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→  marzo 8, 2015


di Eugenio Scalfari

IL NOSTRO Lucio Caracciolo, direttore del prestigioso Limes e nostro collaboratore, cita una parola molto efficace: democratura, che nasce dalla fusione tra democrazia e dittatura e con essa definisce la Russia di Putin: c’è il demos, cioè il popolo e c’è Putin che comanda da solo. Il Parlamento, cioè la Duma, non conta niente, si limita a ratificare. Neppure il governo conta, serve solo a trasmettere alle province dell’Impero gli ordini del dittatore e a farli eseguire dalla burocrazia. Alcuni ministri invece, insieme a Putin, al capo dei Servizi di sicurezza e qualche grande manager economico, costituiscono l’oligarchia, il gruppo che, guidato da Putin, amministra l’Impero.

Questa democratura esiste ed è sempre esistita in tutti gli Imperi, nei quali bisogna amministrare una grande quantità di diverse etnie, diversi linguaggi, diverse culture ed economie. Nel presente di oggi lo troviamo in Cina, in Giappone, in Usa. In Europa no perché l’Europa non è uno Stato. I vari statarelli conservano ancora una democrazia più o meno solida. Ma la tentazione verso la democratura in alcuni di essi è abbastanza forte. Diciamo che la democrazia è difficile da conservare negli Imperi e negli statarelli la tentazione esiste ma di solito non si realizza. Per fortuna, perché ove mai si verificasse diventerebbe una tirannide vera e propria.

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Matteo Renzi, con quella mobilità e quell’intelligenza tattica che lo distinguono è andato nei giorni scorsi prima a Kiev e il giorno dopo a Mosca. Ovviamente ha recitato due diverse parti in commedia: con Poroshenko ha promesso che avrebbe sostenuto l’autonomia sovrana dell’Ucraina nel suo incontro del giorno successivo. A Putin ha detto che le sanzioni dovrebbero essere abolite da entrambe le parti in causa (Russia e alleanza euroamericana) e che bisognava pacificare gli animi e i cannoni. Ha accennato ad una soluzione del tipo Alto Adige per le province russofone dell’Ucraina e poi ha cambiato argomento chiedendo a Putin di sostenere nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu una missione navale che controllasse l’emigrazione verso la costa europea del Mediterraneo mentre la stessa Onu avrebbe dovuto nominare un negoziatore molto autorevole e possibilmente italiano che realizzasse la pacificazione tra le tribù della Libia.

Putin ovviamente ha dato le più ampie rassicurazioni per quanto riguardava la Russia nel Consiglio di Sicurezza. Poi il discorso si è spostato sui rapporti economici italo-russi e lì c’era una nostra delegazione di imprese e i suoi interlocutori russi che hanno per una giornata intera studiato gli incentivi affinché la collaborazione economica fosse ampliata e rafforzata. Insomma un incontro positivo, almeno a parole. I fatti dovrebbero vedersi presto perché il tempo non è affatto disponibile.

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Poi il nostro presidente del Consiglio è tornato a Roma e la sua prima uscita è stata quella di avvertire i dissidenti del Pd che la legge elettorale non sarebbe stata modificata neppure di una virgola e così pure la riforma del Senato. E guai se qualche parlamentare del Pd non osserverà la disciplina di partito. Non si può dire che affiori in queste parole la tentazione verso la democratura, ma insomma qualche passo in quella direzione si sta compiendo. Probabilmente avviene in modo inconscio ed è quindi l’inconscio che gioca la sua partita, ma in politica esso può fare a volte danni irreparabili.

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Domani la Bce comincerà a comprare titoli e obbligazioni pubbliche nei vari Paesi dell’Eurozona e soprattutto in Italia ed in Spagna. Qualche critico nei confronti di Mario Draghi ha osservato che il suo è un intervento tardivo, ma forse dimentica che analogo intervento in tema di liquidità fu compiuto nel 2012 per un importo totale di mille miliardi di finanziamento in gran parte destinato alle banche ordinarie dell’Eurozona. Questa volta l’intervento avviene sul mercato secondario e riguarda soprattutto titoli dei debiti sovrani dei vari Paesi. Alla domanda rivolta a Draghi da un giornalista tedesco che gli ha chiesto se il 20 per cento di questi titoli che saranno acquistati direttamente dalla Bce sarebbe stato trasformato in bond dell’Unione europea, Draghi ha risposto che riteneva questa operazione altamente improbabile. Certamente sarà così, il che non toglie che quei titoli si troveranno nel portafoglio della Bce. Ce ne sono sicuramente già molti in quel portafoglio e il nuovo lotto si aggirerà sui 240 miliardi di euro, cifra non certo trascurabile. Non si trasformeranno in bond europei ma stanno nella cassa-titoli di un’istituzione europea della quale sono azionisti i Paesi dell’Eurozona. Se non è zuppa è pan bagnato.

