E ora privatizzare

febbraio 25, 2002


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Questione Rai

E adesso privatizziamo la RAI. Altri esprimeranno i loro giudizi e le loro valutazioni sui nomi che i Presidenti di Senato e Camera hanno designato per il CdA RAI. Ma su una cosa credo che tutti, probabilmente a partire dagli stessi interessati, concorderanno: non è stata una vicenda esaltante.

E non si venga a dire che è il frutto anomalo di circostanze eccezionali. Al contrario: questo è il risultato , magari parossistico, di contraddizioni che sono alla radice stessa del nostro sistema delle TV. Bisogna cambiare regime, bisogna privatizzare la RAI: è molto significativo che un’indicazione in questo senso sia venuta dal presidente del Senato all’atto delle nomine.

Sarà un percorso irto di difficoltà e disseminato di insidie: per questo credo che sia utile porre alcune luci di segnalazione. Ne propongo quattro: due fari bianchi a indicare gli obbiettivi per cui si intraprende il viaggio; due fari rossi a indicare le secche su cui si potrebbe fare naufragio.

In Europa viva è la competizione nel settore televisivo. Bertelsmann, Vivendi, Carlton, Grenada, Murdoch, Kirch, lottano per posizionarsi; la tecnologia apre nuove frontiere di concorrenza tra etere tradizionale, digitale terrestre, cavo, satellite; si cercano nuovi modelli di business nella sinergia tra carta stampata, dischi, televisione, cinema, telefonia, internet. Il primo faro bianco è l’esigenza di non tagliare fuori le imprese italiane da questo processo di formazione e di trasformazione dell’industria europea dei media. Oggi le due maggiori imprese italiane guardano da un’altra parte, bloccate in un duopolio pubblico – privato, ingessate da regole che segmentano i settori in cui possono operare.

Mediaset è accreditata di un margine operativo tra i più alti al mondo nel settore: per una parte, che sarebbe sciocco disconoscere, per merito proprio, e per un’altra, inevitabilmente, per la nicchia nazionale protetta in cui opera. Le energie di Rai e Mediaset sono tutte concentrate alla ricerca di microscopici spostamenti nell’audience: non hanno incentivo per affrontare la competizione in campo aperto.

E imprese italiane che avrebbero capitali e competenze per entrare nell’arena televisiva ne rimangono escluse. Il blocco del pluralismo incomincia con il blocco imposto a queste imprese: il pluralismo non riguarda solo lo stadio finale del processo e cioè il programma, ma è il frutto del pluralismo di culture aziendali, di modelli di business, di stili di management. E’ così per tutte le imprese, non c’è ragione che sia diverso per la TV.

Il secondo faro bianco è la necessità di liberare le massime cariche dello Stato da compiti che, nella migliore delle ipotesi, non hanno nulla a che fare con il loro ruolo istituzionale. I Presidenti di Senato e Camera sono garanti del funzionamento dei due rami del Parlamento, non degli equilibri di vertici aziendali. E invece, da una parte si chiedeva loro di nominare un “presidente di garanzia”: che cosa vuol dire? chi e con quale metodo certificherà questa ineffabile qualità? La loro responsabilità si esaurisce con la nomina o si estende per tutto il mandato? E ancora: garanzia di smorzare i toni o di bilanciarli? garanzia del pluralismo, o della sua inseparabile caricatura, la lottizzazione? Dall’altro lato si sono esposti i presidenti di Senato e Camera a neppure velate interferenze da parte dell’esecutivo.

Non ci illuda, quello che è successo, succederà ancora. Non c’è che una soluzione: depotenziare l’oggetto del contendere, considerare che il servizio pubblico è quello fornito dall’insieme del sistema televisivo, da due o tre operatori privati in concorrenza tra loro per il mercato della pubblicità e da un’azienda pubblica finanziata dal solo canone.

E veniamo ai fari rossi. La prima secca da cui girare al largo è il tema del conflitto di interessi. Questo è un problema di enorme importanza, e la sinistra dovrebbe essere in prima fila a volerlo considerare diverso e distinto da quello della Rai e del pluralismo. E’ evidente infatti che la vendita della Rai non cambierebbe in nulla il conflitto di interessi di Berlusconi capo del Governo. E per converso, se vendesse Mediaset tutta intera Berlusconi risolverebbe sì il suo conflitto di interessi, ma non verrebbero meno le ragioni per vendere la Rai.

Supponiamo infatti – e chi è di sinistra non dovrebbe avere difficoltà a farlo – che il centro-sinistra ritorni al governo: non ci sarebbe più pluralismo se Mediaset avesse cambiato padrone; né sarebbero meno accaniti i combattimenti per imporre al vertice Rai i propri concetti di “garanzia”(e i propri criteri di lottizzazione).

Sul secondo scoglio da evitare meditano i campioni del metodo logico-deduttivo, quello per cui bisogna prima fissare le regole generali della liberalizzazione, e solo dopo avere tracciato le linee sul campo si può consentire alla Rai privata di avventurarvisi. Evidentemente gli esempi della legge Mammì, della commissione Bogi-Napoletano del ’95, della legge Maccanico, della scorsa legislatura non hanno insegnato nulla.

Si era perfino giunti a proporre un sistema di punteggi: tanto per un giornale locale, tanto per uno nazionale e così via, contando per settimanali e radio e televisioni, e a nessun soggetto sarebbe stato consentito superare un certo punteggio. Privatizzare la Rai comporta certamente cambiare le regole, ma un conto è dedurle da principi a priori, un conto è ricavarle dalla necessità che più imprese possano competere con Mediaset alla pari, come numero di reti, tetti pubblicitari ecc., e più imprenditori siano disposti a investire capitali in questa competizione. Le regole della liberalizzazione necessaria vanno derivate dalle condizioni della privatizzazione possibile.

I fari servono quando si è preso il largo: ma qui il rischio è che non si giunga neppure a tanto, e che si continui a discutere in astratto sull’idea stessa di privatizzazione, sia da parte di chi la auspica sia da parte di chi vi si oppone. Come sarà formata la nuova azienda che dovrà vivere sul mercato? Con due reti Rai imponendo a Mediaset il rispetto della sentenza della Corte Costituzionale che chiede di mandare la terza sul satellite, oppure con una rete Rai e una rete Mediaset? Una rete è fatta di strutture di produzione, di impianti tecnici, di agenzie di raccolta pubblicitaria, di archivi: qual è il perimetro aziendale? Quale il patrimonio? Quali (quante) le persone? Quale il conto economico e quindi il valore? Quali le leggi da modificare? Non risulta che finora né le forze politiche né l’opinione pubblica dispongano di elementi per far scendere l’oggetto “RAI privata” dal regno delle idee al mondo dei mercati.

Le scelte da effettuare sono di natura politica e non tecnica. Conoscere questi dati è forse un approccio minimalista, ma meglio un primo piccolo bordo verso il mare aperto, che stare a dondolare nel porto, esposti alla risacca. Se nemmeno questa volta lo si compirà, le conseguenze sono facili a prevedere.

Le istituzioni dello Stato correranno il rischio di essere coinvolte in compiti anomali. Il presidente del Consiglio, che ha annunciato la privatizzazione nella conferenza stampa di fine 2001, avrà mancato a un suo esplicito impegno. L’opposizione non avrà l’occasione se non di protestare a voce più alta. Mediaset si sentirà forse più garantita ma non crescerà in Europa. Tutte le altre imprese italiane pronte a scendere in campo ne resteranno fuori.

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