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→  dicembre 3, 2014


diFederico Rampini

L’Europarlamentare Andreas Schwab ora sa cosa bisogna aspettarsi per avere attaccato Google. È al centro di uno scandalo, almeno sui media Usa. La classe politica americana lo sta accusando di conflitto d’interessi. L’eurodeputato tedesco Schwab, cristiano- democratico vicino ad Angela Merkel, nonché firmatario della risoluzione parlamentare per smantellare Google, è anche consigliere di uno studio legale che difende gli editori anti-Google. Da che pulpito viene la lezione sul conflitto d’interessi? Gli Stati Uniti hanno abbassato la guardia su quel fronte, dopo la sentenza della Corte suprema che liberalizza i finanziamenti alle campagne elettorali: da allora i big del capitalismo americano non hanno più limiti nelle donazioni ai candidati. Gli stessi parlamentari americani che attaccano Schwab, possono avere ricevuto fondi da Google, mascherati nelle scatole opache dei Super-Pac (political action commette). Ma tant’è: a’ la guerre comme a’ la guerre. Tutti i colpi sono permessi, nel conflitto che oppone l’Unione europea a Google. È dai tempi dell’azione antitrust promossa da Mario Monti contro Microsoft che non si assisteva ad uno scontro così duro su un colosso dell’hi- tech americano. A Washington c’è chi minaccia ritorsioni commerciali, si parla di far saltare il negoziato sulla liberalizzazione degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico, per reagire alla presunta “aggressione” contro Google.

L’offensiva europea ha diversi aspetti. L’europarlamento ha approvato la mozione Schwab che invoca uno “spezzatino”, lo smembramento di un colosso divenuto troppo potente: ma si tratta di una risoluzione che non ha effetti operativi, né conseguenze immediate. Il voto dell’europarlamento forse incoraggerà altre offensive europee, portate avanti da protagonisti diversi. La Commissione di Bruxelles può rilanciare l’azione antitrust. La Corte di Giustizia ha già obbligato Google a garantire il “diritto all’oblìo” per proteggere la privacy dei cittadini europei che vogliono cancellare notizie diffamatorie dal motore di ricerca. C’è la battaglia sulla webtax. Infine c’è il dibattito sullo spionaggio digitale, scatenato dalle rivelazioni di Edward Snowden, e le contromisure che alcuni governi (Germania in testa) hanno allo studio: anche questo riguarda Google poiché Snowden ha dimostrato il collaborazionismo dell’azienda digitale con la National Security Agency. Che cosa può rischiare Google? Per quanto riguarda eventuali sanzioni antitrust, i precedenti vanno dal miliardo di euro di multa contro Intel ai 3 miliardi di dollari di sanzioni “a rate” su Microsoft. I legali di Eric Schmidt, presidente di Google, temono di poter arrivare fino a 6 miliardi di dollari di sanzioni, oppure il 10% del fatturato globale, se Bruxelles optasse per la linea dura. Dettaglio interessante: tra le “parti lese” che si sono appellate all’antitrust europeo ci sono i concorrenti americani di Google, come Microsoft e Yelp. Convinti evidentemente che sia più facile castigare le prepotenze di Google a Bruxelles anziché a Washington.

