivelano un’opinione opposta.

Berlusconi gli fa l’effetto di uno che “ ha invaso casa [sua] sfondando la porta” (poi rettifica, ma intanto lo dice); chi scrive sui suoi giornali gli ricorda chi partecipava ai Littoriali e scriveva su L’Impero; questi primi mesi del governo Berlusconi lo inducono a rievocare il delitto Matteotti. Bisogna allora intendersi: un conto è l’inconoscibile “verità della politica”, che Vattimo schiva, altro è la verità dei fatti, interpretabili certo, ma che almeno vanno enunciati.

“ Le elezioni”, scrive Vattimo, “sono libere finchè sono regolate dalle leggi, non autorizzano a mettere in mora la legge”. Quale è la legge di garanzia del procedimento democratico che il Governo avrebbe messo in mora? Berlusconi, scrive ancora, è “inquisito o pregiudicato” per reati che minacciano molto da vicino la libertà di stampa”. E chi lo accetta come intelocutore democratico “ragiona come fosse accertato che le accuse a Berlusconi sono false o infondate”. No, caro Vattimo, io da buon liberale pratico la separazione della politica dalla giustizia: se e quando ci saranno condanne per Berlusconi, ne misurerò le conseguenze politiche. Prima di allora, “sperare che Berlusconi sia messo dai giudici in condizione di non nuocere”, come fai tu, ritengo sia assolutamente illiberale..
Nella mia replica suggerivo poi di smetterla con il paragone con la resistibile ascesa di Hitler al potere. Ma poiché Vattimo ancora ne parla, ribadisco che l’analogia è improponibile. Perché non siamo nella Repubblica di Weimar. Si trattava di elezioni col proporzionale e non con il maggioritario. Nella nostra Costituzione non c’è quell’art. 48 che dava al capo dello stato poteri di emergenza. E perché, se proprio si vuole, al Quirinale non c’è un Hindenburg che sciolga il Parlamento e consenta a Hitler nel 1933 di rovesciare il negativo risultato delle ultime elezioni del 1932. .
Quindi ripeto: questo non è un regime. Vattimo resta libero pensare diversamente. Ma se siamo nella fase nascente di una dittatura, se, come riconosce, “non basta arroccarsi su qualche Aventino”, c’è un’unica conclusione possibile: il ricorso alla lotta armata.
Se il regime è il suo timore, allora solo mi spiego come gli sia venuto di mettere in un solo fascio i berlusconiani a Radio Radicale, chi ha cambiato partito, chi “ancora(?)” non l’ha fatto, chi enuncia opinioni diverse “persino” da parlamentare, come il sottoscritto: perché se è emergenza democratica non si va tanto per il sottile, chi non resiste su per monti e vallate è un collaborazionista.

E’in questa differenza di giudizio che affonda le radici la divergenza di opinioni sui due punti, per Vattimo, della “sostanza delle cose”. Vattimo trova contraddittorio che io da un lato sostenga che in politica quello che conta è vincere e governare, dall’altro che io abbia sostenuto la mozione Morando che ha preso solo il 4,1% dei voti congressuali. E che c’entra? Alle politiche si eleggono i parlamentari, nei congressi di partito si definiscono le linee politiche. A meno che si intenda ritornare al tempi in cui i congressi servivano ad acclamare un leader, da cui attendere l’indicazione della linea. Scongiurare questa eventualità è proprio stato il primo obbiettivo della mozione Morando. Io credo che la presentazione della nostra piattaforma in tutte le sezioni abbia sbloccato la sclerosi di una parte dei militanti (e del sindacato), abbia allargato la loro visione politica.
E veniamo infine alla proposta politica, alle “leggi buone” che la sinistra non avrebbe saputo fare. Io non ho mai detto questo, anzi ho detto il contrario. Alla raccolta dei miei interventi nella passata legislatura ho dato il titolo “Sappia la destra”: è un’orgogliosa rivendicazione di ciò che la sinistra ha fatto per trasformare il paese; è un’accusa alle resistenze illiberali e conservatrici della destra. Per cinque anni ho sostenuto che bisognava fare di più sulla strada delle riforme. Le riforme che oggi lamentiamo che Berlusconi faccia a modo suo, sono le riforme che l’opposizione interna ci ha impedito di fare a modo nostro. Citare il dettato costituzionale, quello che proibisce (non solo non prevede, caro Gianni) il vincolo di mandato, stupirsi che io “rimanga” parlamentare DS e “resti” nel partito, è – a essere molto gentili – fuori luogo: le mie idee sono state enunciate in centinaia di articoli, in una dozzina di disegni di legge, in tre campagne elettorali.
Su che cosa sia utile al paese ritengo di avere alcune idee chiare. Ma su una ho assoluta certezza: che non vinceremo limitandoci ad assecondare gli umori della nostra constituency. Non ho mai preteso di sapere che cosa sia “la verità della politica”, ma so che fare politica è cercare di capire che cosa può fare questo nostro benedetto paese per mettere a frutto le proprie risorse, perché le sue genti abbiano motivazioni ed energie per investire nella propria crescita, perchè dalla volontà dei loro cittadini dipende “la ricchezza delle nazioni”. Fare politica per noi non è leggere il barometro della propria constituency: quello lo fa Berlusconi con i suoi sondaggi. Quando poi le elezioni si sono perse, la funzione di una leadershipo politica è di indicare obiettivi e proposte più adeguate. A costo di deludere chi indica come soluzione l’arrocco, sia esso su vecchie rappresentanze di classe o su nuovi movimentismi antiglobal. Lo credo non perché non ami abbastanza la “mia” gente, la sinistra. Al contrario, perché sono convinto che l’amore che dobbiamo portare alla sinistra debba essere fecondo, non ridurci, come scriveva Musil, a quegli “innamorati che guardano nell ’amore come nel sole, e divengono semplicemente ciechi”

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