La nostra economia ed il nostro governo trarranno molti benefici effetti dal quantitative easing della Bce: un forte incentivo alle esportazioni, una liquidità del sistema bancario destinata a finanziare le imprese, una discesa dei tassi di interesse delle banche ai privati e infine la diminuzione degli oneri che il Tesoro deve pagare per l’emissione di nuovi titoli del debito pubblico. Si aggiunga a tutto ciò anche l’acquisto diretto della Bce di obbligazioni emesse da imprese pubbliche e private con tassi di interesse in discesa per finanziare una ripresa di investimenti.

Questo vasto programma di interventi avrà soprattutto il risultato di modificare verso l’ottimismo le aspettative e quindi di fare aumentare investimenti e consumi. Questo è il regalo che Draghi farà all’Europa e in particolare all’Italia, alle imprese e ai lavoratori. È auspicabile che Renzi dica un grazie collettivo alla Bce e alla Banca d’Italia che comprerà l’80 per cento della liquidità messa in campo dal sistema Bce. Al nostro governo spetterà di trasformare questo beneficio in una forte ripresa di interventi pubblici che provochino l’aumento delle scorte, degli investimenti e quindi dell’occupazione, giovanile e nel Sud in particolare.

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Ma Renzi non riceverà soltanto i benefici che gli provengono dalla Bce. Ce n’è un altro che riguarda la persona stessa del nostro presidente del Consiglio: l’Europa non vuole a nessun patto una crisi politica in Italia che produca la caduta del governo attuale. Una crisi del genere in un Paese dove il debito pubblico è uno dei più grandi del mondo, riporterebbe le aspettative dall’ottimismo al pessimismo e sconvolgerebbe i mercati vanificando in gran parte gli interventi della Bce.
Quindi Renzi e il suo governo sono inamovibili. Per lui è una polizza d’assicurazione fantastica; almeno fino al 2016 è assicurata la sua inamovibilità. Del resto non ci sono alternative nella politica italiana in generale ed anche dentro il Pd. Forse nel Pd del 2016 sarà emersa la figura di un altro leader che possa costruire un partito di sinistra in luogo del partitone che Renzi ha messo al centro della politica italiana. E forse si starà profilando una nuova destra che non sia quel nanerottolo guidato da Alfano.

Ma da qui ad allora la tentazione della democratura si farà sempre più forte ed è questo che si deve evitare. Alla Germania, alla Francia, alla Spagna ben poco importa, ma a noi italiani, o almeno a quelli consapevoli e motivati alla difesa dei diritti che abbiamo e del dovere di difendere la democrazia, importa moltissimo. La scelta spetta a Renzi e all’oligarchia che gli sta accanto. Non può continuare a spogliare il potere Legislativo e avviarsi verso un Esecutivo accentratore, dove non contano neppure i ministri ma piuttosto lo staff di Palazzo Chigi. I ministri ormai contano molto poco, le leggi si preparano tutte alla presidenza del Consiglio e poi vanno in commissione e in aula e lì si debbono votare per disciplina. È giusto se non sono passi ulteriori verso la democratura. Altrimenti vanno fermati nell’interesse generale del Paese.

Nel frattempo la Ue ha deciso di inviare in Iran un rappresentante al massimo livello per discutere con le Autorità iraniane i gravi problemi esistenti in Iraq e in Siria a causa delle stragi operate dal Califfato. Spettava dunque alla Mogherini andare a Teheran con quella missione ma l’alto rappresentante della politica estera europea ha ceduto il suo posto alla signora Catherine Ashton che l’aveva preceduta in quella carica da lei ora occupata ma è rimasta per decisione della Mogherini sua consulente particolare. A Teheran dunque sarà la signora Ashton ad andare perché la Mogherini così ha deciso. Che saggezza, che spirito di squadra. Dove la si trova un’altra così?