Perché l’antitrust europeo può decidere di intervenire contro Google, laddove l’antitrust americano non ne ravvisa la ragione? Le spiegazioni sono tante, la più semplice è questa: il potere monopolistico di Google è effettivamente più accentuato sul mercato euro- peo. Il motore di ricerca creato da Larry Page e Sergey Brin ha quasi il 90% di quota di mercato sul Vecchio continente contro il 68% negli Stati Uniti. Un’altra spiegazione chiama in causa il nazionalismo economico. L’Europa ha una presenza marginale nell’economia digitale. I Padroni della Rete sono tutti americani, nella Silicon Valley californiana o nella sua propaggine settentrionale di Seattle. Les Gafas , come li chiamano i francesi che hanno coniato l’acronimo dalle iniziali di Google Apple Facebook Amazon. L’Europa si sente colonizzata, l’America è la colonizzatrice. Gli approcci sono diametralmente opposti. Il magazine The New Yorker constata la recente alluvione di libri di management scritti da dirigenti di Google: sono idolatrati qui negli Stati Uniti come i nuovi guru del management, i profeti da ascoltare per avere successo. Ho raccontato su queste colonne la mia esperienza ad una presentazione newyorchese del best-seller di Eric Schmidt. La folla di giovani accorsa ad ascoltarlo non era critica, tantomeno ostile: il sogno di un ventenne americano è lavorare per Google (subito dopo Apple). Politicamente questi colossi sono intoccabili. Il Congresso di Washington ha sì promosso un’inchiesta sulla maxielusione fiscale di Google, Apple & C., ma le denunce non hanno avuto un seguito concreto. I repubblicani per definizione stanno coi capitalisti e contro le tasse. I democratici sono destinatari di generosi finanziamenti, la Silicon Valley ha il cuore che batte a sinistra.

Anche in Europa c’è chi prende le distanze dalla “Googlefobia”. Il settimanale The Economist ha dedicato l’ultima inchiesta di copertina ad un’appassionata difesa di Google. Gli argomenti sono quelli classici del neoliberismo: lasciate fare il mercato, ci penserà lui. The Economist ricorda che nessun gigante hi-tech è mai sopravvissuto per più di un ciclo d’innovazioni: gli ex-monopolisti Ibm e Microsoft sono ridotti a campare su nicchie di mercato. Conclusione: gli europei farebbero meglio a creare le condizioni per avere una loro Silicon Valley, un ambiente favorevole all’innovazione e alla crescita di giganti tecnologici, invece di attaccare i successi altrui. Ma l’argomentazione neoliberista ha delle inegnuità. Dimentica il ruolo decisivo dello Stato, proprio qui in America, nel favorire i “campioni nazionali”: è la tesi dimostrata dalla economista Mariana Mazzuccato nella sua celebre ricerca sulle origini pubbliche dell’innovazione (da Internet agli smartphone).

C’è poi la battaglia per la tutela della privacy degli utenti, e delle royalty di chi crea contenuti. Anche questa è più avanzata nell’Unione europea. La spiegazione è semplice: negli Stati Uniti un trentennio di egemonia neoliberista ha cancellato molte conquiste dei consumatori. L’antitrust Usa ha le unghie spuntate da molte Amministrazioni repubblicane. Il consumerismo nacque qui negli anni Sessanta con le battaglie di Ralph Nader, ma da allora i rapporti di forza si sono rovesciati a favore del Big Business. E oggi non c’è nulla di più Big dei Padroni della Rete, Google in testa.

→  dicembre 2, 2014


di Paolo Bricco

L’Ilva colpisce al cuore, economico e giuridico, il nostro Paese. Ed esprime due verità amare. Prima verità: l’Italia ha necessità dell’acciaio prodotto a Taranto. Dunque, una soluzione industriale va trovata. E bene fa Renzi a gestire in prima persona il dossier. Seconda verità: lo Stato Imprenditore non ha dato buone prove, nel nostro Paese, ed è una opzione culturale che non ci appassiona. L’auspicio è che l’ansia di evitare il collasso non faccia cadere il Governo in tentazioni neo-stataliste. Per questo, non si può essere favorevoli alla nazionalizzazione tout court. Nazionalizzazione che è una pratica estrema, da non confondere con il mix ben temperato – anche con dosi massicce – di politiche industriali pubbliche e di concorrenza privata. La quale sarà pure la peggiore forma di ingegneria delle istituzioni economiche. A parte, però, tutte le altre. L’Italia, peraltro, ha bisogno che il profilo della sua cultura giuridica non sia sbrecciato e divelto da soluzioni di emergenza che, ricorrendo in misura eccessiva a strumenti pervasivi come la Legge Marzano, minino i meccanismi di funzionamento del mercato e i principi basilari del diritto a partire dalla proprietà privata. Nessuno chiede sanatorie extra-giudiziali.

Nessuno auspica sconti in tribunale. Ognuno dovrà rispondere – fra i proprietari e gli amministratori locali, i politici e i sindacalisti – di quanto ha fatto, negli ultimi vent’anni, fra Taranto e Roma. E nessuno vuole sottacere le responsabilità della famiglia Riva, che andranno ovviamente verificate e giudiziariamente accertate. Resta, però, il fatto che il contesto giuridico è segnato da un profluvio di leggi speciali che ha creato una sedimentazione gelatinosa, che ormai ricopre il sistema economico italiano e su cui difficilmente gli investitori stranieri avranno un gran piacere di mettere i loro piedi (e di puntare i loro soldi). Adesso, nell’ultima ipotesi di salvataggio ventilata dal Governo, c’è appunto un uno-due che rischia di colpire al mento l’Ilva e di fare barcollare contestualmente l’intero sistema economico: il default pilotato, con il fallimento sostanziale e l’applicazione della legge Marzano.
L’Italia deve dimostrare di sapere gestire problemi complessi, in cui le componenti industriali e finanziarie, politiche e sociali, giudiziarie e di policy si trasformano in un unicum indistricabile.

L’Ilva è uno di questi.  La Legge Marzano non può diventare lo strumento con cui gestire queste complessità. In questo caso specifico, l’Ilva è stata gestita dai legittimi proprietari, i Riva, con efficienza. Non ha mai perso soldi. Gli utili, dal 1995, sono sempre stati reinvestiti nell’impresa. L’impianto, il maggiore d’Europa, ha avuto livelli di produttività industriale pari o superiori agli standard tedeschi. I problemi ambientali – quelli reali e quelli percepiti, quelli della verità storica e quelli della verità giudiziaria – hanno portato a un commissariamento che, in maniera graduale ma inesorabile, si è trasformato nei fatti in una cancellazione sostanziale dei diritti di proprietà. Un percorso accidentato, in cui molti principi del diritto liberale e del funzionamento dell’economia di mercato sono stati poco alla volta compromessi. Adesso, il paradosso finale: lo Stato ha commissariato l’azienda, l’ha gestita bruciando qualcosa come 2,5 miliardi di euro di capitale netto in poco meno di due anni e mezzo, ha deciso di venderla come fosse una impresa sua e non di imprenditori privati e adesso, dato che la fabbrica perde a bocca di barile, pensa – fra le ipotesi ventilate – di chiederne l’amministrazione straordinaria attribuendo alla Marzano una centralità che ha già avuto nel caso Parmalat, nel 2003, e nel caso Alitalia nel 2008.

Nel paradosso Ilva, dunque, adesso c’è il rischio – come può capitare con la Marzano – di uno spossessamento della proprietà. L’Ilva rischia, infatti, di sperimentare una insolvenza, originatasi nella miscela di provvedimenti giudiziari e di atti di Governo. In conseguenza dell’amministrazione straordinaria, la società potrebbe diventare un asset che viene utilizzato per soddisfare i creditori o potrebbe diventare un asset con cui alimentare la distinzione fra bad company e good company. Nel caso specifico, dunque, verrebbe così sancito formalmente l’“esproprio” che la famiglia proprietaria ha già subito nei fatti. Sul processo ambientale di Taranto, i Riva peraltro non solo non hanno subito una condanna, ma nemmeno sono stati rinviati ancora a giudizio. Dunque, non appare corretto che passi il principio di uno “spossessamento” attuato da uno Stato che ha già mandato in tilt finanziario una impresa che, a sua volta, si è brutalmente incartata – in questi due anni e mezzo – nei meandri di un procedimento giudiziario. Così come è, invece, corretto che si accertino, nelle sedi opportune, tutte le responsabilità che riguardano la vitale questione ambientale. Naturalmente, in questo quadro, è bene che il Governo sostenga l’irrinunciabilità dell’Ilva. La sensibilità evidenziata da Renzi verso questa architrave della nostra manifattura mostra la sua consapevolezza che, senza l’acciaio prodotto a Taranto, la fisiologia economica italiana diventerebbe più gracile e ancora più esposta alla dipendenza dalle forniture straniere. Serve, in questa fase, equilibrio. Viviamo tempi difficili. Ci sono soggetti pubblici di diritto privato, investitori industriali esteri e italiani. Strumenti adeguati di mercato esistono: nella partita Ilva ci sono e appaiono disponibili. Possono essere le tessere di un mosaico articolato e complesso. Il mosaico dell’industria italiana prossima ventura.

