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→  giugno 9, 2021


La controversa vicenda del filosofo e del suo assistente, accusato dalla Procura cli “circonvenzione d’incapace”

«Ogni uomo trova, nella sua vita, una donna che lo vuole salvare: a volte ci riesce». La frase, incorniciata, stava in bella vista nell’ufficio di Libero Gualtieri, repubblicano, romagnolo, scapolo che avevamo eletto capo di «Sinistra Democratica», il gruppo parlamentare del Senato che avevo contribuito a costituire nella XII Legislatura. La frase mi attraversò veloce la mente quando, nell’autunno del 2018, sentii al telefono M., una delle amiche storiche di Gianni Vattimo, che, con voce concitata, mi chiedeva che cosa stesse succedendo da lui, dove a suo dire, regnava «un’atmosfera plumbea»: «Sempre quel Simone tra i piedi!» fu la sua replica alla mia richiesta di chiarimenti. Anch’io, quando invitavo Gianni a pranzo al ristorante, avrei preferito che a chiacchierare fossimo solo noi due, amici da poco meno di mezzo secolo. Ma Gianni non se la sentiva di uscire senza il braccio di Simone; senza l’aiuto di questo ragazzo di origine brasiliana, chi avrebbe risposto alle email, pagato le fatture, rimpiazzato le badanti, cercato i libri nei piani alti della libreria, affittato una casa dove rifugiarsi dall’afa estiva?

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→  ottobre 22, 2018


La crisi politica che attraversiamo potrebbe risultare la peggiore che abbiano visto gli italiani viventi. E sì che di drammatiche ce ne sono state. Andando a ritroso: nel 2011, quando sull’Europa si abbatté lo tsunami originato dal terremoto dei subprime; nel 1990-92, quando la crisi, politica, economica, morale, fece crollare il sistema che aveva governato l’Italia per più di mezzo secolo; la guerra civile negli anni di piombo. Perfino nel 1943, quando l’Italia fu teatro di guerra guerreggiata.

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→  agosto 23, 2018


Caro Direttore, quando ci si chiede perché si sono fatte le privatizzazioni (Marcello Sorgi, Quegli affari tra ombre e tragedie, La Stampa 20 agosto) e si prova a giudicare se sono state fatte «bene» o «male» (ma che cosa significa, di preciso?), giova ricordarsi che l’Italia nel 1993 era il Paese Occidentale con la maggiore presenza dello Stato, circa il 50% dell’economia industriale. Monopoli, di legge o di fatto, erano i principali settori industriali; la Borsa valori era di modeste dimensioni, spiazzata dai titoli del debito pubblico; non esistevano i fondi di investimento istituzionale, tutte le grandi banche erano di proprietà dello Stato, tassello cruciale della Prima Repubblica e del sistema dei partiti.

È difficilissimo creare mercato dove c’era statalismo: ben lo sanno i tanti Paesi che, dopo il fallimento dell’economia di piano, imboccarono quella strada. L’Italia però riuscì a trovare, in pochi anni, capitali e volontà imprenditoriali per trasformare il nostro Paese in un’economia di mercato aperto alla concorrenza. È stata una svolta storica per il nostro Paese, di cui va reso merito a Ciampi e Prodi. Certo, privatizzare serviva a scongiurare il rischio che i debiti delle partecipazioni statali diventassero debiti della Repubblica, certo i proventi valevano a dimostrare che si era imboccata la strada per raggiungere i famosi parametri di Maastricht: ma l’Europa è stata costruita come spazio economico aperto al mercato ed alla concorrenza, e per entrare in Europa era necessario fare quella scelta senza esitazioni.

«Occorre riconoscere con modestia», scriveva Mario Draghi nel 1999, «che non esiste una teoria delle modalità ottime per privatizzare una società»: e descriveva il processo per cui «il Tesoro governa il primo passaggio di proprietà, il mercato governerà i successivi».

Le privatizzazioni italiane sono state fatte «male» o «bene», dunque? Il problema è il punto d’osservazione. Una volta che un’impresa è privata, alla collettività non deve interessare se è «ben gestita» ovvero l’andamento del titolo. Ma la qualità del servizio per i consumatori.

Il caso di Telecom è emblematico: non essendosi formati imprenditori esperti nei settori da cui erano stati preclusi, Prodi dovette impegnarsi personalmente per convincere Fiat a fare il primo passo; il secondo lo fece l’opa di Colaninno: di lì un’alternanza per il controllo. Ciò che si rileva, per tutti, è che ora il settore telefonico è animato da una vivacissima concorrenza: ci sarebbe stata senza privatizzazione?

Le imprese possono fare sbagli: ma se sono private non possono permettersi di non correggersi presto, quindi il costo è minore e a pagare sono gli azionisti, non i contribuenti. Altrimenti arriva, implacabile, la sanzione del mercato. Quale è l’equivalente nel pubblico? Una promessa di commissariamento?

Forse la cosa che ha funzionato meno «bene» nelle privatizzazioni italiane è lo Stato. Che fatica a imparare a fare un nuovo mestiere. Continua a fare come se ne fosse ancora proprietario, intervenendo nelle scelte aziendali, come è avvenuto a ripetizione nel caso di Telecom. La privatizzazione richiede anche all’amministrazione pubblica una nuova competenza, quella di prescrivere livelli di servizio e di eseguire controlli. Dopo la tragedia di Genova, che senso ha proporre di affidare la gestione dell’azienda a un’amministrazione accusata, forse a ragione, di «distratta carenza di controlli»?

Ci sono certo molte cose da cambiare nella Seconda Repubblica, quello che è certo che questo non è un motivo per ritornare alla prima: sarebbe un suicidio.

ARTICOLI CORRELATI
Quegli affari tra ombre e tragedie
di Marcello Sorgi – La Stampa, 20 agosto 2018

Tutti gli affari dei compagni
di Gianni Barbacetto – Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2018

→  febbraio 3, 2009

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Caro Direttore,

per trovare basi razionali alla discussione sui limiti da porre alle intercettazione per evitarne gli abusi, Luca Ricolfi, sulla Stampa di sabato, riconduce il problema a quello di trovare una soluzione ottimale che tuteli “le tre libertà che ci stanno a cuore, non essere spiati, venire informati, essere sicuri”. Soluzione ottimale e dunque non assoluta, tra esigenze tutte legittime.

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→  dicembre 5, 2008

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Lettera

Caro direttore,
va da sé che sarei favorevolissimo se Torino, come ho letto, «vendesse i suoi gioielli». Il Regio, lo vedo dal balcone di casa; il Politecnico l’ho fatto quando era ancora al Valentino; forse un mio antenato avrà contribuito a raggranellare i soldi per Alessandro Antonelli: non bastarono a terminare il Tempio Israelitico, ma servirono di base per innalzare la Mole fino alla sua stella.

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→  giugno 30, 2008

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Dopo lo scandalo delle intercettazioni

Non uno, osserva sarcastico Massimo Gramellini (Porcelli e Porcelle di domenica), che, osservando lo spaccato di società che vien fuori dalle intercettazioni “ne abbia tratto l’ovvia conseguenza di chiedere la privatizzazione della Rai, per sottrarla agli appetiti dei funzionari di partito e lasciarli a quelli dei proprietari, che se non altro sono meno numerosi.” Con una cinquantina di articoli, con interventi in Parlamento e convegni di cui ho perso il conto, in cui ho perorato la causa della privatizzazione della Rai e ne ho esposto ragioni e convenienze, mi sento direttamente chiamato in causa.

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