→  marzo 8, 2015


by Robert Rosenkranz

The economist’s book caused a sensation last year, but now he says the redistributionists drew the wrong conclusions.

‘Capital in the 21st Century,” a dense economic tome written by French economist Thomas Piketty, became a publishing sensation last spring when Harvard University Press released its English translation. The book quickly climbed to the top of best-seller lists, and more than 1.5 million copies are now in circulation in several languages.

The book’s central proposition, that inequality in capitalist societies will inevitably grow, can be summed up with a simple equation: r>g. That is, the return on capital (r) outpaces the growth rate of the economy (g) over time, leading inexorably to the dominance of inherited wealth. Progressives such as Princeton economist Paul Krugman seized on Mr. Piketty’s thesis to justify policies they have long wanted—namely, very high taxes on the wealthy.

Now in an extraordinary about-face, Mr. Piketty has backtracked, undermining the policy prescriptions many have based on his conclusions. In “About Capital in the 21st Century,” slated for May publication in the American Economic Review but already available online, Mr. Piketty writes that far too much has been read into his thesis.

Though his formula helps explain extreme and persistent wealth inequality before World War I, Mr. Piketty maintains, it doesn’t say much about the past 100 years. “I do not view r>g as the only or even the primary tool for considering changes in income and wealth in the 20th century,” he writes, “or for forecasting the path of inequality in the 21st century.”

Instead, Mr. Piketty argues in his new paper that political shocks, institutional changes and economic development played a major role in inequality in the past and will likely do so in the future.

When he narrows his focus to what he calls “labor income inequality”—the difference in compensation between front-line workers and CEOs—Mr. Piketty consigns his famous formula to irrelevance. “In addition, I certainly do not believe that r>g is a useful tool for the discussion of rising inequality of labor income: other mechanisms and policies are much more relevant here, e.g. supply and demand of skills and education.” He correctly distinguishes between income and wealth, and he takes a long historic perspective: “Wealth inequality is currently much less extreme than a century ago.”

All of this takes the wind out of enraptured progressives’ interpretation of Mr. Piketty’s book, which embraced the r>g formulation as relevant to debates playing out in Congress. Writing in the New York Review of Books last May, for example, Mr. Krugman lauded the book as a “magnificent, sweeping meditation on inequality.” He wrote that Mr. Piketty has proven that “we haven’t just gone back to nineteenth-century levels of income inequality, we’re also on a path back to ‘patrimonial capitalism,’ in which the commanding heights of the economy are controlled not by talented individuals but by family dynasties.”

The r>g formulation always struck me as unconvincing. First, Mr. Piketty’s definition of r as including “profits, dividends, interest, rents, and other income from capital” conflates returns on real business activity (profits) with returns on financial assets (dividends and interest).

Second, it ignores the basic rule of economics that when supply of capital increases faster than demand, the yield on capital falls. For instance, since the great recession, the money supply has grown far more rapidly than the real economy, driving down interest rates. Returns on government bonds, the least risky asset, are now close to zero before inflation and negative 1% to 2% after inflation. In today’s low-return environment, with the headwinds of income and estate taxes, it becomes a Herculean task to build and transmit intergenerational wealth.

Many mainstream economists had reservations about Mr. Piketty’s views even before he began walking them back. Consider the working paper issued by the National Bureau of Economic Research in December. Daron Acemoglu and James A. Robinson, professors at the Massachusetts Institute of Technology and Harvard, respectively, find Mr. Piketty’s theory too simplistic. “We argue that general economic laws are unhelpful as a guide to understand the past or predict the future,” the paper’s abstract reads, “because they ignore the central role of political and economic institutions, as well as the endogenous evolution of technology, in shaping the distribution of resources in society.”

The Initiative on Global Markets at the University of Chicago asked economists in October whether they agreed or disagreed with the following statement: “The most powerful force pushing towards greater wealth inequality in the U.S. since the 1970s is the gap between the after-tax return on capital and the economic growth rate.” Of 36 economists who responded, only one agreed.

Other critics have questioned the trove of statistical data Mr. Piketty assembled to chart trends in income and wealth in the U.S., U.K., France and Sweden over the past century. Are such diverse data comparable, and have the adjustments that Mr. Piketty introduced to make them comparable distorted the final picture?

After an extensive review, Chris Giles, the economics editor of the Financial Times, concluded in May last year that “Two of Capital in the 21st Century’s central findings—that wealth inequality has begun to rise over the past 30 years and that the U.S. obviously has a more unequal distribution of wealth than Europe—no longer seem to hold.”

Mr. Piketty is willing to stand up and say that the material in his book does not support all the uses to which it has been put, that “Capital in the 21st Century” is primarily a work of history. That is certainly admirable. Now it is time for those who cry that we are heading into a new gilded age to follow his lead.

→  febbraio 28, 2015

“Mi sembra una cosa vicina a un intervento da pianificazione sovietica – afferma Carnevale Maffe’ sul provvedimento sulla banda ultra larga che si vuole sia in arrivo dal Governo -. E’ un intervento che oggettivamente, se fosse confermata l’ipotesi, sembra alquanto bizzarro. Sembra un intervento molto dirigista – prosegue -. Il governo invece di fare politiche sul lato della domanda, favorendo la maturazione di un mercato solido e robusto, sembra voler giochicchiare con le politiche dell’offerta. Interferendo sulle scelte tecnologiche” di Telecom Italia e “contravvenendo ai principi di neutralità tecnologica.

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→  febbraio 12, 2015


di Marco Valerio Lo Prete
Roma. L’economista Paolo Savona, ex ministro, ex Banca d’Italia, non sarà tra quanti sabato a Roma sosterranno in piazza “l’altra Europa” del leader greco Alexis Tsipras. Ciò non impedisce all’ex braccio destro di Guido Carli (che 23 anni fa firmava il Trattato di Maastricht) di ragionare sulla tempesta ellenica per sollevare un problema di fondo: “La trattativa bilaterale tra Bruxelles e Atene è un errore. Che perda la faccia l’una o l’altra parte non conta. Questo è il momento di concepire soluzioni erga omnes. Anche ridiscutendo l’annunciato Quantitative easing”, dice al Foglio Savona riferendosi all’acquisto di titoli di stato annunciato dalla Banca centrale europea per contrastare la deflazione nell’Eurozona.

Davvero conviene mettere in discussione l’agognata “svolta americana” della politica monetaria europea? Savona parla di “entusiasmo sconfortante” con cui è stato accolto il Qe. Due gli ordini di motivi. Innanzitutto, “i nuovi acquisti di titoli verranno garantiti dai bilanci delle Banche centrali nazionali per l’80 per cento, e dalla Bce per il rimanente 20. Poiché, secondo le regole vigenti, la Bce già garantisce direttamente l’8 per cento di tutte le operazioni effettuate dall’Eurosistema, e le Banche centrali il rimanente 92, l’innovazione introdotta con il Qe è che la Bce integra la sua garanzia solo del 12 per cento, non del 20. E viene a cessare la mutualizzazione dei debiti di ciascuna Banca centrale nazionale nell’ambito dell’Eurosistema”. In breve, secondo Savona, “la Bce non fa più sistema ma distingue le responsabilità pro quota. Tale scelta, a voler interpretare le parole di Draghi, è un ovvio corollario, o meglio un chiarimento, della ‘coronation theory’ che regge l’euro. Quest’ultimo è una corona senza re, una moneta senza stato. Cos’altro può voler dire che ogni paese si prende pro quota la responsabilità nel caso di default sul debito o di rottura definitiva del sistema?”. Così si arriva al secondo corno del ragionamento, che riguarda l’Italia e un tema delicato: un club (monetario) senza possibilità d’uscita è insostenibile; ragionare su exit strategy possibili e quanto più ordinate è d’obbligo. Il Qe, però, compromette questa possibilità. Lo fa di soppiatto, ma in maniera incisiva: “La decisione di immettere base monetaria attraverso il canale dell’acquisto di titoli di stato, forse perché è l’unico pronto, per un totale di 30 miliardi da parte della Banca d’Italia, ha due conseguenze. Mina il bilancio di Palazzo Koch impegnando – in maniera obbligatoria, pare – le riserve ufficiali anche auree. E impedisce in futuro allo stato italiano ogni genere di rinegoziazione o di dichiarare default del proprio debito senza determinare gravi conseguenze anche per la ‘sua’ Banca centrale”. In sintesi: “Il Qe funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino- Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica”. Savona precisa di non essere tra quanti ritengono che l’uscita dalla moneta unica curerebbe il paese dalle sue storture. E’ convinto però che nel lungo periodo “con queste condizioni non si può escludere l’ipotesi che diventi necessario rinegoziare partecipazione all’euro e debito sotto stress speculativo”. Ergo – ragiona Savona che da anni invita la classe politica a dotarsi di un “piano B”, come secondo lui perfino la Germania non ha mai negato di aver fatto – “Matteo Renzi e l’Italia farebbero bene a guardare oltre l’entusiasmo contingente. Laicamente, restare pronti a tutto”.