→  dicembre 1, 2014


di Roberto Mania

C’è un “piano B” per l’Ilva. Il governo è pronto a chiedere l’amministrazione straordinaria per il gruppo siderurgico. Sostanzialmente dichiararne il fallimento e applicare la legge Marzano, il nostro “Chapter 11″, riservato ai grandi gruppi con più di 500 addetti e oltre 300 milioni di debiti. Un default pilotato, insomma. Un decreto legge ad hoc potrebbe essere varato nei prossimi giorni, o addirittura questa sera visto che è stata convocata una riunione del Consiglio dei ministri. I tempi saranno comunque strettissimi. L’Ilva, dopo che le sono arrivati i 125 milioni della seconda rata del prestito bancario, ha i soldi per pagare gli stipendi dei suoi 11 mila dipendenti di dicembre, la tredicesima e il rateo del premio di produzione. Niente di più. Mentre ci sono 350 milioni di debiti scaduti con i fornitori e 35 miliardi di richieste per danni ambientali, sotto varie forme, da parte della comunità tarantina.

Nessuno in queste condizioni comprerà mai la società. Non gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, il più grande gruppo europeo dell’acciaio, alleati con Marcegaglia; non l’italiano Arvedi che in ogni caso ha chiesto l’aiuto finanziario del Fondo strategico italiano, braccio industriale della Cassa depositi e prestiti, controllata dal ministero dell’Economia con la partecipazione delle Fondazioni di origine bancaria. Sia Mittal sia Arvedi, infatti, hanno presentato offerte considerate inaccettabili dal governo. Ma in particolare gli anglo-indiani hanno posto paletti insormontabili dal punto di vista economico e politico. Così non ci sarebbero garanzie sul futuro dell’impianto. “Non si svende la più grande acciaieria d’Europa”, spiegano a Palazzo Chigi. La produzione dell’acciaio resta strategica se si vuole rilanciare l’attività industriale crollata del 25 per cento in questi lunghi anni di recessione. Da qui il “piano B” del governo.

Giovedì scorso si sono riuniti a Palazzo Chigi il premier, Matteo Renzi, il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e il commissario governativo dell’Ilva, Piero Gnudi. Ne è emersa la convinzione che senza il passaggio all’amministrazione straordinaria la questione Ilva sia destinata a finire in un vicolo cieco. Con il rischio che prenda forma uno scenario sociale esplosivo, per le ricadute dirette su Taranto e gli altri siti produttivi (Novi Ligure e Cornigliano) e indirette sulle migliaia di piccole aziende fornitrici. Non per nulla ieri sono arrivati i commenti positivi dei sindacati all’ipotesi dell’amministrazione straordinaria.

