Bankitalia e il risiko delle Opa bancarie

ottobre 28, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Mercoledì 13 ottobre la Commissione Europea ha dichiarato contrario al Trattato di Roma il veto opposto dal governo portoghese alla scalata del Champalimaud da parte del Banco Santander; venerdì 22 ottobre il commissario Monti ha annunciato un’indagine per accertare se il fatto di essere di proprietà pubblica non dia alle Landesbanken tedesche vantaggi equiparabili agli aiuti di Stato. La Comunità ripropone dunque anche nel settore delle banche i due temi di fondo della rivoluzione che ha investito il sistema del le imprese europee: privatizzazione e liberalizzazione.

In Italia, per quanto riguarda la privatizzazione, venduto Mediocredito e sciolto con l’Opa di Generali su Ina l’ultimo legame del Tesoro con Bnl e Banco di Napoli, tra poco a rappresentare la presenza pubblica nelle banche resteranno solo più le fondazioni.
Per quanto riguarda invece la liberalizzazione, in particolare fusioni e concentrazioni, la Banca d’Italia è stata al centro di critiche sia quando ha negato il suo consenso — casi Sanpaolo-Banca roma e Comit-Credit — sia quando lo ha concesso — casi Intesa-Comit e ora partecipazioni bancarie di Ina. Il pregiudizio negativo che il Governatore ha dichiarato di nutrire verso le Opa ostili e stato prima criticato nel merito, poi preso come prova della volontà di controllare da Via Nazionale il riassetto del sistema bancario italiano; infine decodificato come mezzo per favorire tale riassetto secondo linee preferenziali.
Bisogna partire da un dato di fatto: piaccia o non piaccia, per il nostro ordinamento le banche non sono industrie come tutte le altre. La nostra Costituzione, che non considera il mercato un bene pubblico e la concorrenza una condizione da garantire, protegge invece il risparmio, dunque la stabilità delle banche che lo custodiscono. La stabilità è l’obbiettivo, la vigilanza è il mezzo per rilevare dall’interno e in anticipo ciò che potrebbe minarla. Piaccia o non piaccia, la legge pone il compito della vigilanza e della stabilità in capo a Bankitalía. Si possono volere priorità e attribuzioni di responsabilità diverse, magari per iniziativa degli organismi europei, la Commissione e la BCE. Ma finché le cose stanno come stanno, più che interpretare la psicologia del decisore, è il quadro normativo che si deve rispettare. E quindi si deve riconoscere che il pregiudizio negativo verso le scalate ostili è consequenziale a un quadro legislativo molto sbilanciato verso la stabilità: perché danno luogo a una battaglia dall’esito incerto, perché sottraggono mezzi finanziari trasferendoli dalla banca scalante agli azionisti di quella scalata; perché sconvolgono gli assetti organizzativi del management e quelli operativi dell’erogazione del credito. E del pari riconoscere che tutto ciò è stato reso esplicito e che le procedure per rendere il giudizio sono trasparenti, vincolanti e politicamente approvate dal Cicr.
È ovvio che questo pregiudizio ha un prezzo: le scalate amichevoli, le fusioni concordate tra azionisti (e management) delle due imprese mettono meno pressione verso l’efficienza. Per Marcello Messori («Il Sole 24 Ore» del 16 ottobre) questa impostazione ha portato ad assetti proprietari «frutto di una spartizione a tavolino piuttosto che di processi di mercato» col risultato di produrre una «soffocante ragnatela proprietaria che avviluppa da alcuni anni» i principali gruppi bancari. Il caso da cui prende le mosse la sua riflessione — l’accordo Generali Sanpaolo — non sembra particolarmente appropriato a illustrare la sua tesi; quella che Bankitalia ha ratificato è la conclusione — peraltro prevista da tutti i commentatori — di un’operazione di mercato par excellence: perché un’Opa sia ostile non deve necessariamente scorrere íl sangue. Alla fine di una rivoluzione che ha interessato l’intero sistema bancario, nel quadro di Messori figureranno cinque gruppi bancari: Sanpaolo-Napoli; Unicredito-Bnl; Comit-Intesa; Roma; Montepaschi. Cinque gruppi, una costante: tutti hanno come azionista principale la loro fondazione. Questo il dato macroscopico che la puntuale analisi di Messori manca di cogliere.
Il quadro diventa allora molto chiaro. Se il risultato di tanta rivoluzione è di avere cinque fondazioni prime azioniste delle cinque principali banche, esso non è dovuto alla volontà degli uomini di via Nazionale, che si sono limitati a suonare — magari mit innigster Empfindung — uno spartito scritto da altri. Chi critica Bankitalia in nome del mercato non può dimenticarlo. Né può criticare chi chiede al Tesoro di porre al primo posto, nel vendere Mediocredito, gli interessi siciliani locali, risuscitando così, a far da sesta, la Fondazione del Banco di Sicilia. E resta la curiosità di immaginare come molti di questi critici reagirebbero se una banca estera lanciasse un’Opa ostile su una nostra grande banca.
Il peso che ancora hanno le fondazioni negli assetti proprietari ci ricorda che la rivoluzione nel mondo bancario è innanzitutto una — tuttora incompiuta — privatizzazione. Stabilità degli assetti e integrità dei perimetri, questi i vincoli che il Governo si è dato nelle privatizzazioni. Nessuna legge lo obbligava a queste scelte: ma su come segmentare, prima di privatizzarli, i monopoli energetico, telefonico ed elettrico, che cosa scrivevano molti degli attuali volonterosi critici della prudenza istituzionale di Bankitalia? E sulle fondazioni come hanno votato? A ben vedere, tranne che con il metodo dei buoni di acquisto, ogni dismissione comporta un atto autoritario: nel definire che cosa è oggetto di vendita, nel modellare l’assetto di mercato, nel selezionare i partecipanti alla gara ed i criteri per l’assegnazione.
In tema di cambiamenti degli assetti proprietari la legge pone in capo a Bankitalia una duplice responsabilità: quella di certificare la correttezza delle procedure e quella di garantire la stabilità del risultato. La Banca non solo deve esprimere il suo parere sul progetto, ma — diversamente da tutte le altre autorità anche comunitarie — deve farsi garante del suo buon esito. Alle altre autorità che presiedono alla concorrenza o ai mercati regolamentati, la legge chiede di essere levatrici; alla Banca la lettera della legge e la costante interpretazione che ne dà la politica impone di essere tutore. Ciò comporta dare un giudizio su strutture e su uomini, sulla loro capacità di portare a termine vantaggiosamente processi complessi; giudizio che, nel caso di un’Opa ostile, non può che essere positivo sulle capacità di alcuni e negativo su quelle di altri.
In questa luce il pregiudizio negativo di Bankitalia verso le Opa ostili si rivela non come un atto di autorità, ma al contrario come il riconoscimento dei limiti di quanto un’Autorità può sapere e responsabilmente decidere, e di dove si deve fermare. Di fronte all’obbligo di farsi garante degli esiti di mercato, l’Autorità si dichiara capace solo di accompagnare il processo, non di deciderlo a favore di alcuni e contro altri. Il pregiudizio contro la più tipica delle operazioni di mercato si disvela come un omaggio al mercato: che deve trovare i suoi assetti non per le decisioni dell’Autorità, ma come risultato di milioni e milioni di scelte individuali.

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: