È vera etica dire no alle tangenti perchè distorcono il mercato

giugno 1, 1993


Pubblicato In: Varie


Il problema dei codici di comportamento interni delle aziende, è che essi, in quanto ribadiscono divieti già disposti per legge, paiono una parafrasi esplicativa, che si dovrebbe supporre superflua, date le persone cui viene diretta; né l’esplicitazione delle procedure interne per controllarne l’applicazione è materia di particolare interesse per il pubblico.
Diverso fu il caso, che è stato autorevolmente ricordato, delle regole interne che molte grandi aziende, americane si diedero a seguito dell’affare Lockheed: là si volle aggiungere un ulteriore vincolo all’attività aziendale, sanzionando anche le pratiche illecite commesse fuori dalla giurisdizione americana, ad esempio in paesi con codici morali assai diversi da quelli vigenti nelle democrazie occidentali. Predisporre tali strumenti può servire ad alcuni scopi pratici di protezione: vuoi dei vertici aziendali, che possono dimostrare di avere vigilato perché la legge venisse osservata, vuoi dei responsabili operativi, che possono più facilmente opporre rifiuti alle indebite richieste: ma anche questa non sarebbe materia di soverchio interesse generale.
D’altra parte i campi di attività economica soggetti a vincoli morali sono molti, e la vastità dello scandalo tangentizio non dovrebbe fare dimenticare gli altri, tutti ovviamente uguali di fronte alla sanzione legislativa, e di pari se non superiore importanza quanto a conseguenze pratiche. Perché non si sente la necessità di emanare un codice per dire che bisogna pagare le tasse, che non bisogna inquinare, che si devono rispettare i diritti sindacali, che non si devono ingannare í consumatori, o mettere in circolazione prodotti dannosi? O che si devono dare informazioni tempestive e trasparenti ai risparmiatori?
Né si dovrebbe dimenticare che, come i peccati contro lo spirito sono assai più gravi che non quelli per la carne, così esiste un ampio (e finora inesplorato) campo di scambi le cui contropartite non sono il danaro, ma il peso della propria influenza, in particolare il potere, che la società della comunicazione ha smisuratamente esaltato, di influenzare l’opinione pubblica. Per un politico, l’etere può essere più importante di una galleria, un anchorman più del presidente di una banca. Se tali codici deontologici esprimessero solo il «riconoscimento solenne che non c’è una morale degli affari diversa da quella che comanda 4 rispetto rigoroso delle regole esplicite del gioco economico» (Vattimo sulla “Stampa del 12 Maggio) il loro effetto rischierebbe di essere vanificato in presenza di una classe politica acquisitiva e di una burocrazia inefficiente e corrotta: è noto che il deterrente di per sé non elimina il delitto, ma ne fa solo aumentare il costo; e l’astinenza di uno non assicura la moralità di tutti. Non si risolve il problema introducendo categorie morali nelle teorie econo-miche: i “moral sentiments” precedono di parecchi anni la teoria della mano invisibile, e l’etica protestante è il punto di partenza di un processo che conduce necessariamente alla totale laicizzazione dell’attività di impresa. I vincoli esterni, quali le leggi, diventano operanti non quando essi sono introiettati come morale, ma se la strategia d’impresa viene modificata per te-nerne conto. Un esempio classico sono i regolamenti antiinquinamento che i giapponesi hanno saputo assumere non come vincolo, ma come elemento strategico, risultato fondamentale per affermarsi sul mercato americano, in particolare in California.
Il significato di predisporre tali documenti va quindi ricercato non tanto in quello che dicono, ma nel perché si ritiene necessario dire che dorinnanzi si intende osservare la legge. Il solo significato che ne assicurerebbe la efficacia nel tempo, sta nel riconoscimento che questo sistema non è più funzionale allo sviluppo di una grande e moderna azienda. Il volume politico sarebbe da leggersi non nell’accettazione del vincolo di legge, ma nel rifiuto del vincolo rap-presentato dalla tassa tangentizia; il valore economico nel motivare tale rifiuto non solo per i costi impropri che rappresenta, ma per la distorsione che impone al mercato e quindi anche ad un’azienda cosciente delle proprie forze.
È in fondo una situazione analoga a quella che si verifica per quanto riguarda la protezione del mercato e della concorrenza, bene economico collettivo preminente, da cui dipende il benessere di ogni cittadino e la sua libertà di svolgere attività d’impresa: negli Usa la legge che regola la concorrenza (lo Scott-Rodino Act) è della fine dell’800. Esso ha modificato le strategie d’impresa che vedono in esso non solo un vincolo alla propria attività, ma opportunità per le proprie iniziative. Finché da noi tale legge non c’era, voleva significare che si ritenevano più confacenti strategie nazionali ed aziendali a protezione di situazioni monopolistiche. Darsi un simile codice di comportamento dovrebbe quindi significare non un atto, in fondo pleonastico, di sottomissione alla legge, ma la richiesta di essere retti da un sistema politico che sappia decidere avendo di mira il solo bene del Paese, e di essere amministrati da una burocrazia che sappia funzionare senza necessità di “stimoli” impropri; e la dichiarazione da parte dell’azienda di accettare le implicazioni, modellando coerentemente le proprie strategie.

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