D’altra parte né Mittal, né tantomeno i lombardi di Arvedi, significativamente indebitati, hanno indicato nell’offerta una cifra per rilevare la società. Questo è il punto. L’Ilva continua a perdere intorno ai 25 milioni al mese (ne perdeva quasi 70 prima dell’arrivo di Gnudi che ha cambiato tutta la prima linea di comando), nel 2012 e 2013 ha perso un miliardo l’anno, ha due terzi dello stabilimento di Taranto sotto sequestro, non ha praticamente le risorse per fare la manutenzione, e soprattutto deve rispettare i vincoli posti dal piano di risanamento ambientale che complessivamente richiedono un esborso di 1,8 miliardi di euro. Così i grandi acciaieri europei scommettono sul tracollo dell’Ilva, perché ci sarebbe un concorrente in meno e quote da spartirsi, mentre sui mercati globali avanzano i produttori asiatici, russi e brasiliani. Anche questa partita si sta giocando intorno alla crisi dell’ex Italsider. Eppure a Taranto si potrebbe ancora produrre acciaio di qualità in condizioni redditizie purché liberi del “fardello” del passato. L’amministrazione straordinaria servirebbe a questo, a non cedere l’azienda, bensì gli impianti. Il modello di riferimento sarebbe quello dell’Alitalia dei cosiddetti “capitani coraggiosi”: una bad company su cui scaricare il cumulo di macerie, controversie giudiziarie comprese, accumulato negli anni (ai Riva, azionisti di maggioranza, sono stati sequestrati dalla magistratura 1,2 miliardi di euro per dirottarli al risanamento ambientale); una new company sulla quale costruire il futuro dell’acciaieria, con le banche creditrici, con nuovi soci privati, con un intervento pubblico attraverso il Fondo strategico. Una volta ripulita, insomma, l’Ilva avrebbe ben altro appeal. E allora non si tratterebbe più di “svendita” e potrebbe – a condizioni di mercato sulle quali Bruxelles non potrebbe eccepire sollevando il pericolo di aiuti di Stato vietati dai Trattati – entrare in campo anche una sorta di statalizzazione. Ipotesi che il Renzi, nell’intervista ieri a Repubblica, considera al pari delle altre. Questa, potrebbe anche essere un’ipotesi tattica (dove troverebbe i soldi, non meno di 2-3 miliardi, il governo?) per far vedere a Mittal che lo scenario può anche cambiare. Ma si vedrà. In ogni caso il ricorso alla “legge Marzano” dovrebbe permettere – secondo quanto è trapelato da chi nel governo ha in mano il dossier – al commissario straordinario di venire in possesso in tempi rapidi dei 1,2 miliardi sequestrati ad Emilio Riva e sul cui patrimonio c’è stata la rinuncia degli eredi. Certo il fratello Adriano ha fatto ricorso contro il sequestro ed è in atto una battaglia legale. Ma questo è un altro capitolo del groviglio tarantino.

→  novembre 27, 2014


von Reinhard Müller

Zerschlagt Google? In der unverbindlichen Entschließung des Europäischen Parlaments mag Vieles zusammenkommen: vom Antiamerikanismus über den Lobbyismus bis zum Unbehagen über neue Technologien in einer sich schnell verändernden Welt.

Aber dass die Macht des amerikanischen Konzerns, der viel mehr ist als eine exzellente Suchmaschine, ein Thema für die Politik ist, sollte auch jenseits des Atlantiks jedem klar sein. Die Kontrolle allzu großer Marktmacht ist selbstverständlicher Teil jeder marktwirtschaftlichen Ordnung: nicht um Erfolg zu bestrafen, sondern fairen Wettbewerb zu ermöglichen. Da geht es etwa um den Vorwurf, Google manipuliere Suchergebnisse zugunsten seiner eigenen Dienstleister.

Die wahre Macht von Giganten wie Google und Apple erschließt sich erst auf den zweiten Blick. Die zahllosen Nutzer zahlen mit ihren Daten. Über diese Daten verfügt der Konzern, auch wenn er versichert, mit ihnen keinen Handel zu treiben. Und die Daten sind wertvoll, etwa für die NSA. Über deren Kontrolle wird geredet. Das muss erst recht für Google gelten.

→  novembre 19, 2014


by Tim Bradshaw and Hannah Kuchler

Uber has moved to head off further criticism about how it handles the huge trove of personal data that it holds on its customers’ locations and trips, after facing questions over how its employees access individuals’ information.
Emil Michael, Uber’s senior vice-president of business, sparked controversy this week after he was quoted as saying that the company should consider hiring private investigators to launch a smear campaign against critical journalists.