Che fare, dunque? “Il Qe, come concepito, è una modifica costituzionale. Il nuovo presidente della Repubblica, Mattarella, dovrebbe impedirla, chiedere il rispetto delle procedure parlamentari per essa previste”. Savona aggiunge di essere “assolutamente favorevole” a che la Bce possa intervenire acquistando bond statali dei paesi membri quando questi si trovano sotto attacco speculativo. “Tuttavia sarebbe meglio che questi poteri venissero a essa attribuiti in modo chiaro, accogliendoli nello Statuto”. Da qui discende l’appello a convogliare la tensione politica generata dalla nuova crisi greca in un “grand bargain”, come lo ha chiamato l’ex primo ministro inglese Tony Blair. “Soluzioni erga omnes per correggere la ‘zoppia’ dell’architettura istituzionale dell’euro”, le chiama Savona citando Carlo Azeglio Ciampi. Il Quantitative easing di Draghi, quindi, ma rivedendo lo Statuto della Bce. L’espansione monetaria, certo, “ma collegando gli acquisti di titoli alla realizzazione del Piano Juncker d’investimenti europei”. Il pareggio di bilancio, ma con una “condivisione dei debiti pubblici in eccesso al 60 per cento”. Perché le opinioni pubbliche dei paesi nordici dovrebbero accettare di buon grado? “Perché un accordo a livello europeo non verrebbe vissuto come una concessione a questo o a quel paese ‘peccatore’. E perché dei dividendi della ripresa ci avvantaggeremmo tutti”, conclude Savona.

