Ecco perché privatizzare fa bene allo stato. Altro che “svendita dei gioielli”

marzo 4, 2024


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


di Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro

Il piano del governo Meloni non è una rivoluzione ma un aggiustamento marginale delle partecipazioni pubbliche. In questo contesto le privatizzazioni possono diventare un’occasione per aumentare la concorrenza

Le polemiche sull’ingresso dello stato nel capitale di Stellantis hanno fatto perdere di vista la polemica precedente: quella sulla “svendita” di asset pubblici. D’altronde, le stesse imprese italiane – come ha notato Ferruccio De Bortoli sull’Economia del Corriere della sera di lunedì 19 febbraio – sembrano ben poco interessate alle privatizzazioni, diversamente dal passato. Forse la ragione è che in ballo non c’è una scelta (verrebbe da dire) di politica industriale, ma una mera riorganizzazione delle partecipazioni finanziarie dello stato. Sul quotidiano di via Solferino, Francesco Giavazzi aveva a sua volta notato che ciò “significa che [Giorgia Meloni] vuol continuare a controllarle e usarle come strumento di intervento sui mercati” (3 febbraio). A noi sembra che possa essere vero anche il contrario: le privatizzazioni possono diventare un’occasione per aumentare la concorrenza.

Nei servizi pubblici, lo stato definisce le prestazioni attraverso la disciplina generale e settoriale e con le Autorità di regolazione, e i loro reciproci rapporti con l’autorità Antitrust. Lo stato mantiene comunque il diritto di alterare la concorrenza per il controllo delle imprese private, attraverso il golden power, ponendo dei limiti ai soggetti stranieri. Non bastano tutti questi poteri di intervento? Quali obiettivi lo stato può raggiungere soltanto con il controllo del capitale azionario? La risposta è semplice: la possibilità di nominare i consiglieri di amministrazione e i vertici operativi – e pure di influenzare alcune scelte strategiche, per esempio sul mantenimento di siti produttivi o il salvataggio di imprese decotte.

La privatizzazione parziale limita questa libertà: c’è quindi un positivo elemento nell’apertura ai privati del capitale. È anche per questo che la quotazione di Eni, Enel, Terna, Snam, Leonardo e, da ultimo, Poste ha determinato un miglioramento nella loro performance e nella disciplina a cui sono assoggettate. L’apertura del capitale ai privati si porta appresso modifiche alla struttura interna delle aziende. La grande dimensione è sempre stata l’obiettivo, quando non la ragion d’essere delle aziende pubbliche: la privatizzazione può vantaggiosamente essere l’occasione per individuare, isolare, valorizzare rami d’azienda che negli anni si sono formati all’interno dei grandi moloch statali. “Vendete i bonsai di stato” scriveva uno di noi (Debenedetti) nel luglio 1992, all’alba di quella che speravamo sarebbe stata la grande stagione delle nostre privatizzazioni. Così è stato molti anni dopo (anche se chiamarli bonsai fa un po’ ridere) per Terna, così per Snam, separate rispettivamente da Enel e da Eni. Perfino la Rai ha venduto le torri di trasmissione.

Se le privatizzazioni hanno prodotto almeno alcuni tra i risultati sperati perché abbiamo fatto tanti passi indietro? Perché oggi qualunque vendita viene trattata alla stregua di una rinuncia ai “gioielli di famiglia”? In molti casi la scelta originaria di privatizzare è stata travolta, da Tim alle Autostrade, con motivazioni che quasi sempre sono apparse pretestuose.

In questo contesto, l’operazione del governo va presa per quello che è: né una svendita, né una rivoluzione. Semplicemente, un aggiustamento marginale delle partecipazioni pubbliche: lo stato preferisce capitalizzare oggi il valore di alcune partecipazioni di minoranza, che ricevere quello stesso valore nel corso degli anni in forma di dividendi. C’è un’unica eccezione: le Ferrovie dello stato.

Diversamente da aziende quali Eni e Poste, FSI è ancora a capitale interamente pubblico. Una privatizzazione, anche parziale, potrebbe contribuire a innescare quel processo di modernizzazione che finora si è manifestato solo in parte. La Rete ferroviaria italiana ovviamente non è né duplicabile né segmentabile. Lo sono invece, è possibile, le attività di trasporto, passeggeri, merci, autobus, dove la concorrenza c’è (alta velocità e merci) e dove potrebbe esserci (trasporto regionale). L’entrata sul mercato di Italo ha dimostrato gli inconvenienti e le asimmetrie che possono nascere dal fatto che le Ferrovie sono fornitori della infrastruttura e concorrenti dei servizi di trasporto.

In altri mercati, come l’energia elettrica e il gas, la separazione tra le infrastrutture e le attività commerciali ha dato ottimi risultati sia per quanto riguarda la politica di investimento delle prime, sia per quanto concerne la contendibilità delle altre. Perché non fare della necessità di gettito una virtù concorrenziale, riorganizzando un settore cruciale per la mobilità nel paese?

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