The comments were first reported by Buzzfeed, which also alleged that an Uber manager had accessed one of its journalist’s customer profiles on the car-hailing service, without her permission.

Other reporters have also voiced concerns that they could be targeted based on their usage of the app.

“Several Uber employees have warned me that Uber execs might look into my travel logs,” said Ellen Cushing, a reporter for San Francisco magazine, who wrote a recent profile of Uber.

In a blogpost, Uber played down those allegations, which could see the company – recently valued at $17bn and currently in talks to raise more than $1bn in new funding – run foul of data protection laws.

“Uber has a strict policy prohibiting all employees at every level from accessing a rider or driver’s data,” the company said on Tuesday afternoon. “The only exception to this policy is for a limited set of legitimate business purposes. Our policy has been communicated to all employees and contractors.”

Some examples of “legitimate” uses include responding to customer service inquiries, fraud monitoring and troubleshooting technical bugs, Uber’s blogpost said.

Uber’s privacy policy states that the company “may use your personal information or usage information that we collect about you” for unspecified “internal business purposes” and “inclusion in our data analytics”.

Even after a customer cancels their account, their location and trip history data can be stored “as needed” for legal, security or operational purposes, Uber’s privacy policy says.

Two months ago, attention was drawn to Uber’s ability to zoom in on individual customers’ activity by Peter Sims, a San Francisco-based author and former venture capitalist, who discovered that his Uber ride across Manhattan had been watched simultaneously on a map at a company launch event in Chicago.

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November 19, 2014 2:05 am
Uber tries to head off privacy criticism
Tim Bradshaw in San Francisco and Hannah Kuchler in New York

Uber Technologies Inc. signage stands inside the company’s office©Bloomberg
Uber has moved to head off further criticism about how it handles the huge trove of personal data that it holds on its customers’ locations and trips, after facing questions over how its employees access individuals’ information.
Emil Michael, Uber’s senior vice-president of business, sparked controversy this week after he was quoted as saying that the company should consider hiring private investigators to launch a smear campaign against critical journalists.
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The comments were first reported by Buzzfeed, which also alleged that an Uber manager had accessed one of its journalist’s customer profiles on the car-hailing service, without her permission.
Other reporters have also voiced concerns that they could be targeted based on their usage of the app.
“Several Uber employees have warned me that Uber execs might look into my travel logs,” said Ellen Cushing, a reporter for San Francisco magazine, who wrote a recent profile of Uber.
In a blogpost, Uber played down those allegations, which could see the company – recently valued at $17bn and currently in talks to raise more than $1bn in new funding – run foul of data protection laws.
“Uber has a strict policy prohibiting all employees at every level from accessing a rider or driver’s data,” the company said on Tuesday afternoon. “The only exception to this policy is for a limited set of legitimate business purposes. Our policy has been communicated to all employees and contractors.”
Some examples of “legitimate” uses include responding to customer service inquiries, fraud monitoring and troubleshooting technical bugs, Uber’s blogpost said.
Uber’s privacy policy states that the company “may use your personal information or usage information that we collect about you” for unspecified “internal business purposes” and “inclusion in our data analytics”.
Even after a customer cancels their account, their location and trip history data can be stored “as needed” for legal, security or operational purposes, Uber’s privacy policy says.
Two months ago, attention was drawn to Uber’s ability to zoom in on individual customers’ activity by Peter Sims, a San Francisco-based author and former venture capitalist, who discovered that his Uber ride across Manhattan had been watched simultaneously on a map at a company launch event in Chicago.

“I’ve given up on being able to trust the company,” Mr Sims wrote in a widely circulated blogpost this September about the alleged incident, which he said happened in 2011.

Uber has tried to quell growing discontent among some reporters and customers in the aftermath of Mr Michael’s comments, which are just the latest in a string of incidents that has prompted criticism of its corporate ethics.