→  febbraio 7, 2015


DI LUCREZIA REICHLIN
Non c’è più molto tempo per salvare la Grecia: forse meno di una settimana. Se una soluzione non sarà trovata alla prossima riunione dell’Eurogruppo, Atene si ritroverà nel giro di pochi giorni a non poter ripagare il suo debito a scadenza. La posta in gioco è politica e economica. Ed è su entrambi i fronti che non bisognerà sottovalutare i rischi per l’Unione europea di una possibile uscita della Grecia dall’euro.
Le ragioni per lavorare e trovare un compromesso con il nuovo governo ellenico sono sia etiche sia pragmatiche. Per capirlo bisogna ripercorrere la storia recente.
C ome conseguenza di una politica di bilancio irresponsabile del suo governo e dello shock globale del 2008, la Grecia è di fatto fallita nel 2010. All’epoca, l’Europa per la prima volta si trovò ad affrontare la crisi di un Paese dell’unione monetaria e decise di impedire la ristrutturazione del debito di Atene. La scelta, probabilmente giustificata, era dettata dal timore di contagio ad altri Paesi. Si perdettero due anni, costati molto cari ai greci — 10 punti percentuali di prodotto interno lordo, secondo le stime dell’economista francese Thomas Philippon. Nel 2012 si finì per cedere all’evidenza e si trattò una delle più colossali ristrutturazioni di debito sovrano della storia: si trasferì gran parte dei costi dai creditori privati ai cittadini europei e la si accompagnò a un draconiano programma di austerità e riforme della Grecia monitorato dalla troika (Fondo monetario, Banca centrale europea e Unione europea).
Da allora la Grecia ha perso il 25% del Pil e l’occupazione è caduta del 18%, eppure Atene resta schiacciata da un rapporto debito-Pil che veleggia verso il 180%. La cosiddetta deflazione interna, necessaria per l’aggiustamento, c’e’ stata, ma le riforme, in particolare quella del Fisco, non si sono viste. La Grecia è di nuovo di fatto fallita.
Ora un nuovo governo propone di ripensare la strategia. La richiesta, se si guarda oltre i messaggi a volte infantili, a volte irrealistici, spesso solo provocatori degli uomini di Tsipras, non è del tutto irragionevole. Per due ragioni. La prima morale. La Grecia sta pagando costi extra per non aver potuto ristrutturare nel 2010, strada che avrebbe comportato conseguenze minori per l’economia, come insegna l’esperienza di molti Paesi emergenti. È giusto che quel costo, benché sia una frazione di ciò che i greci dovranno pagare per ritrovare la sostenibilità, sia sostenuto da tutti i membri dell’Unione.
La seconda è economica. La combinazione di riforme e austerità in un Paese con istituzioni fragili e una classe politica discreditata e corrotta non può dare risultati: la vittoria di Syriza lo testimonia. Per questo, ora, la ricerca di un compromesso realistico tra creditori e debitori appare meno onerosa del pugno di ferro. Il pragmatismo deve imporsi sulla volontà di punizione.
Tuttavia, un accordo tra Grecia e Paesi creditori — mi riferisco agli altri partner dell’area euro — deve essere basato su principi generali, senza i quali l’Unione non può funzionare.
Il governo di Atene non vuole un nuovo programma monitorato dalla troika. Chiede di costruire con i membri dell’eurozona un piano di riforme capace di aggredire le cause del fallimento dei precedenti esecutivi, in particolare su evasione fiscale e riforma del sistema contributivo. In sostanza un contratto che imponga obiettivi quantificabili e monitorabili, lasciando ad Atene la sovranità sulla via per raggiungerli. Per arrivare a formulare questo programma il nuovo governo greco chiede tre mesi e un finanziamento ponte che tenga il Paese in vita fino al raggiungimento dell’accordo. La Bce ha comprensibilmente detto di non poter fornire questo finanziamento. Rimanda la palla ai governi: ed è giusto, perché questa decisione coinvolge i contribuenti dei Paesi dell’Unione, quindi i loro rappresentanti politici. La scelta non è neanche della Germania, anche se il punto di vista del maggiore creditore di Atene resta determinante.
L’iniziativa del negoziato deve essere presa dall’Eurogruppo. Solo in quella sede si capirà se tra le prime, irrealistiche richieste di Atene e la durezza della posizione che pare emergere dai primi incontri di questa settimana, ci sia uno spazio per un accordo. Il percorso è difficile. Parte del programma di Tsipras (la riassunzione dei dipendenti statali per esempio) è inaccettabile. Ma è difficile anche per la spirale politica che comporta: ogni vittoria del nuovo governo di Atene si risolve, infatti, in un aiuto ai partiti anti-austerità oggi all’opposizione nel resto d’Europa.
Ma cosa succederebbe se la strada del negoziato non fosse battuta con convinzione e non si raggiungesse un accordo? Non ho dubbi: sarebbe una sconfitta politica ed economica per l’Europa. Come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times , la nostra Unione non è un impero ma un insieme di democrazie; per non fallirne il test fondamentale si deve trattare. Il percorso seguito finora non ha funzionato e ci sono ampi margini per un compromesso.
Ma c’è anche una ragione economica. Per i cittadini dell’Unione il costo di un’uscita della Grecia è piu alto di quello di un allentamento delle condizioni di rimborso del debito. Se Atene tornasse alla dracma, diventeremmo di nuovo un insieme di Paesi legati da un sistema di tassi di cambio fissi da cui un Paese può uscire in ogni momento. Tornerebbe anche per l’Italia quel cosiddetto «rischio di convertibilità» da cui Draghi ci mise al riparo nel 2012 con l’affermazione che l’euro sarebbe stato difeso ad ogni costo. Se la Grecia uscisse dalla moneta unica, infatti, perché escludere analogo destino per un altro Paese? La Commissione ha appena ricordato che la ripresa è fragile e la Grecia non è certo l’unico Paese potenzialmente a rischio. L’esperienza degli Anni 90 ci insegna che i sistemi a cambi fissi sono instabili, tanto da aver determinato l’esigenza della moneta unica. Tornare indietro sarebbe un errore che pagheremmo molto caro.