In an interview with the Financial Times on Tuesday, David Plouffe, Uber’s senior vice-president of policy and strategy, said the company had a “great story to tell” about creating jobs, reducing drink driving and improving cities’ transportation.

“That’s where we need our focus to be in terms of talking about our company,” he said. “The less we get in our own way, the better off we’ll be.”

Nonetheless, some security analysts remain concerned about how Uber stores and uses information on its millions of customers, many of whom use the app several times a month to travel to or from their homes.

Davi Ottenheimer, senior director of trust at EMC, the IT firm, and an expert in encryption, said Uber had a “huge metadata issue” as it could see who moved where and when.

“You don’t realise when you step into that car that they are looking at everything – I mean everything, building profiles of you,” he said. Even though the data are officially “anonymous”, if an Uber user frequently goes to the same address, such as their home or office, they could be identified based on that information, he added.

“I don’t think anybody realises that we’re far away from an app that gives you privacy in a way that taxis give you your privacy,” he said.

Describing the Uber screens that show cars moving around a live map, he said: “They call it the ‘God view’ . . . They think they are God.”

→  novembre 18, 2014


Jean-Claude Juncker has not had an easy start as European Commission president. When he was nominated five months ago, a handful of EU leaders raised questions about the ability of the former Luxembourg prime minister to meet the demand of many Europeans that the EU must change. Now he is being forced to fend off criticism over the way the Grand Duchy became a tax haven for leading multinationals during his long tenure as its premier and finance minister.
Luxembourg’s status as a tax shelter may not be news. But Mr Juncker’s role in the Grand Duchy’s tax dealings has been thrust into the spotlight following the leaking of a trove of documents revealing special tax arrangements between Luxembourg and 340 multinationals, including Pepsi, Ikea and JPMorgan. The files show how secret deals with Luxembourg between 2002 and 2010 saved these companies from paying billions of dollars in tax in countries where they do business.

These disclosures come at an embarrassing time for Mr Juncker. Across the EU, there is public indignation at the way multinationals have shuffled profits across borders to avoid paying tax. In the year before he took office, the commission responded by launching probes into companies suspected of benefiting from such arrangements – including at least two in Luxembourg, Amazon and Fiat’s financial arm.
Last weekend’s G20 summit highlighted the awkwardness of the situation. In Brisbane, Mr Juncker endorsed plans to crack down on multinational tax avoidance – including the introduction of transparency measures that he spent years blocking within the EU while running Luxembourg. The incongruity led one NGO to quip that putting him in charge of efforts to combat tax avoidance was like placing Dracula in charge of a blood bank.
Mr Juncker has been damaged by the scale of tax avoidance on his watch. These wounds need not be mortal. The commission president acknowledges that he was “politically responsible for what happened in each and every corner” of Luxembourg when premier. But he also insists that the tax authorities in the Grand Duchy were “autonomous.” No “smoking gun” has yet been produced showing he broke EU law.
Still, Mr Juncker must act to restore public confidence. As commission president, he oversees the officials investigating the tax incentives that Luxembourg offered to Amazon and Fiat. Their inquiries are examining whether those companies effectively received a form of illegal state aid.
Although Mr Juncker says he will allow these inquests to continue without hindrance under the new competition commissioner, Margrethe Vestager, he has so far refused to recuse himself formally from participating in the commission’s final judgments. Mr Juncker should think again. He should make a clean break and officially hand over all oversight for the probes to Frans Timmermans, his deputy.
Mr Juncker should also step back from involving himself as far as possible in policy discussions on tax transparency. The commissioner in charge of these matters is France’s Pierre Moscovici. Mr Juncker should let him take the lead on all matters relating to tax, including in forums such as the G20.
Mr Juncker has more than enough to do. He is leading a vital initiative to boost investment in the EU’s struggling economy. He needs time to settle into the job. Nonetheless, he should acknowledge Luxembourg’s increasingly toxic reputation within the EU for tax avoidance. Mr Juncker would enhance his authority if he were to put himself at arm’s length from the commission’s activities in this field.