→  febbraio 3, 2015


by Martin Wolf

Maximum austerity and minimum reform have been the outcome of the Greek crisis so far. The fiscal and external adjustments have been painful. But the changes to a polity and economy riddled with clientelism and corruption have been modest. This is the worst of both worlds. The Greek people have suffered, but in vain. They are poorer than they thought they were. But a more productive Greece has failed to emerge. Now, after the election of the Syriza government, a forced Greek exit from the eurozone seems more likely than a productive new deal. But it is not too late. Everybody needs to take a deep breath.
The beginning of the new government has been predictably bumpy. Many of its domestic announcements indicate backsliding on reforms, notably over labour market reform and public-sector employment. Alexis Tsipras, the prime minister, and Yanis Varoufakis, the finance minister, have ruffled feathers in the way they have made their case for a new approach. Telling their partners that they would no longer deal with the “troika” — the group representing the European Commission, the European Central Bank and International Monetary Fund — caused offence. It is also puzzling that the finance minister thought it wise to announce ideas for debt restructuring in London, the capital of a nation of bystanders.
More significant, however, is whether Greece will run out of money soon. Most observers believe that Greece could find the €1.4bn it needs to pay the IMF next month even if the current programme were to lapse at the end of February. A more plausible danger is that Greek banks, vulnerable to runs by nervous depositors, would be deprived of access to funds from the European Central Bank. If that were to happen, the country would have to choose between constraining depositors’ access to their money and creating a new currency.
As Karl Whelan, Irish economist, notes, the ECB is not obliged to cut off the Greek banks. It has vast discretion over whether and how to offer support. The fundamental issue, he adds, is not whether Greek government securities are judged in default, since Greek banks do not rely heavily upon them.
Far more important are bonds the banks themselves issue, which are guaranteed by the Greek government. The ECB has stated it will no longer accept such bonds after the end of February, the date of expiry of the EU programme. If the ECB were to stick to this, it would put pressure on the Greek government to sign a new deal. But this government might well refuse. In that case the ECB might cut off the Greek banks.
This game of chicken could drive the eurozone into an unnecessary crisis and Greece into meltdown before serious consideration of the alternatives. The government deserves the time to present its ideas for what it calls a new “contract” with its partners. Its partners surely despise and fear what Mr Tsipras stands for. But the EU is supposed to be a union of democracies, not an empire. The eurozone should negotiate in good faith.
Moreover, the ideas presented on the debt are worth considering. Mr Varoufakis recognises that partner countries will not write down the face value of the debt owed to them, however absurd the pretence may be. So he proposes swaps, instead.
A growth-linked bond (more precisely, one linked to nominal gross domestic product) would replace loans from the eurozone, while a perpetual loan would replace the ECB’s holdings of Greek bonds. One assumes the ECB would not accept the latter. But it might accept still longer-term bonds instead. GDP-linked bonds are an excellent idea, because they offer risk-sharing. A currency union that lacks a fiscal transfer mechanism needs a risk-sharing financial system. GDP-linked bonds would be a good step in that direction.
Many governments would oppose anything that looks like a sellout to extremists. The Spanish government is strongly opposed to legitimising the campaign of its new opposition party, Podemos, against austerity. Nevertheless, Greece and Spain are very different. Spain is not on a programme and owes much of its debt to its own people. It can justify much of its policy mix in its own terms, without having to oppose a new agreement for Greece.
Two crucial issues remain. The first is the size of the primary fiscal surplus, now supposed to be 4.5 per cent of GDP. The government proposes 1.0 to 1.5 per cent, instead. Given the depressed state of the Greek economy, this makes sense. But it also means Greece would pay trivial amounts of interest in the near term.
The second issue is structural reform. The IMF notes that the past government failed to deliver on 13 of the 14 reforms to which it was supposedly committed. Yet the need for radical reform of the state and private sector no doubt exists.
One indication of the abiding economic inefficiency is the failure of exports to grow in real terms, despite the depression.
Indeed, Greece faces far more than a challenge to reform. It has to achieve law-governed modernity. It is on these issues that negotiations must focus.
So this must be the deal: deep and radical reform in return for an escape from debt-bondage.
This new deal does not need to be reached this month. The Greeks are right to ask for time. But, in the end, they need to convince their partners they are serious about reforms.
What if it becomes obvious that they cannot or will not do so? The currency union is a partnership of states, not a federal union. Such a partnership can only work if it is a community of values. If Greece wants to be something quite different, that is its right. But it should leave. Yes, the damage would be considerable and the result undesirable. But an open sore would be worse.
So calm down and talk. Let us all then see whether the talk can become action.